Le vicende che in questi giorni hanno riguardato la struttura di“Sangiorgio Gualtieri” ad Adrano e la sua probabile riapertura per l’accoglienza di minori (o forse in generale, “giovani” – punto controverso) extracomunitari ad opera di una cooperativa sociale, hanno dato il via ad un acceso dibattito tra esponenti politici, come tra cittadini, in seguito alla pubblicazione di un articolo da parte dell’associazione Obbiettivo Adrano e successivamente alla presa di posizione di alcuni consiglieri comunali. E’ stato tolto il coperchio ad una pentola già in ebollizione.

Precedentemente alla paventata ipotesi sopra descritta, le sorti della struttura in questione, chiusa da anni, dopo decenni di intensa e proficua attività per la gioventù e le famiglie del quartiere e non solo, non avevano suscitato particolare interesse in quasi la totalità di coloro che avrebbero dovuto avere voce in capitolo. La domanda è infatti la seguente: chi dovrebbe avere voce in capitolo?

Gli ambiti di discussione coinvolti dalla questione sono molteplici e quest’ultima sta diventando l’input ideale per affrontare territori mai esplorati dal povero, vicino all’essere assente, dibattito politico in città.

Peccato che alcuni siano caduti in facili trappole. Questo vale sia per i sostenitori che per gli oppositori.

In primo luogo è ravvisabile una scarsa consapevolezza del ruolo che si ricopre in coloro che, pur svolgendo funzioni pubbliche, sostengono di non avere alcuna voce in capitolo, responsabilità e addirittura nemmeno informazioni in merito alle sorti della struttura. Un luogo di rilevanza pubblica quale quello in questione, addirittura con pregresse indiscutibili finalità sociali, meritava e merita una doverosa e perenne attenzione da parte di chi ricopre un ruolo istituzionale e politico. Tale attenzione sarebbe dovuta tradursi in esplicita volontà e reale impegno per la sua riapertura, per continuare a portare avanti le finalità di solidarietà sociale promosse dalla fondazione, colmando i danni dovuti alla chiusura, pare, per mancanza di fondi. Ciò non è accaduto e la struttura di rilevanza pubblica e sociale ha incrociato l’interesse privato e orientato al profitto di un operatore economico,seguendo a ciò un accordo che prevede l’introito di una non indifferente cifra per la fondazione (40 mila euro perla concessione; cifra impeditiva per un normale soggetto operante nel volontariato) e l’impegno di ristrutturazione dell’immobile da parte della cooperativa.

Risiede qui il principale punto debole della vicenda: l’interesse privato non è stato controbilanciato da un intervento pubblico che assicurasse la corrispondenza delle azioni del privato alle esigenze della comunità ed in particolare del quartiere interessato. Gli interessi di mercato dei singoli prevalgono indisturbati, in assenza di una visione globale dello sviluppo del territorio che compete a chi ricopre un ruolo pubblico o politico. Non dimentichiamo che la Fondazione è un’IPAB, ovvero un istituto pubblico di assistenza e beneficenza e che, prima di essere commissariata (con Commissario regionale, quindi anch’egli inviato dall’ente pubblico), aveva all’interno del suo CDA anche la presenza del Comune di Adrano.

Questa vicenda ha messo in luce i grandi deficit della politica nostrana. Non è stato interpellato e reso partecipe nessuno. Dovrebbe essere noto che le misure calate dall’alto, soprattutto quanto si parla di assistenza unita all’integrazione, non funzionano. Dovrebbe essere assodato che compito principale degli amministratori locali e regionalisia quello di fare in modo ciascuna scelta, anche quelle in cui non sono coinvolti direttamente e formalmente, venga presa dopo una preventiva analisi del contesto e delle condizioni effettivamente esistenti. Questo non implica necessariamente che debba essere bloccata qualsiasi tipo di evoluzione, derivante cambiamenti locali, nazionali o, come in questo caso, internazionali (Chi potrebbe interpretare oggi la volontà dei fondatori nel senso di un’esclusione di bambini stranieri?). Ma inadeguata è quantomeno la scelta di non informare prima la comunità, di coinvolgerla, di prepararla alla novità.

Controllo e indirizzo: questo è sia il compito di chi amministra, di chi svolge funzioni di rappresentanza politica, degli stessi cittadini. Bisognerebbe inoltre domandarsi anche dove andranno e cosa faranno i minori una volta diventati maggiorenni e incalzare i livelli di governo più alti affinché ci sia chiarezza sul futuro di queste persone e delle comunità che le hanno ospitate.

Tali limiti si manifestano anche in altri ambiti: certe scintille positive che provengono dalla società civile non trovano sufficiente spazio e considerazione, se non nella frazione di un secondo, e si esauriscono una volta conclusasi l’iniziativa pilota, senza cogliere i segnali che ci indicano che molte cose si possono fare diversamente, anche nell’ottica di giusta commistione tra pubblico e privato, mettendo in sinergia le risorse umane e sociali, la forza politica e, a titolo di esempio, le numerose strutture di interesse pubblico appartenenti a fondazioni benefiche o alla Chiesa. Volare alto, immaginare nuovi modelli di azione, superando intoppi burocratici e banali contrapposizioni politiche, che troppo spesso frenano le spinte innovative (della serie “se non riesco ad arrivare io o chi per me ad un obiettivo, è meglio non far fare nulla a nessuno”).

Tornando alla vicenda relativa alla Sangiorgio Gualtieri, d’altro canto, si sono diffusi allarmismi di un’invasione straniera, ad opera anche di chi prova a cavalcare l’onda del populismo, oltre che fare prove di campagna elettorale: “non a casa mia”, “prima i nostri figli”, “che vadano da un’altra parte anziché togliere il pane a noi”. Sono considerazioni che, qualora il centro venisse in futuro attivato, potrebbero alimentare colpevolmente scontri e ostilità.

Allo stesso modo, additare sbrigativamente di razzismo, mettendo in un unico calderone anche chi vuole vederci chiaro sulla vicenda e aprire spazi di valutazione su decisioni prese in stanze private, non considera la complessità della questione e le variabili che incidono su un territorio.

Se il centro per minori richiedenti asilo dovesse alla fine realizzarsi, una possibile proposta potrebbe essere – una volta verificata o sanata la regolarità contrattuale e la conformità con le finalità statutarie della fondazione –  quella di consentire l’investimento da parte della cooperativa in attività socio-assistenziali per minori extra-comunitari,a patto che una parte della struttura venga riaperta alla frequentazione da parte anche dei minori adraniti. Si potrebbe inoltre invitare la fondazione proprietaria della struttura a devolvere i 40 mila euro annuali previsti per la concessione in attività e laboratori per tutti i frequentanti, condotti da enti di volontariato e/o dalle suore. Il centro, così creato, potrebbe diventare luogo di avanguardia per la sperimentazione di forme di aggregazione e integrazione tra varie culture, sottoposto allo sguardo vigile di più soggetti. Va da sé che presupposto essenziale affinché questo accada è che vengano attivate accurate selezioni di risorse umane, secondo reali competenze e professionalità.

Si può fare?

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Vanessa Aiosa via lagazzettacatanese.it