Il nostro ultimo articolo sulla centralità del ruolo del pater familias in seno all’antica famiglia patriarcale, e dunque, in seno alla società umana, ha suscitato un vivo dibattito tra i lettori e il sottoscritto, incentrato sull’inevitabile confronto tra l’antico modello dell’istituto familiare con l’attuale. Il dialogo si è focalizzato non tanto sull’evidente “mutazione” che tale istituto ha subito nel tempo, che nessuno contestava o metteva in dubbio, ma sulla qualità di tale mutazione. Forse, il parere espresso da ognuno degli interlocutori veniva parzialmente condizionato dalla formazione culturale, religiosa e, perché no, dall’eredità genetico cromosomica e dal collocamento personale del singolo nella variegata stratificazione sociale.

Quale sia il modo giusto di interpretare il ruolo del padre e della madre di famiglia e della stessa famiglia in seno alla società moderna, non è il compito che si vuole dare questo articolo, avendo lo Stato avocato a sé il ruolo di legiferatore in seno alla famiglia, emanando leggi che non riguardano solo l’aspetto giuridico ma perfino quello etico e morale, al punto da rendere possibili nuove formazioni di istituti familiari non tradizionali, cioè non necessariamente formati con un padre e una madre. Il compito che si vuole dare questo articolo è, piuttosto, quello dell’analisi del fenomeno, al fine di aiutare ogni individuo a scegliere autonomamente la via da percorrere, con il fine ultimo di costruire per sé un sano istituto familiare. Per questo ci limiteremo ad indicare esempi di realizzazioni familiari positive, guardando al passato e riflettendo su quelle incertezze che potrebbe riservarci il futuro per mezzo dei cambiamenti che si stanno apportando in tale secolare istituto.

L’istituto familiare non nacque in origine come una fredda e calcolata unione di due individui, così come potrebbe accadere per una corporazione di muratori che uniscono le proprie forze e idee per migliorare uno status sociale ed individuale. L’istituto familiare nasce quale atto naturale basato sulla naturale attrazione fra due individui, maschio e femmina, che procreeranno individui a propria immagine e somiglianza, creando in tal modo, istintivamente, le condizioni per la propria immortalità attraverso l’ereditarietà dei caratteri somatici e spirituali manifestatasi nei figli. Probabilmente l’osservazione di tali manifesti caratteri creò le condizioni per la nascita del senso del sacro e la famiglia fu considerata sacra in quanto veicolo di tale perdurabilità del sacro. La famiglia era sacra perché perdurava i sacri, distintivi caratteri del gruppo famigliare. In seno alla stessa dovettero nascere, per via intuitiva e percettiva, i ruoli che spettavano ai vari componenti della famiglia. Eviteremo di ripeterci qui sul ruolo del padre all’interno della famiglia, avendolo ampiamente documentato nel nostro precedente articolo; osserviamo solo che egli era pure sacerdote in seno alla famiglia, celebrava i sacrifici agli antenati, li evocava e mai avrebbe permesso ad un estraneo, ad un “prete”, di sostituirlo in un proprio intimo ed esclusivo rapporto con gli avi, al punto che, se fosse stato indisposto per infermità, tale ruolo sarebbe stato esercitato dal primogenito.  


IL MATRIARCATO

Ci si è chiesto se, in fondo, in una società sempre più violenta, qual è la nostra, l’avanzata del matriarcato non rappresenti un antidoto alla violenza, considerato che la natura della donna, della matrice che dona la vita e non la toglie, è di per sé protettiva nei confronti non solo della propria famiglia ma del consorzio umano tutto. Come se avessero udito i nostri discorsi, contemporaneamente i rappresentanti della politica romana si chiedevano, a loro volta, se non fossero maturi i tempi per eleggere un presidente della Repubblica donna. Nulla di male e nulla di nuovo in quest’ultimo quesito. Infatti la civiltà occidentale conobbe già, in altre epoche, ed in gran parte dell’Europa continua a sperimentare fino ad oggi, una guida politica e militare femminile. Il fenomeno del matriarcato è stato egregiamente analizzato dallo studioso svizzero J. J. Bachofen, con una capacità introspettiva dell’essere umano davvero stupefacente; condividiamo in gran parte la sua tesi, ma ci discostiamo da essa quando lo studioso presuppone una maggiore antichità del matriarcato rispetto al patriarcato e fa derivare quest’ultimo da un’evoluzione spirituale di quel modo di sentire. Noi crediamo, piuttosto, che l’univoco ordine superiore di concepire l’esistenza umana fin dalle sue origini presupposto dal Bachofen, avrebbe creato uno squilibrio, una disarmonia nell’ordine naturale delle cose. Infatti le due concezioni o visioni della società umana, non potevano che essere coesistenti fin da principio e, tutt’al più, alternarsi. Esse esistevano e coesistevano sin dalle origini, così come avviene per i poli di un magnete; parimenti, così come non possiamo dare un giudizio di merito a queste forze magnetiche, limitandoci, al fine di distinguere l’una dall’altra, ad indicarle convenzionalmente col segno più o col segno meno, eguale operazione va fatta per i due generi che caratterizzano la specie umana.

Nessuno, pertanto, si sognerebbe di affermare che la notte sia un male ed il giorno un bene, poiché si sa che entrambi sono necessari per l’equilibrio dei cicli circadiani che regolano la vita degli esseri viventi e dell’uomo in particolare. Tuttavia, se in pieno giorno si dovesse creare un’eclissi di sole, con un’anomala sostituzione del buio alla luce, tale interruzione sarebbe avvertita come una stranezza secondo il giudizio umano, seppur parte di un normale equilibrio cosmico. Partendo da tali presupposti, crediamo che il giusto interrogarsi intorno all’avvicendamento, nel consorzio umano, di  matriarcato e patriarcato, debba essere finalizzato a stabilire se esso avvenga armonicamente, come l’avvicendamento giorno-notte, o piuttosto se debba essere avvertito come un’eclissi in pieno giorno. Per comprenderlo non possiamo che consultare l’antica sapienza, ovunque essa sia stata depositata e da chiunque sia stata diffusa.       

Il Vico aveva cristallizzato nel suo celebre aforisma del “corso e ricorso storico” l’idea che circolarmente tutto si ripete, a intervalli di tempo. Aforisma con il quale si voleva sottolineare che, in questa naturale ciclicità degli eventi, l’uomo nulla può fare per impedire gli accadimenti stessi e ben poco per influire su di essi una volta manifestatesi. Infatti, dopo un terremoto si può riprendere a costruire, magari in maniera più sicura, ma non si può arrestare il fenomeno.

Secondo il teorema del libero arbitrio, con l’ausilio dell’intelletto l’uomo potrebbe correggere, parzialmente deviare o stornare, accrescere o indebolire i risultati che alcuni eventi, manifestandosi, possono causare. Il rimedio che impedisce il disastro per l’eccessiva caduta delle acque piovane non è, dunque, l’impedire di far piovere, poiché a nessuno sarebbe possibile farlo, ma quello di drenare, attraverso opere di impluvio, le libere acque piovane, onde smorzarne il disastroso furore che potrebbero ingenerare.

La nostra società, come è evidente, ha imboccato già da tempo la via che conduce ad un ritorno al matriarcato. Per tornare all’esempio meteorologico, siamo in una fase di scrosciante piovosità. Ma dovremmo, prima di esaminare questa nostra epoca governata dal matriarcato, dire cosa si intenda con tale termine. Vorremmo sottolineare che tale aggettivo può essere considerato un conio linguistico piuttosto recente e che, in ogni caso, la sua apparizione, non coinvolge l’universo degli esseri umani, nonostante le pretese di Esiodo e per quanto gli Indù abbiano teorizzato, per l’intera umanità, l’avvicendamento di quattro età. Secondo la teoria delle quattro età Indù saremmo, già da un lungo periodo, nell’era di Kali, la dea nera portatrice di confusione. Con il termine matriarcato deve intendersi, da parte dell’individuo, un atteggiamento o visione del mondo conservatrice e protettiva, tipica, appunto, della componente caratteriale della madre che accudisce, in un contesto di uguaglianza, quanti gli sono figli e che in ogni impresa intrapresa da uno solo di essi, pur se fosse essa apportatrice di miglioramenti, vede un potenziale pericolo. Sarebbe dunque un errore immaginarsi l’epoca in cui domina il matriarcato, come un’epoca di svirilizzazione dell’uomo in termini esclusivamente sessuali, esso deve intendersi piuttosto quale inclinazione spirituale dell’essere umano. Pertanto non si commetta l’errore di identificare il matriarcato con un atteggiamento i cui caratteri più visibili sono rappresentati dalla mollezza o effeminatezza dei costumi. La questione non è posta in termini di cromosomi. Infatti, il nerboruto Minosse che impose, grazie al peso delle sue armi e del terrore esercitato, tributi alla metà dei popoli che abitavano le coste del Mediterraneo, era re di Creta e i Cretesi, ci fa sapere Erodoto, al contrario dei Greci, chiamavano “Matria” la Patria e, in contrapposizione ai Greci, che rendevano onore ai Padri, essi lo rendevano alle madri. Costoro, venuti in Sicilia nel tentativo di assoggettarla, benché sconfitti dai Siciliani, vi rimasero e, come ci informa lo storico Diodoro di Agira, costruita la loro città in un territorio concesso loro dal magnanimo principe Sikano Cocalo, come primo atto di devozione alle potenze del sopramondo, che esercitavano il loro influsso sulla terra e sugli uomini che la popolavano, innalzarono templi alle madri. Questo scorcio storico, di cui ci informa Diodoro, serve a far intendere che il matriarcato non deve essere concepito come un atteggiamento o un tentativo di consapevole e voluta prevaricazione femminile sull’uomo, ma è da intendersi quale concezione o visione del mondo nella sua dimensione non solo terrena ma pure ultraterrena. Tale concezione, abbiamo detto, non viene influenzata dal corredo cromosomico ma piuttosto da quello spirituale. Il matriarcato ed il patriarcato sono delle visioni del mondo alle quali ogni singolo individuo aderisce non per altrui imposizione ma per affinità elettiva. Infatti, ogni individuo viene attratto dall’elemento a lui affine. Avere creduto “l’amazzonismo” un tentativo di prevaricazione della donna, inteso in senso assoluto, nei confronti dell’uomo è un errore! Esso fu semplicemente un’aberrazione, così come lo è l’attrazione che esercita il matriarcato nei confronti di taluni individui che pure, nelle loro sembianze esteriori, sembrano uomini, poiché di questi conservano gli attributi anatomici. Queste anomale posizioni, che in termini moderni potrebbero definirsi contro corrente, sono da considerarsi aberrazioni in quanto paragonabili ad opere incomplete della natura o peggio confuse, indefinite.

Ritornando sul valore semantico del termine Patria, non può passare inosservato che nel coniarlo si sia dovuto tentare un compromesso linguistico onde dare la possibilità alla parola, e dunque alla mente umana, di esprimere e comprendere concetti di ordine superiore, in origine pensati da dèi per essere compresi da altri dèi. La rielaborazione di tali concetti diretti alla mente umana, meno evoluta di quella degli esseri superiori (gli Elohim), avrebbe potuto aprire una breccia nella solida costruzione dei concetti metafisici fin lì costruiti, se vi fosse stato il benché minimo rischio di fraintendimento del concetto espresso. Così, dando dei connotati maschili (patria) ad un termine che nasce femminile (il genere è infatti femminile), si pensò potesse essere, più che un compromesso un atto equilibratore. I linguisti forse inorridiranno per quanto affermiamo, avanzando giuste osservazioni sull’inapplicabilità della grammatica italiana moderna ad una lingua scomparsa. Tuttavia, pur rassicurando gli accademici circa il fatto che il nostro è solo un gioco letterario, che trova in questo pregevole sito il fertile humus del piacere, su cui crescono rigogliose le piante della ricerca e della conoscenza, non può passare inosservato ai nostri lettori che Erodoto segnalava, già al suo tempo, una differenza nella concezione del mondo così come percepita dai Greci e dai Cretesi. La differenza, se non proprio linguistica, era di certo concettuale, poiché i Cretesi usavano il termine Matria per indicare la terra natia, piuttosto che il termine Patria, come usavano dire i Greci. Tenendo inoltre conto che i Cretesi risiedevano a Creta almeno da tre mila anni da quando Erodoto li descrive, potremmo supporre che la lingua  cretese, affine alla micenea (indicate, per convenzione, con lineare A e B dallo studioso M. Ventris), e i concetti originari che essa esprimeva, siano a noi pervenuti attraverso relative e ininfluenti modifiche linguistiche e per nulla con modifiche concettuali. Potremmo disquisire ancora su regole linguistiche che noi, in questo breve scritto, non avremmo lo spazio di argomentare sufficientemente e dunque ci presteremmo facilmente ad accuse ed ilarità gratuite. Un’ultima cosa vogliamo però dirla: anche nella lingua tedesca si notano uguali segni di questa anomalia linguistica. Infatti in questa lingua il sole, l’astro che tutti gli eroi dei tempi andati chiamavano “padre” e che ebbe per essi il senso della compiutezza spirituale, è utilizzato con l’ausilio dell’articolo determinativo femminile: “la sole”, die sonne. Dovremmo pur chiederci, a nostro modo di vedere, se “La sole, la patria” siano aberrazioni linguistiche o se questi nomi, che mutano lo spirito umano al solo loro pronunciamento, rappresentano il risultato di volontarie concessioni spirituali di un originario patriarcato ad un imperante matriarcato.
Rappresentano esse, forse, quelle mutazioni grammaticali ante litteram che si stanno riproponendo oggi, non senza orribili cacofonie, nella nostra grammatica contemporanea? La capa, la sindaca, la ministra ecc. al posto degli ormai obsoleti attributi di capo, sindaco, ministro rappresentano forse un’ulteriore concessione, sul piano orizzontale, di quello che “la sole, la patria” rappresentarono sul piano verticale? Tuttavia, dovrebbe farci riflettere il valore semantico del conio di questi nomi: in essi si evince che dovettero servire, in origine, per trasmettere l’idea che certe funzioni, di capo per esempio, erano state concepite per essere svolte dall’esclusivo genere maschile, l’adattamento al femminile è posteriore e comunque è inteso non in senso universale ma eccezionale e comunque non privo di una, seppur celata, diffidenza, dovuta alla percezione di un parossismo, di un’anomalia, che ha l’aspetto di evento momentaneo da assecondare ma non da codificare. Se ci è permesso il paragone in chiave moderna, è la stessa sensazione che si prova davanti ad una donna che guida un autotreno: nei suoi confronti si ha una sensazione mista tra l’ammirazione e la repulsione; ammirazione per il possesso delle indubbie qualità che deve avere per dominare la resistenza di quell’enorme automezzo, repulsione per l’inevitabile mascolinizzazione che quella attività ha dovuto infliggere al suo corpo e alla sua gestualità.  

Comunque sia, dovremmo sostenere che i Cretesi furono più coerenti dei Greci sia nell’uso della grammatica che nell’uso del lessico. Rimanevano, infatti, fermi sul corretto senso linguistico che indicava nella “terra matria” la vagina non solo del popolo ma di tutto ciò che nella terra cresceva e da essa proveniva. Essa, la terra matria, era infatti la generatrice di tutte le forme di vita, dalle messi agli armenti, fino agli stessi uomini. Essa dava la vita e se ne riappropriava, riassimilando gli esseri  nel momento in cui essi, morendo, tornavano alla terra. Eloquente è, a tal proposito, il simbolismo del chicco di grano che nasce, muore e rinasce, esemplificando il vichiano concetto dell’eterno ritorno. Se ci fosse possibile prendere per un attimo il posto di uno di quei costruttori di antichi miti, immagineremmo l’uomo originario, quell’uomo che si era estinto, nello stesso momento in cui sentì la necessità di coniare il termine patria, conservare memoria di un’antica sede ultraterrena: il Cielo. Dovette essere questo che per primo egli chiamò Padre. Non poche sono, infatti, le invocazioni di re Ittiti e mesopotamici al “padre Cielo”. Anzi, proprio il vocabolo sumero An è sinonimo di: “Cielo”, “Dio” e “padre” o “Avo”. In Giappone il re veniva appellato “figlio del Cielo”. Infatti in Giappone, più che altrove, si conservò l’idea di un’antica e originaria sede dell’uomo (o della dimensione superiore che egli avverte in esso e che identifichiamo con lo spirito) nel Cielo e per questo, fino all’abdicazione spirituale, avvenuta nella seconda guerra mondiale in seguito alla sconfitta, al re giapponese veniva attribuita un’origine divina e un’originaria propria sede in quelle altezze. Dunque si potrebbe concludere che gli uomini abitavano in origine il Cielo e che quello era il loro originario luogo “patrio”, mentre le donne abitavano la terra, questa era la “matria”, che faceva di loro altre madri. Potremmo dire che il Cielo sta al padre come la terra alla madre.

Una lontana eco di questi “assurdi” concetti che noi osiamo, anacronisticamente, esprimere, è pure contenuta in quel deposito di sapienza che è il libro dei libri: la Bibbia. Leggendo la Genesi si può constatare come, pure nell’antica conoscenza acquisita dai patriarchi Ebrei, in tempi antichissimi si fosse fatta strada l’idea che il cielo sia stato l’originaria sede di esseri che stabilirono, successivamente, di trasferirsi sulla terra. La Genesi narra dei figli di Dio – gli Elohim – i quali abitavano il Cielo e che si unirono alle figlie degli uomini che abitavano la terra. Pur non volendo prendere alla lettera quanto si dice in Genesi, evitando in tal modo di dare prerogative divine all’uomo rispetto alla donna, dal testo biblico si evince che questi esseri, abitatori del Cielo (angeli caduti?) o aventi in esso un luogo ideale di riferimento, innamoratisi delle figlie degli uomini, trasferirono la loro residenza o, in senso metaforico la loro visione spirituale dell’esistenza, nella “matria” delle loro spose, la terra. Dovremmo dedurre che, qui sulla terra, essi cercarono di ricostruire, nei limiti del possibile, le condizioni, non senza compromessi, che avevano lasciate nel loro “patrio” ambiente, il cielo.

Il primo atto da loro compiuto dovette essere stato dettato da un gesto d’amore: essi diedero luogo ad una parziale rinuncia -nella consapevolezza dell’impossibilità di fare della terra una copia esatta del Cielo – delle proprie prerogative di dominio assoluto della terra. Utilizzando al meglio la semantica, coniarono un termine che desse l’idea di una totale fusione tra i due generi, il maschile e il femminile, il cielo e la terra, l’uomo e la donna, il padre e la madre: “la patria”. Essendo il racconto di un’unione tra dèi con donne umane narrato dall’autore con veridica ed ispirata convinzione, essendo inserito in un testo dogmatico quale è la Genesi, noi intendiamo, da laici, utilizzarlo soltanto come metafora al fine di sviluppare un ragionamento che prenda in considerazione non una contrapposizione di generi che si disputano il dominio dell’universo umano, ma per cercare di individuare i ruoli su cui la condivisione della gestione dell’ordine del mondo si fonda e per  interpretarli al meglio.

La ricerca deve avere quale fine l’utile comune e perché questo si concretizzi bisogna stabilire o ristabilire un equilibrio ordinatore. La storia ci insegna che la rottura dell’equilibrio crea disarmonia, la disarmonia corruzione e la corruzione la fine. Ma se, da sempre, filosofi, teologi e pensatori d’ogni epoca si rifacevano ai primordi come al tempo in cui dominava l’equilibrio cosmico e se tutti i testi sacri del mondo parlano di un originario paradiso perduto, va da sé che la ricerca del periodo in cui l’equilibrio era connaturato all’individuo umano debba procedere a ritroso per farlo, se non coincidere, per lo meno avvicinare a quel periodo. Parlando di filosofi, come ignorare le ricerche introspettive effettuate da Platone, nel suo tentativo di costruire “lo Stato” perfetto? Volendolo utilizzare il filosofo per il nostro articolo, non potremmo ignorare il suo pensiero per ciò che riguarda la distinzione dei ruoli fra uomini e donne e fra gli stessi uomini. Parlando del miglior modo per reggere lo Stato da parte di un ordinatore, fosse egli re, magistrato o statista, raccomanda, per esempio a tali uomini di evitare di affidare il proprio figlio all’educazione delle donne poiché queste, essendo nella loro natura insita la dolcezza, lo alleverebbero fra le mollezze. Fu così che Ciro conquistò inutilmente popoli e territori per il figlio molle ed effeminato che, cresciuto con l’educazione fornitagli dalle donne di corte, non seppe trattenerli: “Conquistava per loro greggi e mandrie e uomini, non sapeva che quelli cui doveva lasciarli non erano educati all’arte dei padri” (Leggi III, 694\5). Il filosofo non era certo un misogino, intendeva semplicemente far comprendere che è importante tener conto del ruolo sociale a cui ogni individuo è chiamato a partecipare e che in virtù di esso bisogna tenere un contegno e conservare quell’equilibrio naturale che la natura infonde alla diversità di genere: alla donna spetta la dolcezza, all’uomo la durezza che gli eviterà la possibilità di cedimenti quando la fatica o le decisioni risolute gli si presenteranno innanzi.    

Ricerca dell’equilibrio

Abbiamo fatto riferimento all’equilibrio, per mezzo del quale, ogni atto che di esso si avvale raggiunge il proprio naturale compimento. Abbiamo fatto riferimento alla diversità di genere degli individui a cui la natura avrebbe attribuito e distribuito compiti che, se svolti nella loro pienezza, contribuirebbero a mantenere l’equilibrio necessario a ogni rapporto di forze che interagiscono tra loro. L’equilibrio sarebbe di per sé insito, quale fattore innato, nella stessa natura delle cose; basterebbe lasciare operare liberamente la natura, attenersi ad essa, lasciarsene guidare, lasciarla liberamente agire perché ogni atto rientri nel naturale disegno equilibratore della natura perfetta. Anche un atto compiuto per fini positivi, se sproporzionato, creerebbe egualmente squilibrio, disarmonia, così come lo creerebbe un atto che venisse volutamente compiuto per arrecare un danno. La domanda che l’attuale momento storico potrebbe suggerire di porsi è: oggi la società, la quale altro non è che una sommatoria di famiglie riunite in un grande consorzio umano, che condivide le stesse problematiche in ogni angolo della terra, avverte la rottura di un equilibrio nell’istituto familiare e per ricaduta in quello della stessa società? Essa è in grado di attuare una serie di comportamenti che vadano nella direzione opposta rispetto a quella che si sta percorrendo e che si è tutti concordi nell’affermare che condurrà alla dissoluzione globale di codesto istituto?

La tradizionale educazione familiare prodotta dagli avi aveva fatto sì che, nell’ambito di comportamenti ormai canonizzati, le azioni di ogni singolo pater risultassero idonee ad assicurare l’equilibrio familiare, il quale si rifletteva come un sacro riverbero nella società civile. Se il ruolo del padre nella società latina antica fu quello del sacerdote guerriero, quello della madre non poté essere stato che quello della sacerdotessa. Infatti il Flamine e la Flaminica erano, nella società romana, uniti in matrimonio col sacro rito della confarreatio; essi restavano in carica quali sacerdoti di Giove fintanto che durava il loro sacro matrimonio, il quale non poteva essere sciolto da nessuna carica temporale ma solo dal sopraggiungere della morte di uno dei due. Se il flamine perdeva la moglie doveva cessare il suo sacerdozio. Se il pater familias trovò nei campi di battaglia e nel culto dei Penati i punti di applicazione del proprio ruolo mondano, la madre non poté averlo trovarlo che nel focolare domestico. La madre, Vestale del tempio domestico, ove gli avi continuavano a dimorare in spirito, avvertì da “sempre” il proprio ruolo connaturato di custode del sacro scrigno che era la famiglia. Oggi la donna – non senza una mal celata complicità dell’uomo che, assediato dalla donna come una città, dentro le proprie mura, da un esercito armato, per amore, per debolezza o stanchezza le ha ceduto – ha deposto la chiave di casa che, un tempo, con orgoglio, portava appesa alla cintola, secondo l’uso della tradizione romana e germanica. La chiave della soglia, così vistosamente esibita, indicava il signoreggiare della donna oltrepassato l’uscio di casa o della trave, come usavano dire i Germani. La donna ha deposto la chiave e chiuso dietro le proprie spalle l’uscio, per intraprendere la scalata in quegli ambiti sociali che erano anticamente occupati dagli uomini in quanto era necessaria, per esercitare certi ruoli sociali, una buona dose di feroce combattività. Il desiderio di raggiungere cariche politiche, simbolo di prestigio sociale; l’esercizio del commercio nelle sue modalità più violente e l’ambizione di ricoprire cariche sociali di ogni genere, si sono impadronite della donna contemporanea la quale, pur di esercitarle, si è privata della propria femminilità, imitando o peggio facendo proprie le peggiori caratteristiche maschili. Il suo linguaggio, mutuato da quello del maschio aggressivo, è diventato scurrile ed arido; il suo stile di vita si è inevitabilmente mascolinizzato nel tentativo d’inseguire l’uomo fra le paludi in cui la società moderna sta costruendo i recenti edifici. È vero che, come abbiamo sostenuto sopra, ogni epoca storica conobbe tale sconfinamento di ruoli, ma le proporzioni erano, in passato, così ridotte e i patres così abili nell’agire che i casi isolati di queste attitudini femminili mascolinizzate, venivano metabolizzati dalla società patriarcale, rese innocue e ridotte a fenomeni irripetibili. Oggi  il fenomeno è dilagante, i patres si sono estinti  e la società non riesce più a metabolizzare queste ingerenze disarmoniche.

Noi non vorremmo essere così presuntuosi da sostenere, in questo articolo, d’essere nelle condizioni di aver la soluzione del problema per poter attuare un’inversione di tendenza di questo stile di vita. Vediamo piuttosto come unica soluzione possibile quella di un poter tentare di incanalare le libere energie di questo fenomeno nel solco tracciato dalla saggezza degli avi. Siamo consapevoli che questo tentativo, nel contesto attuale nel quale perfino il termine di “patria” potestà è stato cancellato, sia un’impresa titanica, già di per sé apprezzabile. Ci limitiamo, pertanto, consci delle numerose catene rivestite di modernità che imbrigliano il ruolo di padre, a fare appello alla famiglia tradizionale adranita affinché, a costo di correre il rischio di rimanere nello stesso isolamento in cui visse Lot nella corrotta città di Sodoma, sappia far fronte, nelle segrete stanze della propria dimora, ai tristi tempi che ci accompagnano in questo travagliatissimo inizio di secolo, ricordandosi che Adrano, in un antico passato, fu sede naturale di un equilibrio cosmico di cui l’ormai celebre spirale scolpita nei capitelli delle colonne rinvenute al Mendolito (vedasi Simbologia nell’Adrano arcaica), rappresenta il simbolo.  

– Francesco Branchina