Pubblichiamo un nuovo articolo del Prof. Francesco Branchina, attraverso il quale vengono forniti ulteriori elementi sulla probabile storia della nostra Adrano. 

ADRANO, L’AVO.

IL CULTO DI ADRANO NEL MONDO INDOEUROPEO

O vetusto Adranum, termine luminoso del mio viaggio

attraverso la Sicilia!

Io t’ho sempre davanti agli occhi, mai tu sarai da me dimenticato,

signore e dominatore d’una terra divina, sacra ai frutti d’oro

delle Esperidi. Io mi allontano sì, ma nell’orecchio mio

risuonano ancora i latrati dei cento molossi

cari al tuo dio e il canto augurale dei tuoi sacerdoti”.

Giovanni Paternò-Castello in visita ad Adrano (1907)

 

immagine postNon possiamo escludere che l’amore per la Patria potrebbe indurre un ricercatore a teorie preconcette, con l’effetto deleterio di viziare le vicende storiche da questi ricostruite, inducendolo a forzature interpretative dei fatti. È per questo che, volendo mantenere il sacro rapporto contratto con la Musa, cercheremo, assieme ai nostri lettori, di vagliare le diverse possibili interpretazioni della valenza cultuale del dio Adrano, il cui santuario era stato edificato dai Sicani, popolo facente parte della grande famiglia degli indoeuropei, nella città omonima.

I nostri studi ci hanno portato a concludere che il culto del dio non fosse limitato al solo territorio siciliano e che, identificato con diversi nomi o attributi, avesse un’area di influenza cultuale geograficamente molto estesa. Quest’area era occupata dai popoli convenzionalmente definiti, per le affinità che li contraddistinguevano, Indoeuropei, proprio perché si estendevano dall’estremo nord Europa fino all’India. A questa convinzione circa la centralità del nostro dio nel pantheon indoeuropeo, ha contribuito notevolmente, tra gli altri, il nostro Cicerone che, per inchiodare alle proprie responsabilità il pretore romano Verre, accusato di aver derubato le più importanti opere d’arte di Sicilia, fa cenno ad una statua involata, per volontà del pretore, dal tempio di Siracusa, raffigurante un dio pre-greco, detto Urio, dall’aspetto marziale, equiparato da Cicerone ad un ipotetico dio romano, Giove Imperatore. Diciamo ipotetico poiché non ci risulta che a Roma Giove sia mai stato celebrato con tale epiteto, utilizzato pertanto da Cicerone per alludere all’aspetto guerriero, “da imperatore”, della statua di Urio; gli imperatori d’altro lato erano sempre rappresentati con aspetto marziale e, dunque, muniti di lancia, esplicito simbolo di impero.

È lecito chiedersi come mai il tempio del dio Adrano, di cui la tradizione letteraria risalente a Ninfodoro, Plutarco, Eliano tramanda la magnificenza, non sia stato oggetto di rapina da parte del pretore romano. La risposta è semplice: dopo la chiusura al pubblico culto del tempio di Adrano, effettuata intorno al 213 a.C. per decreto dei Decemviri, al tempo di Verre, nel 73 a. C., il tempio ed il culto, se non proprio in disuso, avevano comunque cessato di essere al centro delle attenzioni religiose dei Siculi, la cui componente etnica era stata quasi assimilata alla componente greca, cartaginese, per quanto molto marginale, e romana. La presenza romana, in particolare, era attestata da oltre un secolo e mezzo nelle fertili valli del Simeto, come la presenza del prestigioso cavaliere romano Lollio, residente ad Adrano, dimostra. Persino alcuni liberti ormai dovevano essersi inseriti nella società locale del tempo, anche con ruoli di rilievo, visto che Verre, il cui braccio destro era un liberto, Apronio, secondo la ricostruzione dei fatti effettuata da Cicerone, si serviva di loro per perpetrare le sue malefatte. Al tempo di Verre, dunque, il tempio del dio Adrano nella città omonima era spoglio perché l’etnia sicula aveva ormai perso la propria identità e il culto pertanto era divenuto quasi incomprensibile; per questo motivo Eliano, descrivendo nel II secolo d.C. il culto del dio, può solo soffermarsi sugli aspetti pseudo miracolosi dello stesso, ormai venuti a far parte dell’immaginario collettivo, come nel caso della ben nota favola dei cani posti a guardia del tempio.

Per quanto al tempo di Cicerone il culto del dio Adrano appaia in declino nella nostra città, riteniamo che tale culto continuasse ad essere esercitato a Siracusa, presso il tempio sopra citato, in cui si celebrava il culto di Urio. Infatti il significato del nome Urio, con cui veniva indicato il dio siracusano dall’aspetto di “imperatore”, è di fatto assimilabile al significato del nome Adrano che, formato dai lessemi Odhr e Ano, non significa altro che “furore dell’Avo”; Urio, significa “l’Antico”, “il primevo” e di conseguenza “l’Avo”, l’antenato, colui che precede. Il tempio di Urio a Siracusa era pertanto il tempio dell’“Avo primevo”, il più antico, assimilabile ai templi dedicati al dio Adrano che si trovavano, oltre che nella nostra città, pure ad Alesa, città fondata da Arconide intorno al 403 a. C., nella costa tirrenica della Sicilia.

Cicerone, per mettere in rilievo il prestigio ed il valore, sia storico che artistico, della statua e rendere più odioso il furto di Verre, precisa che in tutto il mondo ve ne erano tre copie: una in Macedonia, una nel Ponto e una a Siracusa. Ma se la statua siracusana del dio dall’aspetto marziale come quello di un imperatore, presumibilmente munita di lancia, ritraeva, come riteniamo sulla base di quanto sopra affermato, l’Avo siculo, cioè Urio-Adrano, come mai si trovava nel tempio di Siracusa e non nel Santuario di Adrano, che era l’epicentro della religiosità sicana? Ricostruire i processi che collegano gli avvenimenti siracusani a quelli adraniti è cosa ardua ma non impossibile; chiediamo pertanto l’aiuto dei nostri lettori, certi che l’acume e l’ardore degli adraniti – attinti dal rinnovato fuoco che un nuovo vento, spirato dai lontani millenni, ha alimentato – li facciano diventare attenti detective della storia.

Sulla modalità con cui sarebbe avvenuto il passaggio del testimone ovvero il trasferimento della statua del dio da Adrano (denominata da Cicerone con il suo antico nome Etna, per ricordare i trascorsi antitirannici della città, che si era opposta a Dionigi come ora si opponeva a Verre) a Siracusa, possiamo fare delle deduzioni che traggono spunto da particolari momenti di crisi politico militare vissuti dalla nostra città. In poche parole la statua del dio Adrano, l’Avo, massimo simbolo di culto per i Siculi, potrebbe avere subito la stessa sorte occorsa all’Arca dell’alleanza, massimo simbolo cultuale per gli Ebrei, i quali, temendo che l’invasione Assira sarebbe stata causa di profanazione e distruzione dei simboli religiosi ebraici, la nascosero in una delle tante grotte del deserto palestinese e lo fecero così bene che non la ritrovarono più. Anche Adrano dovette temere la profanazione del proprio massimo simbolo religioso, visto che – dopo l’idillio che la città, allora chiamata Etna, ebbe col re siracusano Gelone a motivo della vittoria greco-sicula del 480 a. C. sui Cartaginesi – vari momenti di tensione politico militare tra Siculi e Greci determinarono aggressioni ai danni della nostra città da parte dei tiranni di Siracusa. La cittadina venne posta prima sotto assedio dal tiranno Gerone, nel 476 a.C., il quale ottenne che essa, allora chiamata Etna, fosse rinominata col suo antico nome Innessa e ospitasse al suo interno un presidio siracusano; poi venne assediata da Dionigi, intorno al 403 a. C., il quale, imitando Gerone, ottenne la rinominazione in Adrano e la solita presenza del presidio siracusano; successivamente da Iceta, nel 344 a.C., che però fu sconfitto; in ultimo dai Romani nel 264 e nel 213 a.C. Dal momento che, fino al 344 a. C., la statua del dio si trovava ancora nel tempio di Adrano, come è attestato da Plutarco, il quale racconta del famoso miracolo di cui questa statua si rese protagonista, riteniamo che l’emergenza per la quale si decise di trasportare la statua in Siracusa debba essere stata quella verificatasi nel 213 a.C. In questa data, infatti, avendo gli Adraniti scelto l’alleanza sbagliata, cioè quella con i Cartaginesi contro i Romani, e avendo questi ultimi creduto che la combattività inarrestabile dei Siculi venisse alimentata dal dio Adrano, venne decretata la chiusura del tempio da parte dei Decemviri, i quali traevano tale decisione dall’interpretazione dei libri sibillini. I Romani innalzarono così un muro tutt’attorno al tempio, i cui resti potrebbero essere quelli che si trovano sotto la teca di vetro all’ingresso del castello normanno, creando una sorta di campana di vetro attorno allo stesso, onde oscurare il dio e gli effetti temuti del suo culto, e impedendo ai cittadini di Adrano, così come a quelli degli altri paesi limitrofi, di recarvisi.

Ma per comprendere il motivo della persistenza del culto pre-greco in Siracusa bisogna fare un passo indietro. A Siracusa, nonostante nel 734 a.C. il corinto Archia si fosse imposto militarmente e politicamente sui Siculi siracusani, il culto tributato all’Avo non cessò mai di essere praticato da parte di quella minoranza politica di siculi che i greci chiamavano spregiativamente Killiroi (forse un equivalente del termine iloti coniato dagli Spartani per gli abitanti autoctoni di Sparta). La forte presenza del culto siculo, praticato in tutta l’area orientale della Sicilia, si evince dall’attestata presenza, nel V sec. a. C., di un alleato del siculo Ducezio, Arconide, che esercitava un ruolo predominante in seno all’etnia sicula, in ambito sia religioso che militare.

Arconide è stato definito dallo storico greco Diodoro, principe degli Erbiti. Noi, senza tema di errare, crediamo che Arconide possa essere considerato, oltre che principe, un pontefice (del resto l’associazione del potere temporale e religioso è comune al periodo regio e imperiale romano e alle abitudini delle popolazioni indoeuropee, nelle quali la carica di pontefice veniva rivestita solo dai rampolli delle famiglie aristocratiche). In seguito a comparazioni con l’area mesopotamica, di cui daremo più dettagliate informazioni nel prossimo articolo, riteniamo che gli Erbiti fossero una casta sacerdotale, il cui compito era quello di curare la parte cerimoniale del rito dedicato ad Urio cioè all’Avo primevo. La nostra attenzione si è soffermata altresì su una città attraversata da Timoleonte mentre si apprestava a combattere il tiranno Iceta, citata da Plutarco con il nome di Calauria. Se invertiamo l’ordine dei lessemi che compongono il nome della città, avremo: Uria-Cala, con la sconcertante conseguenza di ottenere un nome molto simile a quello che designa una categoria di sacerdoti mesopotamici, gli Urigallu (Uruk è il nome di una città mesopotamica sede del dio Anu). Si noti che, ancor oggi, esiste, nei pressi della costa tirrenica della Sicilia, vicino al luogo dove un altro Arconide, forse figlio del primo, fondò Alesa, innalzandovi un tempio al dio Adrano, un sobborgo che si chiama proprio Uria. Che il ruolo di principe-pontefice rivestito da Arconide fosse equivalente a quello dell’Urigallu mesopotamico, viene suggerito dal ruolo che l’Urigallu aveva a Babilonia, chiaramente descritto in una tavoletta cuneiforme interpretata dai sumerologi. Secondo tale traduzione l’Urigallu era a capo di certi Eribbiti (erbitten in tedesco significa “ottenere pregando, implorando”; Erbeten significa “ottenere con la forza”). Il termine Eribbiti, così come il termine Erbita, è riconducibile al tedesco Erbe, che significa erede; mentre Urio significa il primo, l’Avo primordiale, chiamato dai Greci Ur-ano. Nel nostro caso, il vocabolo Erbiti potrebbe intendersi dunque quale attributo che indichi gli eredi dell’Avo (Ano in antico alto tedesco) nell’accezione di continuatori della religiosità Sicana e, pertanto, sacerdoti.

Dunque potremmo ipotizzare che la casta sacerdotale degli Adhraniti – intuendo, in quel lontano 213 a.C., che in Adrano, in seguito all’espugnazione della città e alla chiusura del tempio da parte dei Romani, si stava verificando la fine di un ciclo, di una tradizione cultuale – avrebbe potuto aver preso la dolorosa ma necessaria decisione di trasportare la statua di Adrano-Urio a Siracusa, nel tentativo di prolungarne il culto altrove. Del resto Siracusa, nell’immaginario collettivo, era ritenuta una città inespugnabile, anche se, solo un anno dopo dal trasferimento della statua cadde in mano romana per il tradimento del siracusano Soside. Introdotta a Siracusa, la statua sarebbe stata affidata ai confratelli Erbiti, gli “Eredi”, che la posero nel tempio siracusano, dedicato al dio fin da antica data, e da lì il profanatore Verre l’avrebbe rubata.

Ma torniamo a Cicerone che, inconsapevole veicolo dell’ardore che sta rianimando l’antica stirpe sicula e risvegliando dal torpore il dio primordiale, definisce la statua di Urio, “Giove Imperatore”. Questa definizione induce ad attribuire alla statua del dio siracusano un aspetto marziale, coincidente con l’aspetto della statua del dio Adrano, come descritta da Plutarco ne La vita di Timoleonte, munita di lancia, oggetto simbolo, per Plutarco e per i Greci, “di dominio e di possanza” (vita di Dione) e dunque di imperio. Infatti il grande Alessandro, quando si avvia alla conquista dell’Oriente, pianta una lancia nel confine greco, intendendo con tale gesto che tutto ciò che avrebbe conquistato oltre quella lancia gli sarebbe appartenuto, in virtù dell’antico diritto di guerra e di conquista. Visto che a Roma non vi era nessun Giove che portasse l’epiteto di Imperatore, crediamo che il colto Cicerone, pretore in Sicilia prima di Verre e, in tale veste, conoscitore di miti e storie locali, sia greche che sicule, abbia coniato questo termine per esprimere l’aspetto guerriero del dio, simile a quello del dio Adrano, rifacendosi a Plutarco e alla concezione greca di imperio; così come nel chiamare, nelle Verrine, la città di Adrano col suo antico nome di Etna, crediamo che abbia voluto ricordare ai cultori di storia antica che la città aveva in passato contrastato i tiranni siciliani, ai quali paragona Verre nelle sue arringhe.

Cicerone, che era a sua volta un antiquario, aveva sicuramente collegato il culto di Adrano all’antico dio laziale Jano (Jah-Ano); non gli era sfuggita l’affinità tra il particolare dell’apertura della porta del tempio di Giano durante i conflitti e l’apertura delle porte del tempio di Adrano durante la battaglia contro Iceta. Non gli era sfuggito altresì il fatto che Tito Quinzio Flaminio, vinta la guerra macedonica, aveva fatto trasportare a Roma la statua di una delle tre copie presenti nel mondo della statua di Urio e l’aveva fatta collocare sul Campidoglio; non gli era infine sfuggita l’equazione secondo la quale Jah-Ano sta a Odrh-Ano come Urio sta a Sat-Urno. I Romani avevano due modi per rapportarsi con gli dèi stranieri quando introducevano a Roma gli dèi dei nemici: se erano ritenuti esotici o comunque non compatibili con i canoni religiosi romani, come nel caso della Giunone di Veio, di Cibele, di Iside, ponevano le loro statue sull’Aventino; se erano affini alla tradizione cultuale latina li ponevano sul Palatino. Non è un caso che gli dèi siciliani, a partire dal Tempio di Venere Ericina, fatto erigere da Scipione a Roma dopo la sconfitta di Canne, dalla copia della statua di Urio-Adrano-Giove imperatore, fatta trasportare da Tito Quinzio Flaminio dalla Macedonia, fossero stati posti sul Palatino; da ciò si deduce che i Romani collegavano la propria teogonia a quella siciliana.

Cicerone afferma che tre erano le statue del dio Urio-Adrano nel mondo; si trovavano in Sicilia, in Grecia e in Medioriente. Riteniamo che le tre città santuario, non citate da Cicerone, potrebbero essere identificate con Adrano (Innessa\Etna) in Sicilia, Dodona in Grecia, la mesopotamica Uruk in Medioriente. Il fatto che Cicerone affermi che la statua mediorientale si trovasse nel Bosforo, non significa che quella sia stata la sua prima collocazione, come non lo fu il Palatino per quella Macedonica. Tra il culto del dio praticato ad Adrano e a Dodona, si riscontrano varie affinità: la cinta muraria a protezione del santuario; l’identificazione arcaica del simulacro del dio con una quercia a Dodona, come affermato da Erodoto, ricorda l’affermazione di Cicerone, il quale narra che, nella piazza di Etna (Adrano), vi era un’imponente olivo selvatico sotto il quale Apronio, il liberto di Verre, riceveva i malcapitati e soprattutto trova riscontro con quanto narrato da Plutarco a proposito dell’identificazione arcaica, a Roma, di Giove con una quercia, inglobata da Romolo in un tempio da lui eretto. Il santuario di Dodona, citato da Omero, era il più antico (ur) della Grecia, esattamente come lo era quello di Adrano, per Ninfodoro e Diodoro, in Sicilia. Il nome del dio primordiale è identico per Greci e Siciliani: Ur-Ano per i primi col significato di “l’Avo antico”; Adhr-Ano per i secondi col significato di “furore o potenza dell’Avo”.

Sulla base di così grandi affinità tra Adrano e Dodona, comprendiamo meglio il motivo per cui Ducezio, principe e forse pontefice siculo, quando era in esilio in Grecia e progettava di fondare la città di Kalè Aktè, nella costa tirrenica della Sicilia, con il contributo dei Corinti, per trarre gli auspici si fosse recato a Dodona e non ad Eleusi, nonostante questa fosse diventata nel tempo più rinomata e frequentata, soppiantando la fama di Dodona.

Per ciò che concerne le numerose affinità tra Sumeri e Sicani, tra il dio mesopotamico Anu e quello Siciliano Adhr-Ano, entrambi effigiati con la lira, tra la casta sacerdotale mesopotamica, gli Eribbiti, e quella siciliana, gli Erbitei, tra la toponimia sacra mesopotamica, Aenna, Ebla, e quella siciliana, Enna, Hebla o Ibla rimandiamo la trattazione ad uno dei prossimi articoli.

Francesco Branchina