Nuovo interessantissimo articolo del prof. Francesco Branchina

A tre chilometri dal centro abitato di Adrano, sorge la Valle delle Muse. Lì vi è la dimenticata “Ara degli dei Palici”, realizzata su un gran masso di calcare, posto dalla Natura sul letto del fiume Simeto. In questo gran masso sono scavate due modeste vasche, poco profonde, poste l’una sopra l’altra e comunicanti tra loro tramite un foro. Ai lati della vasca soprastante, sulla roccia calcarea, si notano due fori rotondi, nei quali venivano calati i pali che sorreggevano una tettoia. Sotto questa tettoia, al riparo dal sole cocente, il sacerdote sacrificava la vittima prescelta, un toro o un agnello, al fiume Simeto, così come nella greca Ftia i giovani Mirmidoni sacrificavano al fiume Spercheo le loro bionde e fluenti chiome, secondo il loro uso. Il sangue della vittima, raccolto nella prima vasca, veniva convogliato nella seconda e da qui, tramite un foro da cui si allungava un canale che scendeva fino al fiume, scavato nella pietra, il sangue, colando lungo il grande sasso, alimentava le schiumose acque del fiume che, poco più sotto, a valle, avrebbero raggiunto, irrorandole, le fertili terre della valle del Simeto, accrescendo così le ricche messi degli Inessei (futuri Adraniti), abitatori  del regno dell’illuminato principe Teuto. 

L’epigrafe, incisa su nero basalto, sotto il quale sgorga acqua limpida, è distante qualche centinaio di metri dall’ara dei Palici, accanto alla quale scorre l’acqua di un’altra fonte; le due sorgenti erano anticamente chiamate “Fonti dei Palici”. Secondo il mito, queste due fonti altro non erano che i Palici stessi, trasformati da Zeus in acque sotterranee che ritornavano alla luce, onde sottrarli all’ira di Era, moglie di Zeus, la quale non aveva accettato e perdonato al dio la relazione con la ninfa Etna-Talia, dalla quale sarebbero nati i gemelli Palici. Questo mito si è protratto nel tempo, conservando tracce di sé anche nel nome dato alla contrada in cui sgorgano le due fonti, che si chiama appunto contrada Polichello. A sopravvivere, da oltre tre millenni, credo non sia solo il mito, ma il ricordo ancestrale di un rito di purificazione legato alle acque che sgorgano dalle due fonti, visto che, a distanza di così lungo tempo, molti Adraniti, vi si recano per attingere le fresche acque che da lì si originano, acque da preferire a quelle che, più comodamente, potrebbero essere prelevate dai rubinetti di casa propria. 

Ma non sono soltanto le fresche acque – che, se non proprio risanatrici, sono di certo ristoratrici – a costituire un richiamo per gli Adraniti. Infatti, gli spiriti più sensibili avvertono di certo la presenza delle antiche ed immortali Muse che, avendo rinunciato da tempo ai loro nove scranni scolpiti sul grande sasso di calcare (Petronio Russo, Storia di Adernò), si accontentano ormai della sporadica visita di pochi individui e delle loro meditazioni. Sono, questi individui, gli spiriti non ancora macchiati dal fascino che esercita l’effimero progresso; sono i bovari, eredi degli antichi siculi (sich khu, vaccaro); sono i coloni, che hanno il privilegio di avere lì i loro campi da arare; sono i poeti, che si lasciano prendere per mano e condurre dalle Muse ovunque esse vogliano, fra le ondeggianti cime degli alti frassini e le fresche sorgenti che, riversandosi nell’arteria principale, ingrossano l’ampio letto del fiume un tempo navigabile; sono i sacerdoti che non sanno di esserlo, i quali realizzano lì, inconsciamente, sull’altare del loro irruento spirito, i sacrifici graditi agli dèi, divorati dalle fiamme dell’innato proprio ardore; sono ancora gli instancabili ricercatori di tutto ciò che serve a riempire, seppur parzialmente, il loro senso di incolmabile vuoto: conoscenza, saggezza, virtù, pietas. 

Si avvertono Muse e Ninfe svolazzare fra le cime dei frassini e i rivoli d’acqua che precipitano dall’alta roccia lavica; fra tutte si avverte, imponente da ogni dove, la presenza di Lei, della ninfa Etna, sotto forma dell’immobile gigante pietrificato il quale, dopo aver irrorato e riempito la valle nei passati millenni col suo rosso, caldo sangue, sotto forma di antica lava ardente, ora come nero sangue raggrumato, si rivela a tratti sotto forma di nera roccia che,  sfaldata ormai in gran parte dall’inesorabile trascorrere dei millenni, si è trasformata in fertile terra. La ninfa accudisce ancora la valle, la preserva dai dissacratori figli della tecnologia che, come antichi barbari, tutto distruggono. La prima volta che vi andai, mi sentii un iniziato introdotto ai divini misteri e coloro che, a mia volta, vi conduco, debbono essere certo degli affini.

La Valle delle Muse sorge a poche centinaia di metri dall’ingresso della porta sud del sito del Mendolito, porta ove, su uno dei due torrioni eretti a sua protezione, era collocata la stele che portava incisa la preziosissima epigrafe sicano-sicula, di cui abbiamo tentato la traduzione già  proposta ai nostri lettori in uno dei nostri precedenti articoli. Dal preziosissimo libro storico del Sac. Petronio Russo, compilato alla fine del XIX secolo, apprendiamo che, fra la Valle delle Muse e l’ingresso dell’insediamento del Mendolito, sono state ritrovate numerose epigrafi, purtroppo non ancora decifrate.

Il famoso cippo S. Filippo, dal nome del proprietario del terreno ove il cippo fu rinvenuto, porta incise nelle sue quattro facciate epigrafi rimaste a tutt’oggi intradotte, anche a motivo della corruzione dei caratteri ivi incisi, dovuta al trascorrere del tempo. Se il nostro intuito non ci smentisse, potremmo ipotizzare di trovarci di fronte ad un’iscrizione quadrilingue, magari cartaginese, greca, siculo/sicana e infine latina. Del resto Virgilio e Plinio, nei loro racconti, hanno fatto riferimento a luoghi identificabili con la valle delle Muse (Virgilio, nel libro IX, v. 845, dell’Eneide fa riferimento all’Ara dei Palici, sulle rive del Simeto). Se così fosse avremmo la certezza che la Valle delle Muse potrebbe essere stato un luogo di culto in cui convergeva un credo comune a varie etnie. Tale convergenza di popoli diversi potrebbe essere stato causato dal fatto che il Mendolito rappresentava un importante crocevia per gli scambi commerciali. Noi crediamo che il periodo in cui tale luogo assurse all’importanza strategica che gli attribuiamo coincidesse con l’epoca del principato del sicano Teuto (cfr. Polieno, Stratagemmi), tra la fine del VII e inizio del VI sec. a.C.  L’epigrafe posta sulle mura dell’insediamento del Mendolito, caratterizzata da scrittura sinistrorsa e da un insieme di caratteri nei quali si legge con chiarezza il nome Teuto, lo confermerebbe. Del resto, che il culto del dio Adrano – il tempio del quale si trovava a soli tre km a monte dalla Valle delle Muse (venti minuti a piedi, dieci a cavallo) – fosse già frequentato da molte genti provenienti dai paesi limitrofi, si evince chiaramente dal racconto che Plutarco ne fa nella Vita di Timoleonte.

Se si considera inoltre che in questo luogo è stata ritrovata un’iscrizione in caratteri greci su un capitello di colonna, tradotta dal Sac. Petronio Russo con il nome “Ercole”, e che nei dintorni, come attestato dalla tradizione orale, della quale il nostro sacerdote si fa portavoce, sorgeva sia il tempio di Marte collocato geograficamente nei pressi della Fonte dei Palici che l’attuale chiesa di S. Domenica, ricostruita sulle fondamenta del tempio di Venere, si avvalora l’ipotesi da noi sostenuta e precedentemente formulata intorno alla collocazione geografica e simbolica dei templi rispetto alla città. Infatti si noti che in questa valle, cioè fuori dalle mura cittadine della vetusta città di Adrano, trovano collocazione templi dedicati a dèi esclusivamente stranieri, in massima parte greci e, nel caso dei Palici, probabilmente cartaginesi; quanto alla presenza delle Ninfe, il cui culto è di chiara matrice indigena, appare ovvia in un sito agreste. Il tempio per eccellenza, quello del padre della gente Sicana, dell’Avo primordiale, non poteva trovarsi invece che nell’acropoli, dentro la città, nel punto più elevato, dentro la cinta delle mura che, oltre a servire da baluardo da opporre ai nemici, costituiva un cerchio magico invalicabile.

Considerata la concentrazione di culti nell’area del Mendolito, nei pressi del fiume Simeto, non sarebbe peregrino sospettare che questo luogo fosse pure un emporio commerciale, nel quale avvenivano gli scambi commerciali fra città circostanti e popoli provenienti da altre aree geografiche del Mediterraneo, come già sostenuto in un nostro precedente articolo su “I Cilliri del Simeto”. Non perdiamo di vista infatti il punto geografico altamente strategico ove sorge il sito del Mendolito. Da qui si accedeva ai territori siculi che dal Mendolito si protraevano fino alla costa tirrenica della Sicilia, dove vi erano centri importanti quali Tindari, Alesa (fondata solo nel 403 a.C.), Cefalù, Himera, unica città greca, ma anche un’infinità di villaggi siculi citati da Tucidide e Cicerone. Ancora oggi questa via dell’entroterra che taglia i monti Nebrodi rappresenta un’importante arteria di comunicazione per accedere alla costa tirrenica, che consente di accorciare considerevolmente i tempi di percorrenza rispetto alla più comoda strada costiera. Si noti ancora che, a partire dalla valle delle Muse, il fiume Simeto, nel periodo di cui ci stiamo occupando, era certamente navigabile fino al porto di Catania, lo si deduce dalla distanza tra le due opposte rive del Simeto, le quali si rivelano all’osservatore corrose alla base dalle acque impetuose del fiume in piena. 

Con la collaborazione di qualche geologo, si potrebbero ricercare i segni della presenza di un possibile piccolo porto fluviale sul Simeto, dai quali trarrebbe ulteriore conferma la nostra tesi relativa alla presenza di una consorteria di portuali o barcaioli (i Cilliri), tesi fondata su considerazioni di carattere linguistico visto che il nome Cilliri, di cui rimane traccia nella città di Adrano, riconduce, in lingua nord-europea, ad un’area semantica che allude ad ambienti portuali (per approfondire l’argomento vedasi l’articolo: “I Cilliri del Simeto“). 

Crediamo altresì che il motivo per cui il sito del Mendolito non si sviluppò mai dal punto di vista architettonico, debba ricercarsi nel fatto che questo luogo rimase, come diremmo oggi, un’area di servizi per gli utenti e non divenne mai un vero e proprio insediamento. Qui si stoccavano le merci in arrivo ed in partenza, qui si potevano acquistare le vittime sacrificali, pecore, buoi, tori, colombi necessari per i sacrifici e che certo i supplici non potevano portarsi dietro dalle città di provenienza. Qui c’erano le fabbriche, i forni, i negozi dove si producevano e si vendevano gli ex voto per i pellegrini. Si spiegherebbe così anche il carattere piuttosto rustico dei manufatti che si ritrovano nell’enorme area del Mendolito, con le imperfezioni dei disegni sui vasi, con le colature di colore. Gli oggetti, del resto, rimanevano solo qualche giorno nella cella della dea, dopodiché, per motivi di spazio, i sacerdoti addetti al culto, erano costretti a rimuoverli per fare posto alle nuove offerte.

Quanto detto fin qui sulle Ninfe e sulle Muse – il cui culto veniva esercitato in quest’area del fiume Simeto che Virgilio, nel libro IX dell’Eneide, descrive boscosa (“Capi … l’aveva mandato di Sicilia il padre da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto, ov’è la mite, ricca di doni, ara di Palico”) – ci impone l’obbligo di indagare ulteriormente su queste divinità agresti, molte delle quali sembrano affini a quelle del mondo celtico, l’Irlanda in particolare. Terremo informati i lettori sui risultati delle prossime ricerche.

 

– Prof.re Francesco Branchina