Il 27 Giugno 2014 è stata svelata la targa con la quale, nel lontano 1929, alla nostra città veniva restituito il suo antico e prestigioso nome, Adrano, su istanza del consigliere Luigi Perdicaro. La targa originale, ormai illeggibile poiché, a guerra finita, era stata  cancellata dalle forze politiche uscite vincitrici dallo scontro bellico del ‘45, esattamente come facevano i faraoni egiziani per condannare a damnatio memoriae un predecessore scomodo, è stata sostituita da una targa fedelmente riprodotta da un artigiano adranita.

Nel 1929 il Consiglio comunale, accogliendo l’istanza, ispirata da ardore patrio e divino intuito, di Luigi Perdicaro, consigliere, umanista, avvocato, professore di greco e latino presso il Liceo Classico di Adrano, segnava il ripristino dell’antico nome della città, Adrano, derivato dall’omonimo nome del dio Sicano. Un rito evocativo, quello del ‘29, che si sarebbe ripetuto, nella mia immaginazione, ottantacinque anni dopo, il 27 giugno del 2014, giorno in cui l’antica targa sarebbe stata riportata a vita e ricollocata nel suo  sito; per questa ragione accettai orgogliosamente la proposta, rivoltami dall’Assessore Gullotta, di partecipare alla svelatura della targa in veste di relatore, pur intimidito per l’inevitabile confronto con i titanici relatori della proposta avanzata ottantacinque anni prima. Certamente riprodurre l’atmosfera sacra ed austera del lontano 1929, generata da uomini la cui levatura politica e culturale emerge chiaramente dalla lettura della delibera, sarebbe stato impensabile, ma ci si aspettava tuttavia una maggiore consapevolezza, da parte delle istituzioni e dell’intellighenzia adranita, circa l’importanza storica, simbolica e culturale della svelatura di una targa che segnava il ritorno della città, dopo un oblio millenario, al suo primo importante nome. Tale consapevolezza aleggiava invece, il 27 giugno del 1929, nell’aula consiliare di Adrano, quando l’avv. Luigi Perdicaro, indossati i panni del Vate e del sacerdote evocante, e l’intero consiglio comunale, esprimendo un consenso unanime, si riproponevano, attraverso il ritorno all’antico nome della nostra città, di ridestare la consapevolezza di un’appartenenza non certo etnica né tantomeno politica ma piuttosto spirituale ad una stirpe, quella adranita, che aveva negli antenati, e solo in essi, il proprio punto di riferimento. Si ricuciva in tal modo lo strappo con il divino e con la stessa storia di Adrano, durato un millennio a motivo della storpiatura del nome della città provocato dalla pronuncia nella lingua straniera dei barbari conquistatori. Nel 2014, cambiati gli uomini e le circostanze, sostituita alla sede dell’antico “parlamento” di patrioti adraniti una sala intitolata ad un cantante, il nome della città, pur correttamente pronunciato, perdeva tutto il potere semantico ed evocativo, poiché nessun ardore animava il rito, nessuna fiamma ardeva sull’altare della pacificazione adranita, nessun sacerdote detentore di riti ancestrali era capace di far rivivere gli Avi.

Per Lui, il togato Luigi Perdicaro, come per il pio console romano Camillo, fu vera più che mai l’espressione del gallo invasore: “Guai ai vinti”. L’uno e l’altro, patrioti in toga, andavano in esilio volontario, lungi non dalla Patria ma da cittadini irriconoscenti. Camillo fu detto secondo fondatore di Roma non perché salvò la città, ridotta in macerie dall’impavido barbaro gallo Brenno, ma perché ridiede i Penati – che i plebei volevano abbandonare a Roma per andare ad abitare nella ricchissima Veio, conquistata dallo stesso Camillo qualche anno prima – ai Romani, affinché potessero continuare a pregarli. Camillo ebbe il merito di riconciliare gli aristocratici con gli Avi, inducendoli a restare a Roma,  poiché solo in terra Patrum gli antenati avrebbero potuto sostenere i propri discendenti. Luigi Perdicaro, Camillo redivivo, il 27 Giugno 1929 rifondava in senso religioso la sua amata città, Adrano, riconciliando  l’Avo degli Adraniti, Adrano, col suo popolo, attraverso l’atto evocatorio intrinseco nella rinomi nazione della città. Al nostro ottimate di romana memoria, però, il fato destinava un temporaneo oblio. Io stesso, lo confesso, non ero a conoscenza della storia pubblica e personale di questo gigante adranita, ma l’antico detto, “guai ai vinti”, non si smentisce in nessuna epoca storica. Luigi Perdicaro, avvocato, umanista, professore, si trovava dalla parte politica uscita sconfitta dalla guerra: era dunque impossibile che quei plebei pronti ad abbandonare Roma per Veio gli riconoscessero il merito di gesta miranti solo al recupero spirituale di un popolo che, allo stato attuale, era interessato esclusivamente a banche e terreni. Veniva ignorata l’opposizione che egli ebbe l’ardire di fare perfino allo stesso regime fascista, cui i vincitori gli rimproveravano di appartenere, regime il quale, a volte, contraddiceva inspiegabilmente se stesso.  Infatti ci risulta incomprensibile il suggerimento che gli uffici romani del regime fascista rivolsero al podestà di Adrano in merito alla rimozione dell’Aquila[1] dallo stendardo adranita. L’umanista, il patriota “il sacerdote del dio Adrano”, il tradizionalista Luigi Perdicaro seppe, con ciceroniana oratoria, opporsi a quell’ingiusto decreto fascista e il nostro stendardo rimase a sventolare austeramente dal balcone del palazzo comunale, con la sua Aquila fiera, a simboleggiare che gli Adraniti possono sì rimanersene appollaiati sul ramo di un albero quali muti osservatori degli eventi, ma mai perderanno l’innato istinto di sorvolare le grandi altezze fino all’Olimpo, fino a guardar faccia a faccia lo stesso padre degli dèi, Zeus.

Il tempo è pur galantuomo! Ringrazio il preside Abbadessa, designato dall’imperscrutabile destino quale ambasciatore delle Muse, che presiedono al recupero della  storia patria dimenticata. Lo ringrazio soprattutto perché sono certo che la necessaria visibilità dell’esempio dei nostri maggiori andrà ad alimentare il sacro fuoco patrio che, pur ridotto oggi a lumicino, non potrà mai del tutto spegnersi. Testimonieremo, altresì, attraverso la nostra riconoscenza all’eroe sconosciuto, prof. Luigi Perdicaro, che le nobili azioni raramente vengono rimosse completamente dalla storia collettiva.

Ci si perdoni se alle tonache preferiamo le toghe, se alle banche gli altari della patria, se ai campi di fichidindia i campi dove si seminano idee e si raccolgono eroi, se, infine, all’Aventino preferiamo il Palatino. Ad ognuno il proprio terreno di coltura. A noi continua ad essere cara la coerenza e facciamo nostro il biblico detto: non si può servire dio e Mammona nello stesso tempo. Non soggiaceremo infine, al perfido gioco secondo il quale un’opera buona compiuta, come il dovere e la normalità impongono, da un uomo di chiesa venga additata come opera santa, mentre invece l’atto di un patriota che esprima religiosi sentimenti di amor patrio, possa essere ritenuto viziato da ideologiche strumentalizzazioni. Quale strumentalizzazione ideologica diversa da quella del patrio sentire potrebbe essere imputata al nostro eminente concittadino Luigi Perdicaro che, pur di tenere l’Aquila nel nostro stendardo comunale, si oppose al regime fascista? Quale ignominia commise nel fare riprendere alla città il fiero nome del dio che guidò gli Adraniti ad abbattere la tirannide siracusana nel 344 a.C.,  instaurando la democrazia?

Noi cittadini di quest’era senza ideali, al perenne seguito di un qualunque capopopolo che prometta uno sgravio economico, unica ragione che riempia le piazze, non potremo comprenderlo, ed anzi, al fine di conservare l’ultimo istinto di amor proprio, da abili parlatori quali siamo tutti diventati, faremo ricorso alle nostre capacità retoriche per giustificare la svendita dell’ultimo simbolo della ciclopica combattività della stirpe Adranita: l’aver attribuito al tiranno, piuttosto che all’abilità degli avi siculi, la costruzione delle MURA CICLOPICHE. Attenderemo forse mille anni, tempo trascorso per la rinominazione di Adernò in Adrano, per rinominarle Ciclopiche? Ahimè, non vedo però patrioti all’orizzonte, la nobile stirpe del concittadino Perdicaro, andato esule, come Scipione Africano offeso dai Romani[2], si è estinta e Adrano è abitata in gran misura da coloro i quali, scesi dall’Aventino, recriminano il loro moggio di grano. Per un moggio di grano cedemmo, in una città rimasta ormai senza esempi e senza eroi, uno dopo l’altro, tutti i simboli di forza che rendono grande e civile una città: l’ospedale, gli uffici del catasto, la Tenenza dei Carabinieri, la nostra nobile storia e infine la stessa memoria dei veri patrioti, quelli vittoriosi, quelli che, come Perdicaro, si aggrapparono tenacemente ai simboli cittadini che, grazie al loro coraggio, sopravvivono ancora oggi.

L’elogio dei vinti, dei perdenti, la tolleranza per i mistificatori raccoglitori di onori non meritati, il tripudio dei martiri, cedano il posto, in questa città temuta perfino dalla potenza romana e poi fascista, al riconoscimento dei suoi figli migliori affinché alle generazioni future possa essere consegnato un patrimonio di memorie, messaggi, simboli capace di ridestare la voglia di agire per vincere.

Francesco Branchina    


[1] Già nel 213 a.C. si era manifestata la paura romana nei confronti dei simboli di forza espressi dalla nostra città. Adrano e buona parte dei Siculi, infatti, si erano schierati con Cartagine. I Romani, non spiegandosi l’enorme forza combattiva degli Adraniti, la attribuirono al sostegno del loro dio, l’Avo Adrano. Decisero, con un gesto magico, di circoscriverne la potenza, costruendo tutt’intorno al tempio un muro di contenimento, una “campana di vetro” che impedisse alla forza del dio bellicoso di uscire al di fuori del tempio. Dopo la cessazione della guerra e la vittoria romana sui Punici, rimase il divieto di invocare Adrano in pubbliche assemblee. 

[2] Il padre del prof. Luigi Perdicaro si chiamava Scipione. In altre occasioni abbiamo sostenuto la validità del concetto, peraltro espresso nei libri sacri di tutto il mondo, dall’Avesta all’ Upanisad, secondo il quale nel nome vi è racchiuso un  destino. È altresì probabile che la formazione umanistica del prof. Perdicaro abbia condizionato le sue scelte, sia politiche che di vita personale, e che l’esilio volontario sia stato effettivamente da lui ricercato ad imitazione di Scipione Africano il quale, come il Perdicaro, non tollerò che si mettesse in dubbio la sua onorabilità e soprattutto il fatto che le sue azioni fossero motivate da un unico fine, l’amore per la Patria.