Con questo articolo intendiamo proseguire, attraverso le ricerche comparative sui testi classici letterari e religiosi dei popoli indoeuropei, nel nostro tentativo di separare il grano dal loglio, ossia di distinguere il mito, inteso nel suo significato più nobile, quale strumento atto alla trasmissione di significati metafisici, dalla rielaborazione fantastica che, a posteriori, si è sovrapposta al mito stesso, nella certezza che, in tal modo, renderemo giustizia ad un nobile popolo, il nostro, che per troppo tempo è stato inspiegabilmente ignorato dagli studiosi.

Per comprendere in modo pieno ed autentico il significato nascosto che il mito vuole comunicare, bisogna inevitabilmente penetrare il modo in cui l’uomo antico intendeva il mondo e il sovra-mondo, in epoche storiche in cui vigevano parametri di valutazione completamente diversi dai nostri, attraverso i quali era possibile rapportarsi con forze ormai non più percepibili dai moderni. Per l’uomo antico, il mondo e ogni singolo atto quotidiano venivano vissuti religiosamente; l’esistenza individuale si configurava, nella società sicana, come parte di un percorso collettivo, familiare, tramite il quale l’erede continuava a tracciare la “via solare” intrapresa dall’avo. Non dissimile il pensiero espresso dai Veda nella Bhagavadgītā, Canto I, 40, sulla famiglia: “Con la distruzione della famiglia perisce anche l’ordine sacro che deve reggere perennemente la famiglia; distrutto l’ordine, il disordine, sicuramente, domina la famiglia tutta”. Iscrizioni apposte su tegoli funebri che celebravano il defunto, ritrovati nel territorio di Adrano, che fanno riferimento, secondo la nostra interpretazione, ad un “viaggio verso il regno del sole”, il simbolismo del sole impresso in migliaia di pesi da telaio e anfore,  confermano l’interpretazione secondo la quale la cultura sicana associava alla luminosità dell’astro, creatore di vita, quella del proprio ruolo sulla terra, quale mezzo e strumento  equilibratore delle forze cosmiche, come spiegheremo meglio più avanti.  

Abbiamo, in altra sede, affermato, utilizzando soprattutto argomentazioni di carattere linguistico, che  la religione sicana si basava sul culto degli antenati. Adrano era infatti l’Avo per eccellenza, il primo uomo creato, il padre della stirpe. Morendo e avendo superato con successo le prove che gli avrebbero permesso di oltrepassare la soglia dell’al di là, egli acquisiva il potere di guidare i propri discendenti lungo la “Via” dell’oltre tomba, verso il “regno della luce”. Custodi di tale via erano proprio i cani di cui l’Avo sicano Adrano si circondava, ai quali spettava condurre le anime degli uomini defunti per la giusta via.

Il mito dei cani del dio, giunto sino a noi tramite Ninfodoro ed Eliano, viene purtroppo banalizzato da quest’ultimo. Lo stoico, vissuto nel II secolo, si occupava dello studio del comportamento degli animali, dei quali voleva dimostrare la particolare sensibilità. Proprio per questo fine Eliano estrapolò, dal ben più ampio racconto dello storico Ninfodoro intorno al mitico tempio del dio Adrano, solo le informazioni relative ai cani posti a custodia del tempio; dai due studiosi apprendiamo che i cani erano mille, erano capaci di distinguere i buoni dai cattivi e di riaccompagnare a casa gli ubriachi. È per noi sufficiente il riferimento, contenuto in Eliano, alla capacità dei cani di distinguere i buoni dai cattivi, per collocare il culto di Adrano tra i miti di matrice indoeuropea derivanti da un’unica primordiale tradizione comune. Infatti, lo stesso tema del cane che distingue i buoni dai cattivi, viene più seriamente trattato in testi religiosi quali i Veda. In questo antico testo indiano, Yama, figlio del sole (Surya), considerato il padre della stirpe Veda, come Adrano lo era dei Sicani, presiede alla porta che conduce nell’al di là, con il compito di giudicare le anime, con l’ausilio dei suoi due cani, uno nero e l’altro maculato.

Significativo e pertinente è pure il mito del dio veda Indra, unico uomo divenuto dio, in seguito alla sua capacità di uscire vittorioso da un confronto dialettico col dio creatore. Nel mito veda, anche Indra custodisce la via per l’al di là grazie a due cani. Nemmeno l’Avesta è privo di un elogio del cane che, rivestito di particolari caratteristiche, è connesso al culto dei morti. Nel testo, di cui molte parti compilate dallo stesso Zarathustra, il sacerdote-mago della religione persiana dedica diversi capitoli al cane; troppi, se quello di Zarathustra fosse un puro e semplice elogio di un animale, sia pure fra i più affezionati all’uomo, adeguati qualora nel cane si sappia intravedere il medesimo simbolismo religioso rilevato in altri testi sacri. Poiché i Veda e l’Avesta sono testi complementari e riconducibili – come abbiamo dimostrato nel nostro ultimo saggio [1], disponibile presso la Biblioteca comunale di Adrano – ad un’unica concezione religiosa del mondo, dalla quale non sono esclusi i Sicani, ne consegue che l’atteggiamento dei cani del dio Adrano, capaci di distinguere i buoni dai cattivi, è assimilabile a quello dei cani di Indra e Yama. I cani del dio Adrano, l’Avo divinizzata, sono, pertanto, come quelli del dio Indra e del re Yama, i custodi della “via” che porta nell’aldilà. Adrano era per i Sicani il primo che, percorrendo la suddetta “Via”, poteva mostrarla ai defunti meritevoli, che i cani avrebbero saputo individuare.

Significative inoltre alcune preghiere vediche recitate dal sacerdote al capezzale di un uomo morente; il sacerdote, consapevole che la morte prematura avrebbe impedito dsall’uomo di adempiere pienamente al destino per cui era stato chiamato, intende richiamarlo alla vita e pertanto lo invita ad evitare i due cani posti a guardia dell’oltretomba: “Dai due cani da guardia di Yama, possa tu essere in salvo!” (Atharva Veda VIII,9). Significativo inoltre che, all’interno di questa ed altre preghiere vediche, si ravvisi frequentemente l’augurio che il defunto possa pervenire al “regno del sole”, non diversamente da quanto crediamo di poter leggere in più di un tegolo funebre di epoca Sicano-Sicula, uno dei quali ritrovato ad Adrano, l’altro a Gran Michele; in questi tegoli si può leggere infatti la frase “resesanirisbe” ovvero, secondo la nostra interpretazione,  “viaggio verso il regno del sole”, dal germanico reisen viaggiare, san sole e rix regno. 


[1] F. Branchina, La lunga notte. I Veda, l’occidente e la trilogia delle razze umane, Ed. Simple

La significativa presenza dei cani nella letteratura antica trova comunque ulteriori testimonianze. A guardia della porta della reggia di Alcinoo, re dei Feaci, vi sono due cani, uno d’oro, l’altro d’argento, forgiati dalla mente eccelsa di Efesto (Odissea – VII,90). Eroi omerici, nell’Iliade, giunti al culmine di epici scontri con valorosi nemici, non esitano a prospettare al rivale la terribile prospettiva di una morte senza onori funebri e, soprattutto, di un corpo privo di vita divorato dai cani, quasi ad anticipare il severo divieto all’ingresso nell’aldilà. Nella mitologia greca il cane Cerbero era custode del regno dell’Ade. Il suo compito era di impedire alle anime di tornare indietro una volta entrate, esattamente come nella cultura dei Veda, come lascia intuire la raccomandazione del sacerdote al defunto di evitare i due cani al fine di tornare indietro, nel mondo dei vivi.

Presso i Persiani il cane aveva il compito di fare sparire i morti. In Egitto è lo stesso dio Anubi ad avere la testa di cane. Anubi, nome formato dal lessema Anu (che è presente anche in Adrano, Urano, Jahno, Anu, dio mesopotamico) e dal lessema uban (sopra, alto, in antico alto tedesco) significa, secondo il nostro metodo interpretativo, il dio supremo, il più elevato, colui che sta in alto, colui che presiede. Questo dio è, infatti, a guardia della soglia varcata la quale si entra nell’al di là, in alto, nel mondo superiore, nel cielo. Il dio Anubi, dalla testa di cane, accompagna personalmente il defunto al cospetto di Osiride, dove avviene la pesatura del cuore del defunto. In un piatto della bilancia viene posta una piuma, che rappresenta le buone azioni compiute dal morto in vita, sull’altro piatto viene deposto il cuore del defunto. Per essere accolto nel regno degli dèi, è necessario che  i piatti rimangano in equilibrio.

Nella mitologia nordica il cane è sostituito dal suo “parente” più prossimo, il temibile lupo, in conflitto anche con gli dei. Il lupo Fenrir, secondo la profezia, sarebbe rimasto legato ad una catena, al fine di contenere la sua terribile aggressività, fino alla fine del mondo, quando si sarebbe liberato, attaccando gli dèi e divorando lo stesso Odino.  

Anche nell’astronomia dei popoli antichi si rilevano tracce della presenza del cane quale elemento collegato al transito delle anime. Si pensi alla costellazione di Orione, il dio cacciatore egiziano, con i suoi due cani al seguito: la costellazione del Canis Major e del Canis Minor. Della costellazione del Cane Maggiore fa parte Sirio, la stella più luminosa, alla quale Omero paragona Achille, apostrofato “cane”, con allusione alla sua luminosità, in quanto si presenta al cospetto di Ettore con la propria chioma bionda, lo scudo e le armi d’oro fuse personalmente da Efesto, il dio fabbro.

Ma naturalmente, per i sacerdoti Adraniti, il ricorso all’allegoria del cane quale custode della porta che introduce all’al di là costituiva solo una necessaria mediazione del culto, affinché fosse compreso dal popolo. La via degli antenati perseguita dai Sicani, istruiti dai sacerdoti Odhr-an-hiti, era la necessaria conseguenza della tradizione, secondo la quale il padre della stirpe era riuscito a rendersi simile agli dèi, partecipando del regno della luce, che aveva la sua sede nel cielo. Gli Adraniti, in poche parole, sull’esempio del loro dio-antenato, avevano riposto la capacità di ascesi in se stessi e nella propria capacità non già di implorare l’aiuto degli dei, bensì di seguire la via dell’Avo. Per questo motivo non è arrivato fino a noi alcun pantheon sicano paragonabile a quello greco-romano o di molti altri popoli, bensì una sorta di triade, Adrano, Etna, Palici, che rappresenta il prototipo della famiglia sicana, formata da padre, madre e i due figli gemelli. Il concetto di un uomo capace di conquistare l’Olimpo con le proprie forze può forse scandalizzare oggi quanti, abbracciando il concetto di “grazia”, ritengono impossibile per l’uomo raggiungere autonomamente la salvezza; eppure antichi autorevoli testi sacri continuano a comunicare ai lettori disposti a recepirne il messaggio il concetto della consustanzialità del divino nell’uomo.

LA RELIGIONE SICANA E  IL RIPRISTINO DELL’EQUILIBRIO COSMICO

I sacerdoti Adraniti scomparvero, come scomparvero i Druidi e i Magi, portandosi dietro tutto il loro vasto sapere. Noi Siciliani siamo stati assai più sfortunati di altri popoli, quali gli Indiani, i Persiani, i Babilonesi, che hanno la possibilità di attingere a libri millenari un sapere che funge da cordone ombelicale tra l’uomo e il divino. A noi fu precluso tale aiuto, ecco perché sarà più eroica la nostra ricerca. Come Telemaco, non ci rassegneremo alle dicerie che davano il padre per morto, ma cercheremo ovunque ciò di cui siamo parte e continuità, poiché sappiamo che uno spirito non può morire.

Ano era l’Avo, questo è il significato del lessema nell’antica lingua nordeuropea; ma perché fu appellato Odhr, furioso? È certo che tale appellativo fu introdotto dalla casta sacerdotale, l’unica a poter dare attributi alla divinità, in riferimento a qualche episodio che dovette offendere o ferire il dio; similmente il dio Poseidone, soprannominato lo “scuotitore della terra” o “mare moto”, deve il suo nome alla reazione palesata in seguito ad un’offesa ricevuta. Infatti Böse-eidon, o Poseidone in greco, deriva da böse, arrabbiato, cattivo, infausto, adirato, furioso, e eid giuramento: con tale nome si allude pertanto ad un giuramento non mantenuto, come quello cui si fa cenno nell’Odissea. Nel testo epico si legge di un giuramento o a una promessa dei Feaci a Poseidone, mai mantenuta, in seguito alla quale il dio prima o poi avrebbe distrutto con un mare moto Scheria, città dei Feaci che noi abbiamo identificato con Sicheria (sichereit in tedesco significa sicurezza) ovvero Siracusa, come dimostreremo in uno dei prossimi articoli. Qui infatti si praticava il culto del dio Urio, come apprendiamo da Cicerone, nome che significa, in lingua germanica, antico, primordiale, così come “antico” viene appellato Poseidone sia nell’Odissea che nell’Iliade. Probabilmente i Sicani-Feaci o, come li chiamavano i Greci, Killiroi, che costituivano la componente etnica minoritaria di Siracusa, continuavano a praticare, undici secoli più tardi rispetto alla narrazione omerica, il culto del dio Böse-eid-one/Urio, che evidentemente e per fortuna, magari grazie proprio al culto riservatogli, non aveva mantenuto il proposito di distruggere la città di Scheria\Siracusa.  

Ricostruire in profondità il culto del dio Adrano è un’impresa ardua, dal momento che nessuna notizia diretta è giunta sino a noi; tuttavia dagli storici apprendiamo che il suo culto era antichissimo (Ur) e che “era un dio grandemente onorato in tutta l’Isola” e, aggiungiamo noi, al di là degli stessi confini dell’isola. Abbiamo più volte affermato che Ur-Ano, Jah-Ano, Adhr-Ano sono nomi diversi per indicare lo stesso dio primordiale presso rispettivamente Greci, Romani e Sicani; inoltre M-anno è il padre delle stirpi germaniche e M-anu è il padre dell’umanità, secondo il mito del diluvio indiano. Se è vero, come crediamo, che tutti i popoli indoeuropei sono accomunati dal culto di un unico dio primordiale, sarebbe possibile ricostruire tale culto tramite uno studio comparativo. Emergerebbero alcuni semplici elementi comuni: un’ara all’aperto, in un boschetto sacro; una vittima sacrificale, il toro; delle invocazioni per chiedere la protezione del dio.

Noi sappiamo come tutte le religioni, antiche e moderne, perseguano due vie, una exoterica, visibile, tutta in discesa, da fare percorrere alle moltitudini dei fedeli, fatta di processioni, canti e lodi e una misterica o esoterica, perseguibile da pochi individui iniziati dagli stessi sacerdoti, i quali sono gli unici custodi di tali segreti. Abbiamo buone ragioni per credere che i segreti custoditi dai sacerdoti Adraniti non saranno mai più svelati, essendo questa casta estinta; ci restano però i simboli che utilizzarono: la spirale, la croce inscritta nel cerchio, attraverso i quali possiamo ancora percepire il potere che essi erano capaci di esercitare sul piano metafisico.

Dicevamo che tutto è perduto, tuttavia, raccogliendo i dati, pur isolati, tratti dalla letteratura (Plutarco in particolare) è possibile una parziale ricostruzione del mosaico religioso sicano, dal quale scaturisce la rappresentazione di una casta sacerdotale che aveva scelto di percorrere una via tutt’altro che violenta, nonostante l’attributo di furioso SadasdOdhr apposto all’Avo. Proprio perché il dio era “furioso”, i sacerdoti Adraniti volevano intraprendere una via di riconciliazione attraverso elementi di abbonimento, come l’utilizzo della lira dimostrerebbe. Questo strumento, del resto, veniva utilizzato anche da Davide per eliminare gli spiriti cattivi che frastornavano re Saul, dalla casta sacerdotale babilonese degli Erbitti, per rabbonire il dio Anu e dai sacerdoti Erbitei della città siciliana di Erbesso, come conferma la nostra recente scoperta dell’esistenza di una moneta in cui è effigiata la lira, il cui conio è attribuito appunto alla città di Erbesso. Ancora una volta risulta confermata la nostra convinzione circa le relazioni di consanguineità che intercorrevano tra Sumeri e Sicani e le rispettive caste sacerdotali, con la differenza che i sacerdoti Adraniti avevano fatto la scelta di seguire la via della non belligeranza e di perseguire il ripristino dell’equilibrio cosmico effigiato simbolicamente nelle spirali. Mentre gli An-nun-aki, nel cui nome è contenuto anche il lessema akt, con il significato di azione, atto sacrificale, operavano al posto di dio stesso, sostituendolo e attuandone la volontà, gli Adraniti si limitavano ad evocare potentemente il dio affinché agisse personalmente.  Ne è testimonianza l’episodio raccontato da Plutarco, secondo il quale il dio Adrano avrebbe partecipato in prima persona alla guerra contro il tiranno di Lentini Iceta, resosi colpevole dell’assedio della città di Adrano; lo conferma ancora Plutarco quando narra che Timoleonte affermava di avvertire la protezione del dio, che non mancò di manifestarsi quando il condottiero greco, trovandosi ad Adrano, nel tempio, fu salvato dal pugnale dei sicari che stavano attentando alla sua vita, grazie all’intervento del dio. Dunque Adrano era avvertito come un dio attento, vigile, che, quale buon padre della stirpe, agiva personalmente per il bene dei suoi discendenti. Così si spiega il culto quasi esclusivo riservatogli da parte dei Sicani e, di contro, la quasi indifferenza di questo popolo per gli altri dèi. Che la religiosità adranita, cinquemila anni fa, avesse fatto la scelta di seguire la via della non belligeranza e di perseguire il ripristino dell’equilibrio cosmico, in tempi duri in cui tutto si risolveva con la forza, è forse cosa incredibile per un uomo moderno, ma non costituisce un caso isolato nel panorama storico coevo, come emerge dalla lettura di quel meraviglioso libro sacro che è la Bhagavadgìtà, dalla cui lettura apprendiamo che il dio incarnato Krsna esorta il suo discepolo Arjuna ad “agire avendo di mira soltanto l’integrità dell’universo” (Canto III,20 ), aggiungendo che, “se i migliori si comportano in tale modo, gli altri faranno lo stesso; l’esempio che essi danno è imitato dal resto della gente”.

La scelta di perseguire un ordine cosmico, praticando la giustizia e l’equità, risulta confermata dai frammenti di storia sui re sicani pervenuti fino a noi. Il principe sicano Cocalo, per esempio, riesce ad  evitare, intorno al XIII sec. a. C., la guerra con il re di Creta Minosse, che intendeva conquistare l’isola, accampando quale casus belli la fuga di Dedalo, accolto presso l’ospitale re sicano. Cocalo, infatti, a pieno titolo assimilabile ai tanti re-saggi dei Veda, non solo trova una soluzione pacifica al problema, ma, morto Minosse, fa sì che l’esercito del re, rimasto in Sicilia, possa stabilirsi pacificamente nei pressi del suo territorio, nella città di Eraclea e, in omaggio alla memoria di Minosse, la rinomina Eraclea Minoa. Due secoli dopo questo evento, i Sicani avrebbero accolto fraternamente i consanguinei Siculi e i due gruppi si sarebbero fusi, divenendo indistinguibili gli uni dagli altri. Non crediamo che i Sicani, come viene affermato da alcuni studiosi, abbiano abbandonato la Sicilia orientale a motivo dell’occupazione sicula, come si evince del resto dagli Stratagemmi del retore Polieno, opera in cui, cinque secoli dopo l’arrivo dei Siculi, si cita la presenza di un principe sicano che regnava nella prosperosa città di Innessa, la futura Adrano. Sarebbero stati accolti in tutta l’isola, nello stesso periodo dell’arrivo dei Siculi, pure tutti i sopravvissuti transfughi troiani scampati all’eccidio e gli Achei dispersi che avevano smarrito la via del ritorno; il re sicano Iblone, quattro secoli dopo l’arrivo dei Siculi e dei Troiani, dimostra tutta la propria pietas accogliendo di buon grado altri esuli greci, a cui avrebbe permesso, confermando la tradizionale ospitalità sicana del re Cocalo, di costruire delle città nel proprio territorio.

I Sicani, dunque, interpretarono il dovere dell’ospitalità non come un obbligo, ma come una vera e propria religione, al centro della quale vi era l’uomo, caratterizzata dalla scelta e dal perseguimento dell’equilibrio cosmico.

– Francesco Branchina