Alessandro Montalto intervista Francesco Branchina. Un interessante viaggio, ricco di spunti, che dalle origini dell’Europa (e di Adrano) conduce ai giorni nostri… 
Continuando, a ritroso, il nostro piacevole “gioco letterario” attraverso la dinamica modalità dell’intervista e allo scopo di (ri)scoprire le pubblicazioni del nostro compaesano, Francesco Branchina, dopo aver discusso del suo terzo libro, “Dalla Skania alla Sikania” (leggi) e, di recente, del suo secondo, “Adrano, dimora di dei, nella storia del Mediterraneo greco” (leggi), questa volta, puntiamo l’obiettivo sul suo primo testo, “Perché le origini dell’Europa non possono dirsi giudaico–cristiane”. Testo, anch’esso, che ha suscitato parecchio “rumore”. Nel prossimo incontro, discuteremo del suo neo quarto libro, “Il paganesimo di Gesù”. Ecco, a voi, l’ennesima intervista. Buona lettura.
D. La sua prima “creatura” decolla da una specifica visione dell’Europa. Chi conosce la sua seconda e terza pubblicazione comprende benissimo che l’obiettivo è gradualmente convogliato verso realtà, territorialmente e storicamente, più circoscritte, quali quelle adranite e limitrofe. Perché partire dall’Europa per poi virare su realtà così contenute?
R. Il saggio sull’Europa nasce in un momento storico ben preciso: era l’anno in cui gli stati membri dell’U.E., alle prese con il testo della Costituzione dell’Europa, dissertavano circa le proprie comuni origini culturali. In questo contesto, il Capo della Chiesa Cattolica espresse il proprio rammarico, se non una vera e propria indignazione per il mancato riferimento, all’interno della Costituzione, alle origini cristiane dell’Europa. Infatti, la Francia e l’Olanda, che intendevano dare una connotazione laica al documento, insistettero, in rispetto alle diverse religioni che già allora trovavano asilo in Europa, sulla necessità di evitare ogni riferimento ad esse o, peggio ancora, ad una sola di esse. L’indignazione del Papa, che pretendeva di ascrivere al Cristianesimo l’esclusività del sacro in Europa, provocò, però, la mia indignazione in merito a tale pretesa, convinto com’ero che le origini dell’Europa non avessero nulla a che spartire col Cristianesimo, il quale, tra l’altro, non era riuscito ad affermarsi neppure nel luogo dove esso era nato, cioè la Palestina; basti pensare al fatto che mille anni fa l’Europa era ancora ampiamente pagana come conferma il fatto che, nel 1096, Pietro l’Eremita si arrogava la libertà di intraprendere una Crociata contro i pagani dei Balcani, mentre, poco dopo, i Teutoni sterminavano i pagani della Polonia. L’Europa, in realtà, era caratterizzata da omogeneità, sia religiosa che culturale, prima ancora che il Cristianesimo approdasse sulle rive del Tevere, generatasi grazie a quell’irriproducibile miracolo, tutto romano ed occidentale, che Plinio aveva espresso con le seguenti parole: “L’Italia è stata eletta dai numi a riunire attorno a sé i popoli dispersi, ad avvicinare con l’uso di una sola lingua tante genti di rozzi e discordi linguaggi, a dare le norme di un comune vivere, a fare di tutte le genti un solo popolo, di tutto il mondo una sola patria”. Si comprende, perciò, come il concetto di Europa sia implicito nella visione di Plinio che va perfino oltre il limite geografico europeo, configurando una sorta di globalizzazione sotto la regia dell’Impero Romano. Traspare dalle parole di Plinio, ma ancor più da quelle di Plutarco, una sorta di destino o di missione dell’Impero, col consenso di auspici divini. Il saggio in questione, non finalizzato di certo al proselitismo e nato dal bisogno individuale di voler trasmettere un “testamento spirituale” ai miei soli eredi e agli affini, propone un parallelismo tra due mondi e due visioni del mondo: da un lato la cristiana e orientale, dall’altro la politeista e occidentale; da un lato, la Palestina dagli aridi deserti, dove si aggiravano legislatori, come Mosè, che emanavano leggi in base alle quali gli indigenti che, in giorno di sabato, raccoglievano fascine per riscaldare il proprio pagliericcio meritavano la lapidazione, dall’altro, una Roma che, già nel IV secolo a. C., attraverso i propri legislatori, si confrontava con i problemi di una società civile e moderna, ancora attualissimi nel nostro secolo, tipici di un mondo che aveva ormai superato le pulsioni ancestrali e primordiali del soddisfacimento dei bisogni primari, allora irrisolti nei polverosi deserti della Palestina. La società civile romana del secolo di Gesù era, in tutto e per tutto, paragonabile alla nostra, al punto che termini da noi coniati oggi, come quello di “governo tecnico” e “governo dei banchieri“, erano già utilizzati a Roma nel 352 a. C. Basti leggere Tito Livio che racconta la storia di Roma e della sua evoluzione: nel suo Libro VII, Capitolo 21, lo storico narra dell’insediarsi di un governo tecnico, quello cioè dei “quinqueviri banchieri“, i quali, avevano il compito di studiare il problema del debito privato dei cittadini nei confronti sia di privati che dello Stato. L’unica differenza tra il governo tecnico dei banchieri del 352 a. C. e quello attuale del 2012 è che quello romano risolse il problema; Tito Livio ne riconosce i meriti, affermando che: “Essi meritarono per la loro equità e diligenza, di veder celebrati i propri nomi in tutti gli annali. Costoro risolsero una questione assai difficile a trattarsi (…) più a spese che non a danno dello Stato.” Come risolsero il problema i quinqueviri è di una semplicità ed attualità inverosimile, al punto da consigliarne la ricetta ai tecnici del nostro attuale governo. Gli argomenti affrontati nel saggio su Adrano – nato dall’adempimento di un ex voto e volto pertanto a celebrare una città dal nobile retaggio che non merita di passare sotto il giogo degli eventi presenti, dell’inadeguatezza dell’azione politica – fanno parte, nonostante lo sguardo sembri restringersi a “realtà contenute“, di una storia globale, come fossero tessere di un unico grande mosaico. Tra l’altro, ha il merito di aver innescato gli studi di cui si renderà conto nella prossima pubblicazione, in cui lo sguardo si allarga nuovamente a realtà territoriali molto ampie che travalicano i confini dell’Europa.
D. Caratteristica delle sue pubblicazioni è il voler tentare un ben riuscito excursus, a dir poco completo, su una data tematica. Il testo decorre “dalla polvere dei secoli“, com’è solito dire, per poi concludersi con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale. Perché setacciare una così vastissima gamma di periodi per tracciare “nuovi profili” e dettagliate “conclusioni”?

R. L’excursus cui Lei allude mette in evidenza come, attraverso i millenni, ben poco sia mutato in relazione alla visione del mondo che, semplificando, viene definita occidentale e orientale. Si noti che nel saggio non vi è alcun cenno di giudizio in merito alle risposte che, all’interno di queste due aree, sono state elaborate relativamente a problematiche religiose, etiche, morali, politiche, scientifico–tecnologiche, ma ci si limita a mettere in evidenza solo la differenza fra esse. La religiosità, ad esempio, è stata notoriamente inibitoria dello sviluppo tecnologico delle civiltà, del loro avanzare verso il progresso, sia in Oriente che in Occidente. Del resto, appartiene a Sant’Agostino l’affermazione secondo la quale l’ignoranza conduce a Dio più facilmente che la scienza. In Occidente, però, la tenace insistenza nel continuare gli studi scientifici, nonostante la repressione ecclesiastica – basti pensare al caso di Galileo Galilei – nasce dal millenario concetto, tutto occidentale, “dell’osare“, in conseguenza del quale l’uomo non conosceva limiti o paure né nei confronti dei propri simili, né nei confronti degli stessi dèi; si pensi alla lotta di Diomede contro Apollo, al tentativo di Prometeo di raggirare Giove o alla simbolica lotta dello stesso Giacobbe con l’angelo, oggetto per altro di analisi nel mio ultimo saggio, Il paganesimo di Gesù. Dunque, in Occidente, in tutte le epoche storiche, si assiste all’emergere di uno stesso spirito, che non si rassegna alla sconfitta e alla prigionia e impara ad utilizzare tutti gli strumenti disponibili per affermare un concetto antico ed invariato di autoaffermazione. Pertanto, se il simbolo dell’Aquila Romana fu portato dai legionari romani su un’asta, come vessillo, difeso da daghe prima e poi, nel Medioevo, da alabarde, nei tempi moderni la stessa Aquila si è appollaiata sui cannoni e sui missili protagonisti della Seconda Guerra Mondiale, senza mutarne il simbolismo. Il fine continua ad essere l’Impero, il mezzo per l’affermazione di questo, la forza. Il riferimento, presente nel saggio, alla Seconda Guerra Mondiale è inevitabile, a motivo “dell’anacronistica” riapparizione di simboli millenari che, lungi dall’essere semplici distintivi di latta da applicare sulla giubba, erano considerati “vivi” simboli, la cui forza evocatoria, per i moderni centurioni in camicia nera, era assimilabile a quella suscitata dalla croce nei primi martiri cristiani; gli uni e gli altri morirono per i simboli con i quali si identificavano. Il rispetto nei confronti di qualsivoglia fede, verso uno Stato o un dio, è dovuto; la condivisione di tale fede e l’adesione ad essa diventa un fatto squisitamente individuale, sul quale non è lecito esprimere giudizi di merito; il mezzo ricercato e utilizzato per manifestare o affermare tale adesione, non v’è dubbio che debba essere quello che il momento storico propone come giuridicamente compatibile.

D. Nel leggere questa sua prima pubblicazione, non può non tornare alla mente una “fredda” battuta/interrogazione di Voltaire, ossia, “cos’è la storia, se non un’indegna accozzaglia di menzogne?“. In effetti, con tanto di fonti alla mano, sembra che, molte “realtà“, ci siano state “negate“, tramite un voler plasmare gli eventi e altro. È proprio così?

R. È tanto vero quello che Lei dice che noi consigliamo di “indagare” la storia e non semplicemente di leggerla. Polibio si era già posto la questione, affermando che, ai suoi tempi, molti lettori si affidavano all’autorevolezza dello storico, trovando più comodo e meno affaticante accettare le “verità” presentate da uno scrittore di chiara fama, verità che venivano servite loro come un piatto freddo. Non tutti gli storici antichi o moderni avevano ed hanno lo stesso scrupolo e serietà che vantavano Tucidide, Polibio o Tito Livio. Lo storico di allora, come il direttore di una testata giornalistica di oggi, poteva o scrivere una storia che gli veniva commissionata, se era lo storico di corte “messo a libro paga“, oppure, se era uno storico non istituzionale, poteva tentare una captatio benevolentiae nei confronti del detentore del potere attraverso una narrazione che, con un’accorta ed abile manipolazione degli eventi narrati, troppo compromettenti nella loro nuda realtà, sdoganava una versione dei fatti non ostile al potere costituito; quest’ultimo potrebbe essere il caso di Giuseppe Flavio. Tuttavia, per quanto uno storico blasfemo possa irritare le sue muse ispiratrici, macchiando il proprio sacerdozio con il racconto di falsità, raramente riesce a mistificare completamente la storia che racconta, specialmente se è possibile per il lettore il raffronto con altre fonti. Nel caso dell’Antico Testamento, poiché chi “cambiava una sola jota” del libro incorreva nella maledizione divina, accadeva che, per eludere tale maledizione, lo storico che volesse raccontare altro da quello che il suo predecessore aveva già messo per iscritto, pur lasciando la versione canonica, vi aggiungesse la propria. È per tale motivo che si hanno, per esempio, due versioni sulla causa dell’introduzione di Davide nella Reggia di Saul: una versione la attribuisce all’effetto benefico che Davide produceva sulla psiche di Saul col suono della sua arpa; l’altra, addebitava il suo ingresso a corte al prestigio che Davide si era guadagnato con l’abbattimento del gigante Golia. In un caso come questo, per esempio, il lavoro di indagine “dell’investigatore della storia“, che si fonda sul confronto accurato delle fonti, diventa determinante. Naturalmente, lo storico non è mai completamente immune, nonostante la propria consapevolezza, del pericolo di innamorarsi di una tesi preconcetta, a motivo magari di un proprio entroterra culturale; tuttavia, il dovere di fornire al proprio lettore prove verificabili e documentabili, contiene alquanto tale pericolo.

D. Ai suoi occhi, com’è l’Europa, oggigiorno e dov’è diretta?

R. Come denunziammo nel 2008, con l’uscita del saggio in oggetto, questa Europa ha il limite di essere stata creata sulla base di un’unità esclusivamente economica, che avrebbe indotto Platone a definirla “aberrante“. La storia ci insegna come la ricerca orizzontale del semplice soddisfacimento del bisogno materiale divenga monca se non è corroborata da altri altrettanto innati bisogni che tendono verticalmente verso l’alto. L’Europa di oggi è stata eccessivamente e frettolosamente “allargata“, creando così condizioni di difficile gestibilità a causa delle numerose pastoie burocratiche che si è data. Un altro limite è quello di non aver saputo creare le condizioni perché essa stessa venga vista dalle potenze politiche mondiali come una forza monolitica, che parli a loro con una sola, decisa, potente, autorevole, voce. Il diritto di veto esercitabile dalle singole nazioni, anche le più piccole, come il Belgio o l’Olanda, imitando la peggiore Roma, in cui il veto esercitato dai tribuni della plebe ingessava lo Stato, non fornisce di certo lo strumento per creare un’Europa decisionista. Tuttavia, il problema maggiore, non solo dell’Europa ma del mondo intero che, come abbiamo detto, è ormai globale, consiste nella crisi dei valori e nell’assenza di uomini che li incarnino. L’assenza di questi – che già indusse il filosofo Diogene a ricercare per tutta Atene l’uomo vero con la sua lanterna – come l’assenza di anticorpi in un organismo malato, determina l’ipertrofia del bubbone che oggi si chiama affermazione egoistica dell’utile individuale. Nei gangli del potere, nazionale e sovranazionale, oggi abbiamo assisi uomini mediocri che non sono in grado di muovere le leve di cui dispongono. L’affermazione di Platone, secondo la quale per gli uomini migliori è un dovere fare politica, onde impedire ai peggiori di occupare gli spazi a loro riservati e con grave danno dello Stato, oggi farebbe provare vergogna a quanti, tra i migliori, vorrebbero accogliere le parole del filosofo, poiché sarebbero comunque costretti a condividere gli scranni con i prezzolati professionisti della politica. Gli Stati diventano immortali se per generazioni essi sanno proporre esempi e gli uomini migliori come guide. Quando nel 403 a. C. le finanze dello Stato Romano erano allo stremo per la lunga guerra contro la città etrusca di Veio, i cavalieri, per non gravare ulteriormente sulla bilancia dello Stato, rinunciarono al cavallo fornito loro dallo Stato, paragonabile alle “auto blu” odierne e vi provvidero personalmente; l’intero popolo che formava la fanteria di terra, non volendo essere da meno, accorse alla Curia, offrendo alla Repubblica servizi straordinari. Durante la Seconda Guerra Punica, nell’anno 214 a. C., esempi di tal genere continuarono visto che gli imprenditori che si occupavano del restauro dei templi e della fornitura del cavallo ai cavalieri, rinunciarono ad essere retribuiti fino alla durata della guerra, così come i cavalieri e i centurioni; perfino le vedove, anticipando l’eclatante contributo richiesto da Mussolini alle mogli degli Italiani, “portarono i loro risparmi al tesoro” (T. Livio). Sul piano dell’incisività dell’azione politica di fronte a problematiche ancora oggi attuali, si offre l’esempio di Catone il Censore, il più austero degli statisti romani che risolse il problema dell’abusivismo edilizio facendo abbattere gli edifici entro trenta giorni dalla notifica e tolse “l’auto blu“, ovvero il cavallo, ai Senatori che non erano meritevoli. Fintanto che i consoli romani portavano gli aristocratici nomi di Appio Claudio, Marco Fabio, Furio Camillo, Marco Manlio, Lucio Quinzio Cincinnato, Lucio Papirio Cursore e finché la loro memoria fu da esempio per i posteri, perfino i popoli vicini guardavano con favore all’annessione, convinti che avrebbero vissuto meglio come sudditi, con giuste leggi romane, sotto la guida di tali uomini, che liberi con l’inefficacia delle leggi proprie e senza esempi da imitare. Quando, con l’estinzione di quelle famiglie, cominciarono a sostituirsi al governo del paese individui ambiziosi e assetati di potere, quando il popolo romano cominciò a soggiacere alla perfidia e al fascino dei Re orientali con cui veniva a contatto, ebbe inizio la discesa politica, seguita dalla fine. Se dovranno essere i comici, con le loro sconce battute, i nostri esempi e le nostre guide politiche, cominciamo dunque a recitare il nostro ruolo ed attendere rassegnati la drammatica conclusione dell’ultimo atto.

D. Il titolo del trattato, di per sé, è già ben descrittivo. Per la precisione, perché le origini dell’Europa non possono dirsi giudaico–cristiane?

R. Non possono dirsi tali per un motivo che fin da subito mi è apparso scontato e, cioè, per la semplice ragione che neppure il Cristianesimo può essere ritenuto veramente cristiano, essendo il risultato di una filosofia tutta paolina. Chi può infatti negare che il Cristianesimo canonizzato a Nicea nel 325, sotto lo sguardo vigile dell’Imperatore Romano Costantino, non abbia più nulla in comune con quello che, nell’anno zero, era sorto in Palestina? Chi può negare che la gerarchia della Chiesa Cristiana sia figlia di quella romana? E chi potrebbe con piena convinzione sostenere che il Papa, assiso nel suo dorato trono, che porta al dito l’anello doro, emblema del cavaliere romano, sia l’erede di quell’uomo che, a piedi scalzi, si aggirava per le vie impolverate di Galilea a sostenere i poveri e salvare le meretrici dalla lapidazione? La lingua con la quale ci si rivolge al dio ebreo è il latino e non l’ebraico. La sede del potere non è la sinagoga ma la Curia, cioè il luogo dove si riunivano le centurie. Il ruolo di Pontifex, inoltre, era prerogativa dell’Imperatore, per lo meno fino al 380, quando l’Imperatore Cristiano Graziano abdicò a tale privilegio in favore del vescovo di Roma. In poche parole, il Cristianesimo divenne romano più di quanto Roma fosse divenuta cristiana, al punto che il primo adattò la più importante festa liturgica del Cristianesimo, il Natale, alla più importante celebrazione della romanità. Infatti si scelse, per ricordare la nascita di Gesù, un giorno che era sacro per i pagani romani, cioè il 25 Dicembre, in cui si celebrava la nascita del sole invincibile o “natalis solis invicti“, che coincideva col solstizio d’inverno, evento oggetto di culto fin dai primordi da parte dei popoli nordici. Il Cristianesimo, in realtà, non seppe inventarsi nulla, né sul piano religioso, visto che riprese concetti stoici e neoplatonici, né sul piano magico\simbolico, legato all’edilizia sacra, di cui i pagani erano profondi conoscitori, al punto che il Papa Gregorio Magno invia una lettera all’abate Mellitus, citata nella Storia Ecclesiastica d’Inghilterra, nella quale gli suggerisce di consacrare e trasformare in chiese tutti i templi pagani. L’astuto Gregorio ebbe il doppio effetto di lasciare credere ai pagani sassoni che essi si recavano nello stesso luogo dove prima compivano il loro rito e che, dunque, nulla era per loro cambiato. Naturalmente, parlare di Roma e parlare di Europa, nell’accezione proposta da Plinio, cui si è fatto sopra riferimento, è la stessa cosa. Non dimentichiamo, tra l’altro, che tutto il mondo, oggi, fonda le proprie leggi sulla base del diritto romano. La civiltà di Roma è, pertanto, ancora oggi attuale non solo in quegli aspetti più sottili di cui sopra, ma perfino in quelli più grossolani ed evidenti: parliamo, ad esempio, degli acquedotti, che sono oggi ancora perfettamente funzionanti. Allora come ora, in Gallia, in Iberia, in Germania, a Piazza Armerina, giovani donne potevano frequentare, in bichini, i bagni pubblici. La Palestina, se oggi non è come l’Afghanistan e ha potuto togliere il velo alle proprie donne, lo deve alla sua interazione con l’Occidente Romano; per cui è Gerusalemme che è diventata europea e non Bruxelles palestinese.

D. Dapprima, “Perché le origini dell’Europa non possono dirsi giudaico – cristiane?”, in seguito, “Adrano, dimora di dei, nella storia del Mediterraneo greco”, e, infine, “Dalla Skania alla Sikania”. Un voler razionalmente oscillare dal generale al particolare (e/o viceversa…). Dall’Europa ad Adrano. Come s’incastra, la nostra bella città, in un contesto storico–politico–geografico di così ampio spessore continentale?

R. Il saggio sull’Europa, come abbiamo affermato sopra, rappresenta il testamento spirituale, diretto ai propri eredi, da parte di un uomo che non sopportava il tentativo messo in atto di una mistificazione ed appropriazione indebita dello spirito occidentale – mai sopito nei lunghi millenni che lo videro indiscusso protagonista degli eventi – ad opera di un Oriente che, riversandosi, per dirla con Catone, sul Tevere, mutava invece la iniziale propria natura. I saggi che seguono il primo, altro non sono che un ulteriore approfondimento della questione di partenza. Arretrando sempre più nel tempo, si dimostra come lo spirito occidentale europeo non solo mai sia mutato nel tempo, ma, addirittura, in un avvicendarsi degli equilibri di forze ultrafisiche, abbia abbracciato, in tempi remoti, aree geografiche insospettabili, disseminando una visione del mondo che sarebbe tornata poi, mutata, nello stesso Occidente. Adrano, come Roma o Sparta, esercitò un ruolo importante nella cultura dell’area Occidentale, naturalmente entro il raggio d’azione della propria sfera di pertinenza. La nostra città, la cui fondazione è antecedente di millenni rispetto a quella di Roma, mantenne per lunghissimo tempo il ruolo fondamentale di mezzo di divulgazione dei valori occidentali, attraverso la diffusione del culto del dio omonimo. Esercita tale ruolo dalla sua fondazione, ad opera dei Sikani, sino al periodo Sikulo, per poi passare il testimone allo stato romano con l’atto simbolico della chiusura al pubblico del culto del dio Adrano, avvenuta nel 213 a. C., imposto dai decemviri. Fino all’arrivo dei tiranni greci il popolo Sicano\Siculo adranita non era stato contaminato dalla perfidia greca, sotto la quale perfino Roma soggiacque quando, nel II secolo a. C., ne venne a contatto. La purezza e la semplicità dello spirito religioso degli Adraniti del II–I millennio a. C., ravvisabile nelle poche epigrafi funebri ritrovate, fanno ben sperare che quella stessa indole riacquisti gli spazi di cui è stata privata e, manifestandosi, torni a dominare. Il cratere dell’Etna è molto più piccolo della propria base, tuttavia, è da lì che viene fuori e si riversa, tra lo spettacolo e il terrore, ciò che può diventare oggetto di distruzione nell’immediato e di fecondità in prospettiva. Ai denigratori di ogni prospettiva ottimistica del futuro adranita, diciamo solo che la nostra città non fu mai insignificante e i suoi cittadini mai degli sprovveduti, dal nobile Lollio fino ad Artemidoro, entrambi citati da Cicerone e condotti a Roma per inchiodare, con l’esempio e la testimonianza della nobiltà adranita, il vile pretore Verre, il cui nome i Siciliani innalzarono ad eterna damnatio memoriae. In tempi più recenti, a quegli illustri concittadini ricordati da Cicerone, possiamo affiancare i meno conosciuti ma altrettanto rispettabili esempi del Professor Russo, padre del nostro amico concittadino Dottor Russo che intratteneva cordiali rapporti epistolari con il Ministro della Pubblica Istruzione Gentile e che fu invitato dal Ministro a Roma, onde mettere a disposizione della Patria il suo talento. Ed ancora, le qualità del nostro concittadino Di Stefano non passarono inosservate al Generale Americano Marshall che lo volle come collaboratore per portare a compimento il piano di ripresa dell’Italia, lacerata dai disastri di una follia collettiva, cui si era aggiunto il dramma della guerra civile che, dai tempi di Silla, mai abbandonò la nostra Penisola. Si tace, per motivi di spazio, sui molti nomi di quegli Adraniti che si distinsero per acume ed ingegno, fossero essi storici, scienziati o banchieri.

Alessandro Montalto