In concomitanza delle ricorrenze della festa di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti, Francesco Branchina ci invita a riflettere sulle origini di queste celebrazioni nonché sulla figura del Pater Familias

Tenteremo con questo articolo di risalire all’origine di una visione del mondo, maturata in seno alla nostra civiltà, che indusse i discendenti ad onorare ed, in un particolare giorno dell’anno, a ricercare un contatto spirituale con i defunti, in particolare con i propri Avi.

I defunti erano celebrati in quanto, come predecessori dei vivi, avevano tracciato un percorso terreno ideale che successori ed eredi si impegnavano, tacitamente, non solo a condividere, ma pure a proseguire. I defunti familiari costituivano la gentes, erano cioè gli “andanti” (da gehen, andare) poiché “andavano” verso la generazione successiva grazie al genos, attraverso cui si manifestavano  i caratteri non tanto  somatici quanto piuttosto spirituali della stirpe di appartenenza. Per secoli a Roma illustri famiglie si trasmisero immutati non solo i nomi, tanto da creare problemi agli storici, che dovevano distinguere cronologicamente le decine di Fabi, Furio, Manlio ecc. che si ripetevano ad ogni generazione, ma più significativamente compiti, ruoli sociali, missioni da perseguire nel tempo, attraverso un ideale passaggio di testimone da un soggetto all’altro della stirpe.

Non possiamo fare a meno di segnalare che il rischioso e tristemente noto tentativo odierno di trasformare e ibridare le famiglie, all’insegna di una modernità apportatrice di antivalori, introduce, tra le sue devastanti conseguenze, l’interruzione del carattere sacro che legava i discendenti agli Avi e, con essa, della trasmissione di valori, sostituendo al percorso verticale di ascesi della gentes, degli “andanti”, un itinerario orizzontale finalizzato esclusivamente al soddisfacimento, per dirla in termini freudiani, di pulsazioni biologiche.

I defunti venivano chiamati dai nostri antenati latini Dèi Mani o Penati ed erano simboleggiati con statuette poste vicino al focolare domestico, il quale rappresentava, metaforicamente, l’ardore che teneva in vita la famiglia tutta, costituita non solo dai vivi ma anche da coloro che, seppur trapassati, vigilavano a beneficio dei discendenti. La famiglia era dunque il fulcro attorno al quale ruotava l’intera società. Lo stesso Stato era considerato un organismo costituito dalla sommatoria delle singole famiglie che, in nome di un vincolo di sangue o di affinità spirituale, si erano riunite a formare una comunità sociale; la conduzione politica statale replicava pertanto quella, gerarchica, della famiglia stessa: il capo della Nazione agiva infatti imitando il modello familiare del Pater familias. Il padre era colui che, con la pietas si faceva garante dell’ordine familiare. Egli era il sacerdote della famiglia, all’interno della quale celebrava i riti del culto degli Avi, i quali vigilavano, a loro volta, sul sano procedere della famiglia.

Tale concezione della famiglia quale entità sociale caratterizzata dal rispetto del ruolo del pater familias, attorno al quale ruotavano gli altri componenti della famiglia, identifica l’intero mondo indoeuropeo. Nella Bhagvadgìtà si dice che: “Con la distruzione della famiglia perisce anche l’ordine sacro… distrutto l’ordine, il disordine domina la famiglia tutta. Quando il disordine predomina, le donne della famiglia si corrompono”. Nella famiglia romana il padre era capo assoluto, nemmeno il re poteva modificare i decreti che il padre proferiva in seno alla propria famiglia. Quando, nel 20 d.C., la Lex Papia introduceva una nuova legiferazione in ambito matrimoniale, Tacito, da buon romano tradizionalista legato all’antica tradizione del pater familias, reagisce aspramente, giudicandola come un’intollerabile intromissione dello Stato all’interno della famiglia. Prima dell’introduzione di questa legge, il massimo dell’intrusione dello Stato in ambito familiare era costituito dalla formulazione di una nota di biasimo indirizzata al padre, il quale, da parte sua, intendeva tale nota come una vergogna peggiore del carcere stesso. I padri cui facciamo riferimento erano, d’altro canto, meritevoli di alta considerazione, essendo essi giudici severi di se stessi e, di conseguenza, di tutta la propria famiglia. Era  ancora lungi da venire quel meccanismo, tipico della nostra era, dell’indulgenza, slegata da ogni valutazione etica, applicata solo ai propri figli, a prescindere dalla colpe, anche gravi, degli stessi.  Nel 486 a.C. il padre di Spurio Cassio processò il proprio figlio, che voleva farsi re, dentro le mura domestiche; riconosciutolo colpevole, gli espropriò i beni, li consacrò a Cerere e lo condannò a morte. Bruto, che assieme a Collatino aveva cacciato il re Tarquino e fu poi eletto, con Collatino, primo console di Roma, condannò a morte il proprio figlio, che aveva cospirato per il ritorno della tanto odiata monarchia etrusca. Erano tempi in cui il potere del pater familias, designato in origine con il termine Manus, era inteso come emanazione diretta della volontà divina. Del resto il termine Manus deriva, secondo il nostro metodo interpretativo, dall’accostamento dei lessemi man (mente) e usa (casa): anche alla luce di tale derivazione etimologica il padre rappresentava il tempio vivente, la dimora della mente, del νοῦς. La forza creatrice ed ordinatrice della mente era del resto un attributo divino, tanto che il  dio avestico Haura Mazda viene definito da Zarathustra “colui che crea con la mente”.

Il padre, nella famiglia antica romana, era anche sacerdote e, come affermato sopra, celebrava i sacrifici agli dèi tutelari della famiglia, detti Penates o Lari, agli antenati morti e innalzava poi degli inni. Attenendoci alla spiegazione data da Platone al termine inni, questi erano in realtà delle preghiere (Platone, Leggi,  lib. III, 700) e, aggiungiamo noi, sulla scorta del nostro metodo interpretativo ormai noto ai lettori, espressione di potenti moti dell’anima. Infatti, a nostro avviso, il termine deriva dal nord europeo Inna ed è accostabile al tedesco Inner, “interiorità, sentimento, stato d’animo interiore”; il Pater sacer entrava, attraverso la propria sacra interiorità, espressa tramite l’inno, in contatto con gli Avi. Tale credenza, secondo la quale in un particolare momento dell’anno è possibile entrare in relazione con gli avi defunti, è patrimonio di una comune tradizione indoeuropea e, come affermato in un precedente articolo sulla simbologia adranita, ci è stato tramandato attraverso il simbolo della croce di sant’Andrea inscritta in un cerchio, scolpita nei capitelli delle colonne ritrovate nel Mendolito.

Tale periodo ricade il trenta ottobre. Possiamo immaginare che, in questo particolare periodo, una volta l’anno, il padre sacerdote adranita si rivolgesse ai propri Avi  per far sì che nei propri eredi continuasse a  manifestarsi il genos degli antenati.  Un modo di sentire affine a quello di Menelao che, rivolgendosi ai figli di Ulisse e di Nestore, ammirato dal loro portamento, afferma: “In voi non si estinse la schiatta degli Avi; di stirpe regale entrambi sembrate: non nascono figli simili a voi da gente comune” (Odissea III,65); è tuttavia evidente che, per il pater sacer, la pura eredità biologica, senza il nutrimento dell’esempio e dell’imitazione degli avi, sarebbe rimasta sterile. Il Romano manifestava l’orgoglio della propria illustre ascendenza, facendo sfilare, ad ogni  funerale di famiglia, maschere di cera che riproducevano i volti di autorevoli avi defunti, indossate da attori; sicché più numeroso era il corteo dei  prestigiosi antenati, più alto era il credito dei discendenti. Ed era cosa ammirevole veder salire sul rostro il figlio maggiore del defunto o una persona a lui vicina per pronunciare le lodi del caro estinto nel giorno del funerale.

Triste quel padre che non lascia al figlio, a motivo del suo pessimo operare, un simile conforto.   

– Francesco Branchina