1. I PRINCIPI SIKANI IN SICILIA E LORO FORZA MILITARE NEL BACINO DEL MEDITERRANEO

I pregevoli graffiti Paleolitici dell’Addaura, risalenti a circa ventimila anni fa, quelli delle grotte di Cassibile, nella zona costiera siracusana, l’antichissima mitologia siciliana, a detta di Diodoro ancora più antica di quella greca, i resti di numerosissimi insediamenti preellenici su monti e coste siciliane, delineano il profilo di una Sicilia pre-storica altamente evoluta e densamente popolata. Eppure il periodo pre-ellenico della Sicilia è quasi ignorato dagli studiosi, come se le vicende isolane iniziassero solo agli albori dell’VIII secolo a.C. Con questo articolo dunque ci riproponiamo di ricostruire, almeno in parte, la storia che ha preceduto la grecizzazione dell’isola, rileggendo criticamente la storia della pseudo-colonizzazione greca in terra di Sicilia a partire dall’VIII sec. a.C., raccontata, non senza compiacimento nazionalistico e conseguente deformazione dei fatti narrati, dagli storici greci.

La ricostruzione, da noi intrapresa, dell’antichissima storia siciliana, di cui al momento si possiede una visione frammentaria dedotta da testimonianze storiche di terza e quarta mano, viene avvalorata dall’attenta rilettura delle opere letterarie degli antichi storici. L’analisi comparata di tali testi ha gettato nuova luce su taluni episodi storici, al punto da mettere in dubbio alcuni aspetti della storia siciliana, finora unilateralmente accettati, raccontati e canonizzati per mancanza di prove contrarie; prove che noi abbiamo raccolto e vogliamo ora sottoporre all’attenzione e acume dei nostri attenti lettori.

È da rileggere, a tal proposito, l’evento della fondazione di Siracusa, che il mondo accademico colloca nel recente VIII sec. a.C. e attribuisce semplicisticamente al greco Archia, cancellando in tal modo con un colpo di spugna il passato della città. Tale affermazione però non tiene conto dell’autorevole testimonianza di Tucidide (Guerra del Peloponneso, VI, 2) che racconta sì di una “rifondazione” da parte del tiranno, ma avvenuta dopo la cacciata dei Siculi, che l’avevano abitata, conseguendo un elevato grado di civiltà e potenza militare, sino all’arrivo di Archia; non prende in dovuta considerazione nemmeno il racconto di Strabone (Geografia lib. VIII), il quale lascia intendere, tra le righe dei fatti narrati, che Archia, espulso da Corinto, città natale, avesse successivamente cercato riparo a Siracusa, nota per l’esistenza di un tempio nel quale trovavano riparo i supplici, come quello di Kalauria, in Grecia, dove aveva trovato riparo il retore Demostene. A Siracusa, Archia fu accolto pietosamente dal principe Iblone, la cui cortese ospitalità fu ricambiata da Archia con un infido complotto, grazie al quale quest’ultimo riuscì ad assumere il controllo della città. Ignorare il modo ignobile in cui Archia giunse al potere, ponendo fine alla precedente civiltà sicana, definire “fondazione” ciò che fu invece un infido complotto, equivarrebbe per lo storico, sacerdote delle Muse, all’assunzione di un atteggiamento di vile e complice silenzio fatto calare sulla verità storica di Sicilia.

Esamineremo dunque in questo articolo, per dimostrarne l’infondatezza, la storia distorta raccontata da antichi storici compiacenti, “pifferai” dei Greci vincitori, i quali, scrivendo la storia dei nuovi potenti, condannarono i popoli locali ad una non esistenza, ad un silenzio che ancora oggi grida vendetta. Questo grido noi, eredi a pieno titolo dei progenitori Sicani, abbiamo raccolto ed amplificato, nell’intento di fare rivivere la grande storia siciliana pre-greca e di riscattare dall’oblio non solo principi sicani illuminati quali Cocalo, Alcinoo, Erice, Iblone, Teuto, ma anche la loro primordiale visione del mondo basata sull’equilibrio cosmico, giunto a noi attraverso la simbologia delle spirali (vedasi articolo del settembre 2014: “Simbologia e ascesi dell’Adrano arcaica”).

La storia canonizzata racconta che in Sicilia, nell’VIII sec. a.C., arrivarono come conquistatori e\o fondatori di città, gruppi di coloni greci. Le fondazioni attribuite ai Greci, da Nasso a Siracusa, da Agrigento ad Adrano, sono talmente numerose che, se dovessimo prendere per buono tale racconto, la Sicilia, terra fertilissima e appetibile, avrebbe dovuto essere praticamente deserta al momento del loro arrivo oppure abitata da genti incapaci di opporre una resistenza armata contro gli invasori; eppure, già nel XIII sec. a.C., vari tentativi di conquista della Sicilia, effettuati da potenti principi stranieri, erano stati egregiamente respinti dalle forze locali. In quel lontanissimo XIII sec. a.C., in Sicilia vivevano principi potenti ed illuminati, come Cocalo, che governavano munifiche e ricchissime città, culturalmente affini con la civiltà micenea. Il totale silenzio degli storici greci sui popoli pre-greci che abitavano la Sicilia, unito al famoso rimprovero che Dionigi di Alicarnasso mosse a Tucidide per aver raccontato la guerra del Peloponneso, una storia che, invece, a suo parere, andava taciuta perché vergognosa per i Greci, ci ha fatto riflettere sulla possibilità che gli storici “Greci” di Sicilia, ancor prima che Dionigi esternasse la propria incontenibile ira nei confronti del collega Tucidide e legalizzasse l’occulta tecnica della mistificazione storica, avessero già fatto proprio, a partire dall’VIII sec. a.C.,  il monito dionigiano, tacendo la vergognosa storia dei primi emigranti greci arrivati in Sicilia che, accolti generosamente dai pii Sicani come supplici e ospiti sacri agli dèi, ricambiarono l’ospitalità con il tradimento e la congiura, strappando il regno con l’inganno ai loro benefattori e dando vita alla tirannide, sconosciuta ai Sicani.  

Già dai racconti contenuti nell’Odissea si evince che i Greci ben conoscevano la Sicilia. Infatti i Proci minacciavano gli ospiti a loro sgraditi di spedirli in Sicilia e siciliana era una delle governanti di Laerte, il vecchio padre di Ulisse. I Siciliani intessevano rapporti commerciali, archeologicamente documentati, a partire dal XIII sec. a.C., pure con i raffinati Cretesi. Proprio da Creta proveniva l’architetto e scienziato Dedalo che, perseguitato dal re cretese Minosse, pensò bene di recarsi supplice, come racconta Diodoro di Agira, dal re sicano Cocalo, presso il quale produsse mirabili opere architettoniche. Tale episodio induce a ritenere che la fama di saggezza ed ospitalità del principe siciliano fosse nota anche nell’isola di Creta.

I principi sicani dovevano eccellere per magnanimità e generosità visto che, una generazione dopo quella di Cocalo e Minosse, a Scheria (per noi identificabile con Siracusa), veniva ospitato con tutti gli onori Ulisse, come si afferma nell’Odissea, e prima di lui un altro illustre principe cretese, il mitico re Radamanto, fratello di Minosse. La visita in Sicilia dei due principi e fratelli cretesi, Minosse presso Cocalo e suo fratello Radamanto presso Alcinoo, re dei Feaci (terra da noi collocata in Sicilia, come proveremo a dimostrare), la successiva “eliminazione” di Minosse da parte di Cocalo, la scorta navale a favore di Radamanto, riaccompagnato in Eubea con tutti gli onori, predisposta dai Feaci, dovrebbero indurre a sospettare un tentativo di invasione cretese della Sicilia da parte del re Minoico. Tale sospetto trae conferma dalla lettura di Platone (Leggi IV,706), dal quale si apprende che Minosse possedeva una grande potenza navale e che era riuscito ad imporre all’intera Attica un pesante tributo; Tucidide (G.d. Pelop. I,4) descrive il re quasi come un imperatore universale, aggiungendo che era stato il primo ad avere avuto una flotta e a dominare il mare ora greco e a signoreggiare sulle isole Cicladi. È dunque probabile che Minosse volesse ridurre la Sicilia alla stessa stregua dell’Attica e delle altre isole, ma le forze congiunte di Cocalo, che governava nel territorio agrigentino, e Alcinoo o forse suo padre Nausitoo, che governava in quello di Siracusa, lo sconfissero.

Come vedremo nel paragrafo seguente, queste relazioni intercorse tra le diverse sponde del Mediterraneo erano la conseguenza delle rotte commerciali battute dalle potenze marinare siciliane, che interessavano, più di altre coste dell’isola, i porti della Sicilia orientale. Dal racconto dell’Odissea si deduce che le rotte marittime battute dai Siciliani, a fini commerciali, verso la Grecia, erano percorse con estrema facilità e gelosamente custodite dalle navi siciliane, che erano molto più all’avanguardia di quelle greche, tanto da stupire lo stesso Ulisse quando le vide in opera. 

  1. SCHERIA

Scheria, città nominata da Omero, nella quale approda il naufrago Ulisse, è una città portuale costeggiata da un importante fiume e i suoi abitanti appaiono particolarmente sensibili alle disavventure dei naufraghi; del resto ancor oggi vige una simile solidarietà umana tra gente di mare. Ma gli abitanti di Scheria sono pure molto sensibili nei confronti dei supplici e sono definiti da Omero della stessa stirpe di Poseidone. Il dio del mare, come emerge dalla genealogia indirettamente tracciata nell’Odissea, era il nonno del re dei Feaci, Antinoo, avendo avuto una relazione extraconiugale con la principessa Peribea, figlia di Eurimedonte, bisnonno materno di Alcinoo; da questa relazione era nato Nausitoo, padre di Alcinoo. Il dio Poseidone aveva, come tutti gli dèi, diversi attributi, era infatti appellato oltre che L’antico, essendo uno degli dei più anziani ed autorevoli del pantheon greco, anche Dio del mare, lo Scuotitore della terra e anche Maremoto, ed era considerato il dio dei supplici e protettore dei naviganti. Aveva un suo importante tempio nella città greca di Kalauria, tempio nel quale, come affermato sopra, trovò rifugio politico lo statista e oratore Demostene.

Scheria, secondo quanto scritto nell’Odissea, era abitata dal popolo dei Feaci. Questi, secondo il racconto omerico, sotto la guida del loro re Nausitoo, padre di Alcinoo, si erano trasferiti a Scheria, dopo che i Ciclopi li avevano cacciati dalla loro sede, la quale doveva trovarsi nella zona orientale della Sicilia, nei pressi del vulcano Etna, sulla costa, visto che abitavano in pianura (come afferma Omero), in quell’arco di territorio che probabilmente va da Messina (città dove veniva “particolarmente onorato Poseidone”, come afferma Diodoro IV,85), ad Augusta, zona tradizionalmente sede dei Ciclopi. Le città abitate dai Feaci dovevano essere costiere visto che, come si evince dal racconto, essi erano abilissimi marinai, bravi con le vele ma non con le armi, cosa che rese facile la loro espulsione. Al contrario, i Ciclopi erano abili costruttori di città fortificate e abili fabbri, esperti fonditori di metalli, con i quali fabbricavano armi indistruttibili, qualità che guadagnò loro l’attributo con cui erano conosciuti, Ki-kopflen, “coloro che percuotevano (con i loro martelli) la terra”. Lo stesso attributo di scuotitore della terra veniva dato a Poseidone, che era il padre dei Ciclopi e, per certi versi, il capo mastro, poiché anch’egli era un costruttore di città dal momento che il mito greco attribuisce a lui e a suo nipote Apollo la costruzione delle inespugnabili mura di Troia (il re troiano Laomedonte avrebbe poi gabbato i due dèi, non mantenendo la promessa che prevedeva un ricco compenso per quell’opera). Crediamo  probabile che sia stato in seguito a questa inadempienza del re che il dio abbia potuto assumere il soprannome di Böse-eid-one, che significa “irritato per il giuramento non mantenuto”, essendo l’attributo composto dai lessemi Böse, “cattivo”, “arrabbiato”, “incollerito”,  eid , “giuramento”, e ohne “senza”, “mancante”, “privato di”. A ragione di tale ira, durante la guerra di Troia, il dio, ancora adirato per il misfatto subito da Laomedonte, padre del re Priamo, parteggiava per gli Achei.

Intorno al falso mito sui Ciclopi antropofagi e mostruosi, fatto passare dall’incallito bugiardo itacese, che mentiva non solo al padre e alla moglie ma perfino alla dea sua protettrice, Atena, vale la pena fare notare come invece il filosofo Platone in Leggi III, 679,680 non solo, parlando di loro, li prenda in seria considerazione, ma nel descrivere la costituzione di uno stato perfetto, tema del suo trattato, li prende ad esempio dicendo: “Vivono seguendo i costumi e le leggi che si dicono tramandate dagli avi”. Il filosofo comprese che la loro costituzione politica era tutt’altro che primitiva, piuttosto essa era di natura aristocratica, basata sulla conduzione patriarcale della società.

Società simili, il cui fulcro ruotava sulla figura centrale del pater familias, sarebbero riapparse presso i Latini. Il pater familias reggeva la famiglia e, a sua imitazione, il principe reggeva lo stato, che altro non era se non una famiglia allargata. La podestas su cui si fondava il potere del capo famiglia romano era lo jus ovvero il diritto ricevuto direttamente da un ordine sovrumano, divino; per tale motivo il pater familias non rispondeva del proprio operato attuato in seno al proprio nucleo familiare, di cui facevano parte anche gli schiavi, ad alcun potere temporale. All’indiscutibile prestigio delle affermazioni di Platone vogliamo associare la voce, non meno autorevole, di Apollonio Rodio, il quale, ne Gli Argonauti, alludendo ai Feaci, pone la loro sede proprio in Sicilia.  Il mitologo dunque, pur non facendo alcun cenno ai Ciclopi, colloca esplicitamente nella terra di Trinacria la patria dei Feaci. Ciò significa che, presso i Greci, esisteva una tradizione orale che, pur collocando, secondo la versione di Tucidide, la sede dei Feaci in un’isola greca, non escludeva la collocazione del sito in terra siciliana.  

Non potendo qui dire di più sui Ciclopi ci proponiamo di ritornare sull’affascinante argomento in un prossimo articolo. Tornando invece alla trasformazione della consonante B del nome Böse-eid-one in P, rinviamo il lettore agli studi di Grimm e Verner sulla rotazione consonantica. Di questa legge consonantica ci vogliamo qui servire solo per aprire una breve parentesi sui probabili rapporti tra la Sicilia e l’Irlanda, argomento già affrontato in un nostro precedente articolo. Nel VII libro dell’Odissea, Omero sostiene che Eurimedusa, la nutrice di Nausica, figlia del re dei Feaci, Alcinoo, era stata deportata “su scafo di nave, dall’Apira”. Facendo leva sulla legge di Grimm di cui sopra, Apira potrebbe derivare da Ab-Ira ovvero “proveniente da” (ab è una preposizione che indica provenienza) “Ira” o “Eire”, nome con cui l’Irlanda è ancora conosciuta ai nostri giorni. Se si considera inoltre che tutti i nomi feaci, analizzati alla luce del nostro metodo interpretativo, esprimono dei chiari significati in lingua nord europea, il nesso Irlanda-Sicilia appare inequivocabile. Infatti, non solo la nutrice proveniva dall’Eire, ma il suo stesso nome sembra esprimere di per sé la storia della sua deportazione, essendo composto dai lessemi Ur-Med-Usa, cioè “antico” (ur), “casa” o “patria” (usa) e Med, che è l’ancora attuale nome di una prestigiosa regione irlandese, il Meath [1];  pertanto il nome della nutrice significherebbe “colei che viene dall’antica patria del Meath”. Lasceremo ai lettori valutare se per antica patria si intendesse la comune patria dei Feaci, visto che il bisnonno di Alcinoo aveva quasi l’identico nome della nutrice, Eurimedonte (Ur e Med). Se vogliamo analizzare pure il significato etimologico dei nomi Nausica e Nausitoo, rispettivamente figlia e padre di Alcinoo, essi risultano entrambi chiaramente composti da Nau, “nave”,  e sich, “sé, se stesso”, quasi a ricordare, nel nome proprio, l’origine e la natura marinara del popolo di appartenenza. Probabilmente, inoltre, il nome Alcinoo, potrebbe contenere qualche riferimento a Cian. Questi era, secondo l’antichissima mitologia irlandese, il figlio della principessa Eithnè, figlia del ciclope monocolo Balor, re dei Fomori; a Siracusa esiste il fiume Ciane, che potrebbe essere identificato con l’omonimo fiume che scorre nei pressi di Scheria, luogo nel quale approda Ulisse, e al quale l’eroe si rivolge come ad un dio locale, onde ottenerne protezione, essendosi subito dichiarato suo supplice. Noi, tuttavia, propendiamo per un altro possibile significato del nome Alcinoo: nell’Odissea questi afferma, infatti, di governare il paese, evidentemente suddiviso in dodici comunità, con altri dodici principi, tra i quali lui era un primus inter pares. In Irlandese il vocabolo cenedl [2] indica un raggruppamento di uomini uniti da vincoli familiari, pertanto Alla cenedl (da cui potrebbe derivare Alcinoo)  significa “ tutte le comunità o famiglie” ovvero la massima autorità civile che le rappresenta. È altresì curioso che la storia narrata dall’incallito bugiardo Ulisse – così lo definisce la dea Atena in Od. XIII –  in merito al presunto accecamento di Polifemo, sia pressoché identica al mito irlandese dell’accecamento involontario del ciclope Balor tramite la fionda del nipote Lug. Una storia, quella raccontata da Ulisse sul ciclope, che ad Alcinoo doveva suonare piuttosto familiare, al punto da indurre a ritenere la versione sicula del mito di Polifemo un adattamento locale di quella irlandese sul ciclope monocolo Balor, re dei Fomori.

Dal racconto omerico emerge che i Feaci, prima di essere scacciati dai Ciclopi, avevano vissuto pacificamente con essi per molto tempo; del resto erano consanguinei, visto che gli uni e gli altri erano progenie di Poseidone ma di madri diverse. Si noti che anche gli irlandesi Tuatha de Danan erano sotto la pressione dei ciclopi Fomori, guidati da Balor. La rottura tra Ciclopi e Feaci, dalla quale derivò l’esodo di questi ultimi, avvenne sotto il pessimo regno di Eurimedonte che, come si legge nel testo omerico, provocò disgrazia a se stesso e al suo popolo. Si ricordi che Eurimedonte era stato il bisnonno di Alcinoo. Il condottiero dei Feaci fu il nipote di Eurimedonte, Nausitoo, nato da un rapporto extraconiugale tra la figlia di Eurimedonte con Poseidone. Fu Nausitoo che, con il suo seguito, partì dalla sua sede originaria, spostandosi verso la zona costiera meridionale, al fine di trovare un sito marinaro e mettere a frutto le grandi esperienze nautiche del popolo. Fu così che fondò Scheria. Queste qualità marinaresche procurarono alla comunità al seguito di Nausitoo la denominazione di Feaci, nome che, a nostro avviso, è riconducibile alla lingua nord europea e ancora rintracciabile nel verbo tedesco fächeln, che significa “alitare del vento”, con probabile allusione alla pratica della navigazione. Non escludiamo neppure la derivazione del nome dal norreno felàg, parola che designava una “comunità vichinga che metteva in comune i propri beni”. I Felagi/Feaci avrebbero potuto seguire questa pratica appena arrivati nella nuova dimora. È il caso ricordare ai nostri lettori che Tacito segnalava la pratica di coltivare appezzamenti di terreni, in comunità, tra i Germani. La proprietà collettiva fu una pratica rimasta  inalterata fino al XIV-XV sec. nel Galles e in Irlanda.

Su questo racconto omerico vogliamo però aprire una piccola parentesi, motivata dalla necessità di fare ulteriore chiarezza storica sulle remotissime origini del popolo sicano. Noi riteniamo che il popolo sicano fosse apparentato ai Ciclopi e fosse dunque, da epoca pre-storica, autoctono. Riteniamo poco credibile quanto affermato da Diodoro circa l’abbandono della Sicilia orientale, terra fertile e strategica, da parte dei Sicani a motivo delle colate dell’Etna. Infatti, in primo luogo non riteniamo possibile che tali colate potessero essere così disastrose e diffuse; secondariamente, posto che tali colate fossero state realmente devastanti, non potremmo spiegarci il motivi del successivo insediamento dei Siculi sul terreno arroventato e improduttivo abbandonato dai Sicani.  

Tuttavia, crediamo che l’Etna possa essere stata in qualche modo la causa dell’abbandono della parte orientale della Sicilia da parte di alcune comunità sicane. Infatti, è geologicamente provato che la parte orientale del vulcano Etna, cioè l’enorme depressione che oggi forma la valle del Bove, nel seimila circa a.C. collassò e scivolò verso il mare Ionio, provocando un immenso maremoto (epiteto, lo si ricordi, con cui veniva designato Poseidone), le cui onde investirono perfino l’attuale stato di Israele, provocando l’inondazione di molte città costiere, tra cui la famosa città israeliana di Atlit-Yam, esplorata ultimamente dagli archeologi subacquei. Potrebbe essere stato questo il vero motivo che costrinse i Sicani costieri, chiamati Feaci dopo questi fatti, ad abbandonare le coste, allontanandosi dal “furioso” Etna. Una traccia letteraria di tale evento, posta l’identità tra Feaci e Sicani, successivi fondatori di Scheria-Siracusa, può essere rintracciata nell’Odissea, alla quale evidentemente attingeva anche Diodoro, in cui si fa riferimento al rapporto di ostilità tra la città Scheria e il dio del mare Poseidone, detto anche Maremoto: circolava, infatti, tra il popolo dei Feaci, una profezia, secondo la quale Poseidone\Maremoto,  adirato contro i Feaci, avrebbe prima o poi inondato la loro potente città, facendovi scivolare sopra un grande monte (l’Etna appunto). La profezia cui fa riferimento Omero, come spesso accade nell’intreccio tra reale e fantastico che caratterizza il gioco letterario, sarebbe in realtà il lontano ricordo di un evento già verificatosi millenni prima nell’originaria sede etnea dei Feaci. Se la città dei Feaci fosse stata realmente coperta dai massi del vulcano e inondata dal maremoto, Nausitoo, costretto a cercare un’altra terra, verificata l’indisponibilità del popolo dei Ciclopi ad accogliere lui e la sua gente,  non avrebbe avuto altra alternativa che spostarsi alla ricerca di territori liberi o andare supplice alla ricerca dell’ospitalità di gente magnanima.

Tali condizioni dovettero concretizzarsi più a sud, lontano dal pericolo Etna, in un territorio ospitale, all’interno del quale dovevano sentirsi “al sicuro”, in una “casa sicura”; non a caso Sicher-usa, o Scheria, in lingua tedesca, la lingua più affine all’antica lingua nord-europea dalla quale, a nostro avviso, come è ormai noto ai nostri lettori, derivava anche il Sicano, significa “casa sicura”.  

   3. CHI ERANO I FEACI

Nell’Odissea si legge che i Feaci erano considerati affini agli dèi e della stessa stirpe di Poseidone [3], il quale era anche padre del Ciclope Polifemo. A motivo del grado di parentela che intercorreva tra i Feaci e Poseidone è ovvio supporre che questi abili navigatori, che del mare facevano una grande risorsa economica a motivo dei commerci, avessero innalzato nella loro nuova città, Scheria/Siracusa, un culto a Poseidone, il loro Avo, definito da Omero “L’antico”. Del resto a Siracusa vi era un tempio  nel quale si praticava il culto di un dio pre-greco, ancora oggetto di grande devozione durante il periodo della pretura ciceroniana in Sicilia, come apprendiamo dallo stesso oratore. È significativo che questo dio venisse chiamato Urio, ovvero “L’antico”, dal momento che in tedesco (lingua che, come è ormai noto ai nostri lettori, riteniamo affine, per le ragioni altrove argomentate, alla lingua siculo/sicana) Ur significa appunto antico. 

Anche dopo il colpo di stato del tiranno Archia, a Siracusa rimangono tracce significative della presenza dei Sicani, soprannominati dai Greci Killiroi, l’equivalente, a nostro giudizio, del termine Feaci; è vero infatti che la dea greca Artemide era diventata la protettrice della città, ma nelle monete siracusane dell’epoca si ravvisano dei delfini, animali acquatici che richiamano il culto dei dio del mare, e il tempio dedicato ad Urio, come attestato da Cicerone, continuava a mantenere un notevole rilievo. È appena il caso di richiamare il concetto, già argomentato in altre pubblicazioni, che Feaci, Killiroi, Sicani, Ciclopi, Giganti, sono nomi con i quali venivano indicati popoli appartenenti ad una medesima stirpe, che avevano sviluppato nel tempo particolari caratteristiche: i Feaci\Killiroi erano dei portuali, i Ciclopi abilissimi costruttori edili, i Sicani erano votati ad attività religiose visto che si definivano gli eredi dell’avo primordiale (da Sich, sé, se  stesso, e Ano, Avo, antenato), i giganti erano “coloro che percorrevano la terra”, gli emigranti (da Ki, “terra”, e gang “andamento, andatura”). Il termine Gigante era invece utilizzato in senso dispregiativo, infatti i Giganti sono definiti selvaggi dai Feaci. Il termine Scheria, derivante dal germanico Sicheria, sicher, che significa “sicurezza”, indica un luogo, una dimora in cui i Feaci si ritenevano al “sicuro” dalla persecuzione dei Ciclopi o, secondo l’ipotesi sopra formulata, dai cataclismi provocati dal vulcano Etna. In effetti l’isolotto siracusano di Ortigia – detto anche l’isola [4] – luogo che, per primo, vide l’insediarsi di genti, fu ritenuto inespugnabile da tutti i nemici che vi si fossero accostati, dall’epoca cartaginese fino all’epoca romana, tanto che la città cadde infine nelle mani dei legionari solo in seguito ad un tradimento. 

   4. FEACI\KILLIROI\SIRACUSANI

I Feaci, presentandosi ad Ulisse, riconoscono di non essere un popolo di grandi capacità belliche, ma non perdono occasione di farsi vanto delle loro capacità di abilissimi marinai, qualità che ribadiscono in mille occasioni all’ammirato Ulisse. Utilizzando espressioni iperboliche, dicono ad Ulisse di aver raggiunto in un solo giorno l’isola di Eubea, la più distante tra le isole greche, quando vi accompagnarono il supplice Radamanto. Dicono ancora che le loro navi non hanno timoni né timonieri e vengono guidate grazie al pensiero. Inoltre, quando essi accompagnano Ulisse ad Itaca, lo fanno durante il periodo del lungo sonno dell’eroe, il quale non si accorge neppure di essere arrivato nell’isola natale. Nell’Odissea si afferma esplicitamente che i Feaci conoscevano bene la rotta per la Grecia e, implicitamente, si afferma che in materia di navigazione erano molto più bravi dei Greci, tanto che mentre molti di questi ultimi, al ritorno da Troia, si dispersero per Mare, i Feaci navigavano senza avere mai problemi. Dicevano che lo stesso Poseidone era invidioso della loro bravura nel fendere le onde marine, al punto che il dio, prendendo come scusa il fatto che i Feaci avevano accompagnato in patria, indenne, l’odiato Ulisse, per rappresaglia avrebbe affondato la loro nave appena rientrata nel porto di Scheria. Tali capacità nautiche avrebbero fatto assumere ai Feaci l’ulteriore denominazione di Kieleroi cioè “costruttori della chiglia di una nave”.

Tra il XIII sec. a.C., epoca di ambientazione del racconto omerico, e l’VIII sec. a.C., periodo della pseudo fondazione di Siracusa ad opera di Archia, la stratificazione sociale nella città cambia: i Sicani/Feaci avevano sviluppato, accanto alla flotta navale, anche un potente esercito di terra, comandato dalla forte aristocrazia dei Gamoroi. La flotta navale, sia bellica che commerciale, veniva gestita invece da una consorteria di carpentieri, marinai e portuali, i quali venivano definiti killiroi, cioè costruttori di chiglie, e si connotavano per la loro forte opposizione politica ai Gamoroi (vedasi articolo I Cilliri del Simeto). In questo contesto, a Siracusa giunge supplice Archia, accolto benevolmente e generosamente dal saggio e potentissimo re Iblone. Quanto da noi dedotto, si può facilmente leggere fra le righe de Le Argonautiche di Apollonio Rodio. Egli afferma che, molto tempo dopo i fatti da lui raccontati, gli Efiri (Efiria è l’antico nome di Corinto, patria di Archia) avrebbero trasportato in terra di Feacia la loro dimora. Pertanto, mettendo assieme Diodoro, secondo il quale Feace era padre di Alcinoo e figlio di Poseidone (lib.IV, 72), il cui culto era importantissimo a Zancle\Messina, Strabone e questo sibillino passaggio di Apollonio, non si può non identificare in Archia il capo della spedizione Megaro-corinzia accolta dall’ospitale Iblone, principe sicano di Scheria\Sicheria\Siracusa.

A Corinto Archia si era macchiato di un infame delitto, per il quale era stato costretto alla fuga o era stato espulso, accampando di conseguenza diritti di ospitalità presso il tempio di Poseidone\Urio, a Siracusa, dove venne accolto dal re sicano. L’accoglienza dell’ospite supplice era considerata dovuta, secondo un uso condiviso dall’intero universo indoeuropeo; un rifiuto sarebbe stato considerato un atto di empietà. Sia l’Iliade che l’Odissea danno una precisa idea del concetto di ospitalità vigente presso il mondo indoeuropeo, basti pensare all’accoglienza di Telemaco da parte di Nestore prima e di Menelao poi, di Ulisse, sotto mentite spoglie, da parte del porcaro o all’incontro tra Glauco e Diomede. Dai racconti appresi dalla letteratura antica si evince con chiara evidenza che l’accoglienza di un supplice, fosse pure un assassino, era comunque dovuta: Radamanto, che il re dei Feaci Alcinoo aveva ospitato, prima che Ulisse giungesse a Scheria, e aveva scortato, vantandosene, in tutta sicurezza fino in Eubea, aveva ucciso un parente; Adrasto, resosi autore di un assassinio, seppur involontario, è accolto da Creso, che gli affida anche la custodia del figlio, nella propria reggia; lo stesso avviene per Patroclo, anche lui un involontario assassino, che trova rifugio, assieme al padre Menezio, che ne condivide la sorte per amore paterno, nella reggia di Peleo, il quale lo tratta come un figlio e lo nomina scudiero di Achille; il fratellastro di Aiace, Medonte, come apprendiamo da Omero, viveva a Filache in seguito all’uccisione di un parente della matrigna. L’espulsione per omicidio era pratica in uso pure presso i Germani e vi incappò il famoso vichingo Erik il Rosso, che scoprì la Groenlandia in seguito a tale accadimento. Pure Abramo, come lascia intendere il suo stesso nome (Abraum significa in tedesco “ciò che si deve eliminare, espellere”) e il nome del padre, Tare, riconducibile al tedesco Tarn, “nascondere”, dovette essere espulso. Lo stesso Mosè, dopo aver raso al suolo le città filistee e rifondato le proprie sulle loro macerie, prescrive che vengano create “tre città rifugio (…) affinché qualunque omicida vi si possa rifugiare” (Deuterenomio 19,3). La posizione di Mosè è del resto comprensibilissima visto che lui per primo aveva subito la sorte del supplice. Infatti, dopo aver ucciso un egiziano, era andato ramingo per le terre della Palestina, fino a quando venne accolto come ospite o supplice da Jetro, un sacerdote filisteo soprannominato Raguel, di cui sposò la figlia. Anche il nome filisteo di Gerson (“figlio della lancia” da ger lancia e son figlio) dato al proprio figlio spiega come questo patriarca avesse appreso e condiviso dai Filistei, la loro cultura. Restando in ambito ebraico, un’eco di un’incomprensibile protezione prevista nei confronti di chi si fosse macchiato di assassinio giunge perfino dal monito lanciato dal dio ebraico, il quale perentoriamente raccomanda: “Che nessuno tocchi Caino”, nonostante questi avesse assassinato il fratello.

Dunque Archia, macchiatosi di un odioso delitto, probabilmente involontario come lascia intendere Strabone (Geografia lib.VIII) e come anche noi crediamo, poiché l’involontarietà del crimine commesso doveva essere la condizione necessaria per essere accolti quali supplici, ma causato comunque dalla sua sozza anima, riparato a Siracusa e accolto da supplice, dopo la morte del re sicano Iblone brigò con gli aristocratici siracusani per prendere il potere e trasformarlo in tirannide. In seguito si verificò la progressiva connivenza e l’appiattimento degli aristocratici alla politica del tiranno; solo i Kiliroi fecero registrare una decisa opposizione politica ad Archia. Crediamo, a buon motivo, che, a partire dalla presa del potere da parte del greco Archia, Siracusa sarebbe stata caratterizzata da una divisione etnico politica interna, che avrebbe visto contrapposte le due fazioni, quella greca da un lato e quella sicana\sicula dall’altro, fino all’avvento della potenza romana. Il tradimento del siracusano Soside, che non esita a consegnare la polis ai Romani nel 213 a.C. pur di porre fine al “regime” tirannico greco, va forse considerato alla luce di questa posizione anti-greca [5] di una parte della società siracusana. È probabile infatti che la famiglia dei Sosidi fosse un’antica famiglia di origine sicana, espropriata degli antichi privilegi dagli infidi greci di Archia e mai rassegnatasi alla nuova situazione; del resto, già nel 403 a.C., un altro Soside si era opposto vigorosamente al tiranno greco Dionigi il Vecchio, ma, sconfitto, aveva dovuto abbandonare Siracusa per andare mercenario, con altri duemila concittadini, sotto il re persiano Ciro. I Sosidi rappresentarono a Siracusa, probabilmente, ciò che i Fabi, i quali avevano fatto della guerra contro gli Etruschi quasi un fatto personale, furono a Roma. I Romani, conquistando rovinosamente Siracusa, ebbero il merito di fare cessare ogni contrapposizione etnico politica interna non solo a Siracusa ma in tutta l’isola, riportando il livello spirituale degli isolani ad un comune sentire, sotto la guida di una città che, per dirla con Plutarco, era sorta per un volere divino perché fosse guida ai popoli.  


[1] Nella regione irlandese del Meath si trovano la tomba neolitica o osservatorio di New Grange, in cui sono scolpite numerose spirali, e la collina di Tara, nella cui sommità sono tracciate due spirali visibili solo dall’alto. Le  spirali irlandesi, in un nostro recente articolo, sono state collegate alle spirali incise nei capitelli di colonna ritrovati ad Adrano, nella contrada Mendolito. 

[2] Ci piace aggiungere, onde avvalorare ulteriormente la tesi della comune origine di Irlandesi e Sicani, che pure l’indecifrabile significato del toponimo Centuripe, cittadina sita ad una spanna di distanza da Adrano, può essere chiarito con l’ausilio della lingua e delle tradizioni nord europee. Il nome potrebbe infatti verosimilmente derivare dal termine cenedl (attestato in irlandese), successivamente evolutosi in cent, ur e perga, con il significato di “antica (ur) comunità (cenedl) sul monte (perga)” oppure con il significato di “antico baluardo sul monte” dal momento che in britannico è anche attestato il termine Cent (ora Kent, nome della nota contea londinese) con il significato “confine, bordo”.

[3] Odissea lib. XII:  “Nemmeno i mortali, i Feaci, che sono della mia stessa razza, non mi offrono culto più”. Odissea lib. VII: “Noi  (Feaci) siamo affini agli dei come i Ciclopi o come le tribù selvatiche dei Giganti”.

[4] Il fatto che Ortigia fosse anche definita l’Isola, ha dato vita all’equivoco della fondazione di Archia. Infatti, Tucidide afferma esplicitamente che Archia fondò Siracusa dopo aver cacciato i Siculi che abitavano l’isola. Poiché Archia non cacciò di certo i Siculi dalla Sicilia, con il termine “isola” si deve intendere il secondo nome di Ortigia.

[5] Da Tucidide apprendiamo che a Siracusa, durante la guerra del Peloponneso, una èlite di aristocratici fornisse informazioni al generale ateniese Nicia e lo sollecitasse a tentare  la presa della città.

– Francesco Branchina