Iddu, A Muntagna, Mongibello. Nomi storici e gergali per riconoscere il vulcano più alto d’Europa, l’Etna. Da quasi due anni è entrato nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco e, complice una buona attenzione mediatica, la sua vocazione agricola incuriosisce sempre più. Il vino domina il territorio. Accanto a realtà gastronomiche e agricole sempre più interessanti.
 
L’Etna è una fucina di biodiversità. Qui il vino ha tirato la volata, facendo del vulcano uno dei luoghi vitivinicoli più trendyd’Europa: ricopre meno del cinque per cento della produzione dell’isola, ma se ne parla come se questa ammontasse a novanta. Intanto l’enoturismo cresce e con esso tutto ciò che serve ai viaggiatori: alberghi, b&b, ristoranti, realtà produttive. È l’idea di un’Etna gourmet.

Poche cucine sanno bilanciare con altrettanta sapienza il salato e il dolce, come quella siciliana. È il suo cuore agricolo e nobile che batte all’unisono. E se la zona orientale da tempo fa incetta di riconoscimenti, l’Etna dei cuochi ha acceso i fuochi per una sfida alla pari: non più solo i grandi alberghi di Taormina, ma anche trattorie e osterie nate tra le sciare (accumuli lavici) del vulcano e poi relais e case di charme.

Cucine isolane da relais

Come nel country boutique hotel Zash, a Risposto, dove il cuoco trentenne Giuseppe Raciti usa il mare e i sapori della Muntagna: su un risotto mantecato con polvere di rosmarino, capperi e zeste di limone candito ci sta (bene) un carpaccio di gamberi. Tutto a chilometri zero: dal giardino di erbe aromatiche e agrumi dell’albergo. Cinque chilometri più a sud, un altro resort, il Donna Carmela, ha puntato sulla cucina di un giovane chef, Andrea Macca – allievo di Ciccio Sultano – che omaggia Iddu(il vulcano) con paccheri sabbiati: un formato troncoconico ripieni di ricotta con funghi porcini (quelli neri sono una prelibatezza dell’Etna) e adagiati su una crema di zucca. Nella versione primaverile il carciofo prende il posto del fungo, e il macco di fave quello della zucca. La croccantezza è nella sabbiatura realizzata con una polvere tostata e incocciata( come per il cus cus) di pomodori secchi, acciuga, capperi e pangrattato. A Zafferana Etnea, la cucina del ristorante Parco dei Principi dell’Esperia Palace Hotel segue le regole vulcaniche di Seby Sorbello, presidente dell’Associazione cuochi etnei, così innamorato del vulcano da dedicargli il Ripiddu (ghiaia nera di lava), piatto creato con soli ingredienti provenienti dal Mongibello: una tartare di carne di asina marinata nella mela cola (piccola, acidula e croccante), miele, timo e aneto con quenelle di nocciole, ricotta di pecora, bouquet di cannatedda(un’erba spontanea dolce che cresce sulle pendici) e il crumble realizzato con una riduzione di Nerello Mascalese (il Ripiddu, appunto). Un’invenzione culinaria simile a una mappa gastronomica.

Easy food in salsa etnea

Più semplice ma altrettanto territoriale è la proposta della trattoria San Giorgio e il Drago di Peppe Anzalone a Randazzo: il cuoco prepara tutta la pasta in casa e la condisce con verdure di stagione come le sparacogne, gli asparagi selvatici dell’Etna che crescono fino a 1.300 metri di altezza (si raccolgono fino a estate inoltrata). La sua collegaLina Castorina della trattoria I 4 Archi di Milo ha scelto invece un presidio Slow Food, il cavolo trunzu di Aci, un cavolo rapa coltivato anticamente negli orti di Acireale e riconoscibile perché la parte edule ha striature violacee, comune a molti ortaggi coltivati su terreni vulcanici: si accompagna con salsa di pomodoro e scaglie di ragusano, per ammorbidire l’amarognolo delle foglie. Da Catania come si fa a non pensare all’Etna? Lo,vedi, lo senti, lo puoi mangiare. Come ha fattoAndrea Graziano con PorkEtna l’ultimo panino uscito da quel laboratorio del gusto che è il suo locale Fud: il pane che ha la forma del vulcano, un pastrami di maialino dei Nebrodi aromatizzato con chiodi di garofano, ginepro e sale affumicato, cotto a bassa temperatura e condito con broccoli, confettura di mela cola e miele di Zafferana Etnea, dopo un’impanatura al pistacchio.

Nel regno della frutta secca

L’Etna deve molto alla frutta secca, in particolare al pistacchio. L’oro verde viene dai comuni di Adrano, Bronte, Biancavilla e Ragalna, nei quali viene coltivato quasi il cento per cento del pistacchio italiano. Pochi sanno che è una coltura a produzione biennale e in annate non semplici, come la scorsa, il prezzo è arrivato a quasi 50 euro al chilo. Si parla complessivamente di 300 ettari e con alberi produttivi solo a dieci anni dall’impianto. I noccioleti invece crescono dove le vigne non arrivano e trovano nel terreno vulcanico un habitat naturale: buona acidità, sostanze organiche e calcare attivo. Interprete rigoroso di questi prodotti – a cui va aggiunta la mandorla – è la pasticceria Alhambra di Linguaglossa della famiglia Barone, nata nel 1939. Il suo nome cominciò a circolare grazie al croccante di nocciola ricoperto di cioccolato. Una nocciola che da queste parti sa di ginestra. Seguiranno le classiche paste di nocciola, di mandorla e di pistacchio che sono sempre fresche – durata massima quattro settimane – e mai stucchevoli. Nel forno ci stanno per non più di due ore, per scongiurare l’effetto “biscottato” e farle rimanere fragranti.

Adrano, porchette made in Sicily

La carne non manca sul vulcano, né le macellerie. Famose le salsicce, soprattutto, quelle “al ceppo”, fatte di carne di maiale e speziate con finocchietto selvatico. La tradizione vuole che vengano lavorate su un grosso pezzo di tronco d’albero di quercia – detto anche chianca. Eppure non c’è tradizione di salumi. Almeno fino all’apertura di Nero Maialino, la macelleria-salumeria di Giuseppe Indorato ad Adrano: prosciutti, porchette, salsicce stagionano sull’Etna che, secondo Pippo, regala tutt’altro sapore. Il negozio è meta di cultori della “ciccia”: porchetta di maialino nero dei Nebrodi, il manzo marinato, il salame di suino nero, le salsicce piccanti rosse dell’Etna, i prosciutti cotti. Questa è la boutique di Giuseppe dove si è fermato dopo aver girato in l’Italia come tecnico: insegnava anche in grosse aziende tecniche di taglio, speziature e temperature adatte. I vitelli sono siculi, della zona di Fiumefreddo e Sortino e in bottega si trovano anche wurstel “homemade”.

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– Francesca Ciancio per il gamberorosso.it