L’operazione Adranos, il blitz antimafia della direzione distrettuale antimafia di Catania contro il clan Santangelo, ha permesso di individuare le strategie attuate dai vertici della famiglia mafiosa per autofinanziarsi. Cioè trovare le risorse economiche necessarie per l’acquisto della droga e per pagare gli stipendi ai picciotti del clan. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono state riscontrate dalle indagini della polizia del commissariato di Adrano tramite le intercettazioni ambientali, e avrebbero accertato come i componenti dei Santagelo Taccuni avrebbero fatto ricorso, oltre che alle estorsioni, anche a furti e rapine. Tra bancomat di istituti di credito sradicati e colpi ai danni di privati cittadini. «Nel 2015, quando già erano in carcere Nino Crimi Nino Quaceci (due presunti esponenti di spicco della cosca, ndr), era Salvatore Crimi la persona che per il clan autorizzava le cosiddette spaccate dei bancomat», dice ai magistrati Antonino Zingale uno dei tanti pentiti ascoltati dai magistrati.

«I proventi – continua Zingale – andavano a lui, perché era responsabile della cassa della famiglia». In una occasione, spiega il collaboratore di giustizia, gli sarebbe stato chiesto in prestito un garage per nasconderci dentro una cassaforte da rompere, per prendere i soldi al suo interno. «Io però alla fine il garage non l’ho dato», prosegue. Sono sostanzialmente due i casi, alla fine del 2015, in cui i presunti appartenenti alla famiglia mafiosa adranita avrebbero tentato di rubare i bancomat. In entrambi i casi, però, l’esito sarebbe stato negativo. Nonostante un’organizzazione puntigliosa. Il 27 novembre 2015, per esempio, alle 16.15 alle forze dell’ordine arriva la segnalazione di un’automobile in fiamme sulla strada statale 284, in direzione Bronte. Era un furgoncino Fiat Fiorino, poi risultato rubato, che conteneva decine di pneumatici. Il fumo avrebbe reso impossibile la circolazione stradale e il rogo avrebbe impegnato per ore gli agenti.

Quel giorno, alle 16.45, la rapina alla banca Unicredit di via Garibaldi, ad Adrano. Quattro persone, tutte col volto nascosto con caschi integrali per motociclisti, tutti coi guanti e uno armato di pistola, avrebbero infranto la vetrata blindata dell’istituto di credito con un mini-escavatore e sarebbero andati direttamente verso il locale che custodisce i due bancomat. Che però sarebbe stato chiuso, costringendoli ad andare via a mani vuote. Per un caso, le due casseforti erano state caricate di denaro al mattino e non, come di consueto, intorno a quell’ora del pomeriggio. Il mini-escavatore era stato rubato nel primo pomeriggio in un cantiere alla periferia di Santa Maria di Licodia. Poco meno di un mese dopo, al Banco popolare proprio di Licodia, il secondo colpo andato male. Stavolta per via delle intercettazioni. Il 17 dicembre 2015, Salvatore Crimi e Alfredo Pinzone si accordano al telefono per un incontro, necessario a definire un non meglio precisato programma. Sette giorni dopo, le cimici degli investigatori registrano un colloquio in auto tra Maurizio Pignataro, Salvatore Crimi e Nicola Trovato, in attesa di Pinzone e di altri. 

Una volta arrivato all’appuntamento, Pinzone avrebbe informato «Crimi e gli altri che era tutto pronto – si legge nelle carte dell’operazione Adranos – Poiché era disponibile il mezzo meccanico che evidentemente doveva essere utilizzato con il metodo della cosiddetta spaccata». Gli agenti, però, arrivano prima. E arrestano gli aspiranti ladri in flagranza. Altro metodo di autofinanziamento era quello delle rapine. La più nota è anche, probabilmente, la più cruenta: il 23 gennaio 2015, a Santa Maria di Licodia. Il pentito Valerio Rosano descrive ai magistrati quanto avvenuto all’interno dell’abitazione di due coniugi. A cui avrebbero partecipato Maurizio Pignataro, Nicola Trovato e Francesco Rosano, fratello del collaboratore di giustizia. I racconti, però, arrivano da altre fonti: suo padre, Vincenzo RosanoGiuseppe La Mela e Nino Crimi, che glieli avrebbero riferiti mentre si trovavano insieme in carcere, a Bicocca. «So che durante la rapina venne legata la donna e il marito venne minacciato e disse dove si trovava il borsone con circa 400mila euro». Soldi che poi vennero ripartiti: 20mila euro a Pignataro e Trovato, 15mila euro a Francesco Rosano e 15mila «a tutti quelli più importanti del clan». Circa 200mila euro, infine, sarebbero finiti nella cassa comune. Per comprarci la droga.

***

Salvatore Caruso via meridionews.it