xfcvxcNon potevamo lasciare inascoltata la voce delle Muse, che anelavano al ritorno in quella valle di cui parlammo in un articolo precedente (Valle delle Muse: gli dei abitano ancora qui!). Il gioco letterario iniziato in questo pregevole sito, si è trasformato così in un’imprevedibile e proficua ricerca delle antichissime radici adranite, verso la quale ci ha ulteriormente spinto l’affetto dimostrato dai nostri lettori e il consenso palesato dai patrioti adraniti sopravvissuti al declino della città, declino il cui inizio può, con certezza, essere datato a partire dall’ultimo ventennio. Quell’articolo faceva, tra l’altro, riferimento ad una epigrafe incisa su duro basalto, posta all’ingresso della Valle delle Muse, sotto il quale scorre ancora una copiosa fonte d’acqua.
L’epigrafe è nota agli studiosi da molto tempo, ma nessuno si è mai seriamente cimentato nel tentativo di tradurla. Veniva messa in dubbio perfino la lingua con la quale l’ignoto e remoto scrittore immortalò e consegnò ai discendenti il proprio cantico; per qualcuno si trattava di un greco corrotto, per altri di un arabo grecizzato e per altri ancora di un tardo latino misto ad un locale dialetto greco. Volendo cimentarci anche noi nel tentativo di effettuare una traduzione coerente e plausibile, animati dal patrio fuoco di chi si accosta con indicibile entusiasmo ad ogni vestigia del passato, soprattutto se scaturita dalla creatività di un probabile Avo degli Adraniti, ci siamo avvalsi della collaborazione del Sig. Rodolfo Furneri, un adranita editore di un rinomato sito di Mitologia visitato da migliaia di utenti (Mitologia e… dintorni), affinché ci collaborasse in questo titanico sforzo. Grande appassionato della lingua greca (ἐκπᾰθής πρός τι Ἑλλάδα γλῶτταν), l’editore non si è lasciato pregare e ha subito accolto l’invito; sottoponiamo ai nostri lettori la sua traduzione.

Immagine

lkjn

Traduzione del 1º rigo:

IL VORTICE DI ACQUA GORGOGLIANTE È SIMILE A CORRENTE DI LUCE

Le lacune che caratterizzano gli altri due righi hanno indotto il nostro egregio amico Rodolfo Furneri a rinviarne la traduzione; ma noi che ci avvaliamo dell’insindacabile libertà poetica, pur supportati dalla storia e nutriti dal mito che aleggia intorno a questo magico luogo, siamo andati oltre la scienza linguistica e, seguendo le Muse, che ivi ancora abitano, le quali conducendoci per mano fra gli anfratti lavici, i boschi verdeggianti, le acque fluenti e copiose ci hanno ispirato, abbiamo osato e così tradotto le rimanenti due righe:

“PARLANDO AL (l’animo) NOBILE LO CONDUCE ALLA SORGENTE (di luce o del sapere)”.

L’autore dell’epigrafe, un poeta o un sacerdote, invitava in tal modo il neofita, che si accostava a quei magici luoghi, a prestare orecchio al “chiacchierio” dell’acqua corrente, nel quale poteva celarsi la voce del divino. Altrove, a Dodona, gli dèi comunicavano con il sacerdote, che ne interpretava il linguaggio, attraverso il “chiacchierio” delle foglie mosse dal vento della quercia sacra a Zeus, la quale faceva da santuario.

ef

Questa nostra libera traduzione, in base alla quale l’iscrizione assume un carattere sacro, trae giustificazione della presenza, nel luogo in cui si trova l’epigrafe, dell’ara degli dèi Palici, cui lo stesso poeta Virgilio, nel Lib. IX dell’Eneide, fa riferimento quando scrive, alludendo al mitico re siculo Capi: “(…) l’avea mandato di Sicilia il padre da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto, ov’è la mite ricca di doni ara di Palico“. L’interpretazione dell’epigrafe appare inoltre coerente con il mito dei due dèi gemelli Palici, i quali, come narra Diodoro, offrivano i loro responsi a chi li interrogava. Il mito della nascita degli dèi fratelli racchiude, a nostro giudizio, un significato nascosto o esoterico. Infatti, secondo quanto si narra nel mito, gli dèi Palici, erano stati “nascosti” all’ira di Era, dalla madre, la ninfa Talia (o Etna), moglie di Adrano secondo il mito, che li aveva generati a Zeus (così si legge ne Le Etnee di Eschilo); la tradizione però attribuisce la paternità dei gemelli al dio Adrano. Al fine di sottrarli alla rappresaglia della tradita dea Era, i due gemelli furono mutati in fonti d’acqua o ruscelli, che scorrevano sotterranei, ingrottandosi sotto la profonda lava eruttata dal vulcano Etna.

È significativo che i Palici (termine che, a nostro avviso, deriva dal termine germanico Baal Signore) fossero appellati anche Delli o Delloi, termini affini al tedesco Delle, nascosto, o all’ebraico Delloi, che significa anch’esso nascosto, ingrottato, esattamente come sotterranei erano i nostri due ruscelli identificati con gli dèi Palici. I nostri attenti lettori comprenderanno che il riferimento al tedesco, la lingua più simile all’antica lingua nordica, non è casuale, dal momento che è nostra convinzione, altrove esaustivamente argomentata, che la lingua parlata dagli antichi nostri avi Sicani, di cui rimane traccia nella celeberrima epigrafe urbica del Mendolito, collocata a circa ottocento metri di distanza dall’iscrizione in oggetto, era appunto una lingua nordica, affine all’antico germanico.

Si noti che, proprio dove è incisa l’epigrafe qui esaminata, sotto una lastra di duro basalto, viene alla “luce” un ruscello, che scorre per chilometri “nascosto” da una spessa coltre lavica; il ruscello, nel mito e nella finzione poetica, altri non è se non il Palico ovvero “il nascosto” dio sicano, trasmutato in sorgente per sfuggire all’ira della tradita dea Era. Si consideri che, nei pressi della Valle delle Muse, nel sito archeologico del Mendolito, sono stati ritrovati tegoli funebri con epitaffi in lingua sicana che noi abbiamo interpretato con le espressioni “regno della luce” e “viaggio nel regno della luce“. Certamente l’autore dell’iscrizione era a conoscenza del mito degli déi Palici e verosimilmente sapeva che l’appellativo Delli alludeva anche alle conoscenze esoteriche di cui questi déi erano portatori e i loro sacerdoti custodi. Che la “fonte dei Palici“, nelle cui vicinanze sorgeva “l’ara dei Palici” e la “valle delle Muse“, fosse il luogo sacro, il “tempio” dell’iniziazione appare pertanto una conclusione consequenziale. Del resto in tutte le religioni indoeuropee vi era un dio custode di segreti comunicabili soltanto ai prescelti, agli iniziati: in Grecia vi era Ermes, l’inventore della lira, strumento musicale ormai noto ai nostri lettori per il legame che esso ha con il culto di Adrano (vedasi Sicani e celti irlandesi. Due rami dello stesso albero), così come in Egitto vi era il dio Thot. Persino l’oro alchemico, in cui doveva essere trasmutato il vile piombo con il ricorso a conoscenze esoteriche, a cosa avrebbe fatto riferimento se non al sole apollineo?

La nostra epigrafe dunque era probabilmente un monito per quanti, ispirati da sacro timore, si accingevano alla conoscenza dei misteri degli dei Palici; che l’autore fosse un poeta, possibilmente iniziato ai sacri misteri, è possibile. Si consideri, infatti, che la Sicilia, specialmente a partire dal V sec. a. C., durante lo splendido regno dell’illuminato re siracusano Gelone e poi di suo fratello Jerone, vide la presenza dei più prestigiosi poeti della Grecia, tra i quali Eschilo, iniziato ai misteri di Eleusi, misteri nati, secondo Diodoro (Biblioteca Historica V,3,) nella cittadina ellenica al fine di ringraziare la dea siciliana Demetra, approdata fino in Grecia, alla quale donò la conoscenza del grano, per cercare la figlia Proserpina. Eschilo rischiò perfino la morte essendo stato accusato di aver svelato nei suoi componimenti, seppur utilizzando metafore ed allegorie, parte di questi misteri.

Tornando alla nostra epigrafe, riteniamo dunque che il poeta volesse da un lato celebrare con i suoi versi il ritorno alla luce degli dèi Palici, dall’altro accogliere i neofiti che entravano nella Valle delle Muse, al fine di predisporre il loro animo alla dimensione sovrannaturale e metafisica del luogo, all’incontro con le Muse, con i Misteri e con gli stessi dèi. Del resto era antica consuetudine apporre frasi sibilline, comprensibili solo dagli adepti, all’ingresso dei luoghi sacri o dei luoghi sede di un sapere superiore. Da tale consuetudine non si astenne neppure Platone, che fece iscrivere nell’edificio che ospitava la sua Accademia la frase: “Che nessuno entri se non è geometra” (scolio a Elio Aristide 46,125); forse il filosofo intendeva richiamarsi al maggiormente famoso aforisma inciso sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, “conosci te stesso” (Γνῶθι σεαυτόν), con il quale si ammoniva l’iniziando, invitandolo ad esercitare un’approfondita introspezione prima di tentare la difficile via dell’acquisizione del sapere, al fine di accertare non solo e non tanto di essere degno di apprendere arcane verità, ma piuttosto di poter sostenere il peso della conoscenza.

Il tema del ritorno alla luce accosta il culto degli dei Palici, detti Delli, al culto di Apollo, dio della luce o del sole, il cui santuario aveva sede nella cittadina greca di Del-fi. La radice Del, contenuta nell’appellativo dei Palici e nel nome del santuario di Apollo, allude al campo semantico di tutto ciò che è nascosto, segreto e, pertanto, necessita di un’interpretazione “oracolare”. A Delfi la Pizia parlava, portava “alla luce” significati nascosti, utilizzando allegorie, metafore e frasi a doppio senso; ad Adrano il gorgoglio o il “chiacchierio” dell’acqua scrosciante era interpretato dai sacerdoti del culto. Due probabili sacerdoti del culto dei Palici furono, secondo la nostra ricostruzione, oggetto di prossimi interventi, i famosi condottieri Ducezio ed Arconide, citati dagli storici quali principi dei Siculi. Crediamo che il toponimo Delfi sia formato dai lessemi Del, nascosto, e fäseln, che significa sfilacciare, vaneggiare, fantasticare, o Fehl, difetto, fallo; pertanto il significato del toponimo ricondurrebbe all’idea di un oracolo “nascosto”, la cui interpretazione viene “sfilacciata” cioè data non nella sua interezza ma per “filamenti” o a “gocce”. Del resto una verità ambigua si prestava sempre a svariate interpretazioni, in modo da mantenere inalterato il prestigio divinatorio della Pizia: è noto il caso del re Creso che, chiesto alla Pizia se doveva muovere guerra alla Persia, apprende che “se lo avesse fatto un grande regno sarebbe caduto”. Naturalmente Creso interpretò la risposta in senso a sé favorevole, credendo che la Pizia si riferisse al regno del rivale Ciro; invece fu il proprio il regno di Lidia a cadere.

L’epigrafe adranita oggetto di esame è conclusa dal disegno di un albero, un ramoscello o una palma; tale incisione richiama alla mente l’albero cosmico di antica tradizione indoeuropea. L’albero ha rappresentato da sempre un potente simbolismo, che riconduce ad una interazione tra mondo e sovra-mondo. Secondo la tradizione nordica l’albero cosmico era un frassino (askr in norreno), considerato sacro assieme alla quercia. Odino, il dio scandinavo, veniva indicato anche con l’epiteto “quercia”. Gli dèi germanici si riunivano in assemblea sotto un frassino. Esiodo fa discendere la stirpe degli eroi dell’età del bronzo dal frassino. Anche secondo la mitologia norrena il primo uomo fu plasmato dal frassino (askr), mentre la donna derivava dall’olmo (Embla). Una palma veniva rappresentata sui monumenti babilonesi. La genealogia dell’uomo viene rappresentata con un albero: l’albero genealogico. Lo stesso Giove, per i romani arcaici, veniva rappresentato con una quercia. Sotto una quercia, a Dodona, il santuario più antico della Grecia, venivano conosciuti i responsi della divinità, interpretati secondo il rumore o “chiacchierio” delle foglie mosse dal vento. Naturalmente neppure la religione cristiana ha potuto fare a meno di un proprio albero, l’ “albero della vita”, che però fu apportatore di disgrazia per il genere umano. Certo noi adraniti del XXI secolo non possiamo sapere con certezza quali alberi crescessero sulle rive del nostro fiume Simeto nel momento in cui fu incisa l’epigrafe; oggi però si possono ammirare altissimi e secolari frassini i quali, con le loro cime ondeggianti che sfiorano il cielo, continuano a raccogliere fra le loro foglie, mosse dal caldo alito delle Muse, il “chiacchierio” di tali creature divine, diretto a quanti ancora oggi, conservando un “nobile animo”, sappiano comprendere, come direbbe Omero, la loro “lingua di dèi”.

Ad maiora.

 – Prof. Francesco Branchina