Questo articolo vuole mettere in luce le numerosissime affinità che i Sicani e Adrano in particolare hanno avuto con gli antichi Irlandesi. Nomi, toponimi, mitologia e soprattutto simbologia si ripetono in entrambe le due isole e fra le loro popolazioni con singolare frequenza.

In Irlanda esistono due colline denominate i seni di Anu, in irlandese Dà Chich Anu, Paps of Anu in inglese. Il nome Anu, reso al femminile in irlandese, potrebbe confondere i nostri lettori dal momento che, nel pantheon teogonico sicano, sumero, germanico e, in una parola, indoeuropeo, tale nome è utilizzato al maschile. A cosa si deve dunque questa differenza di sesso tramandata dagli Irlandesi? È probabile che i Celti Irlandesi, così come gli Ittiti, avessero maturato un concetto di divinità asessuata o meglio bisessuale; del resto anche i papi  Wojtyła e Ratzinger hanno invocato il dio cristiano quale padre e madre. Pertanto noi crediamo che, nel caso specifico, il nome Anu, poi identificato o deformato in Danu, sia stato utilizzato dai Celti irlandesi per indicare il loro dio maschio\femmina; lo confermerebbe il fatto che ancor oggi a uomini nord europei viene apposto il nome di Dana (uno tra i tanti è il geologo Dana Kuhn).

Si discute, fra gli accademici irlandesi, se Anu e Dana fossero la stessa dea e se gli antichi Celti fossero una comunità a reggenza matriarcale, visto che tanta popolarità si è dato al popolo della dea Dana, cioè i Tuatha de Danan (il nome Dana, a nostro avviso, si sarebbe formato dall’accostamento tra la preposizione “da” che in tedesco vuol dire qui, in questo luogo, e Ahn\a che vuol dire Avo\a, antenato\a). Che i popoli nordici si fossero dati regine e che tale abitudine sussista ancor oggi, millenni più tardi, rende semplicemente giustizia al fatto che gli occidentali, a differenza degli orientali, avessero nei confronti della donna una apertura totale, ravvisabile ancora nella società spartana, presso i Veda, gli Ittiti e ancora nella Roma augustea. La supremazia, nel pantheon irlandese, di una dea, non implica, ovviamente, che l’intera visione del mondo celtico e nord europeo soggiacesse ad una visione matriarcale della società.

Ma torniamo alle tradizioni mitiche comuni di Siciliani e Irlandesi, partendo dal nome di una principessa irlandese, Eithnè, nome per noi oltremodo familiare, essendo stato questo il nome attribuito in un secondo tempo alla città di Innessa, prima che fosse denominata Adrano, ed il nome dell’attuale vulcano siciliano, nonché, come da noi supposto in una ricostruzione storica, della figlia del principe sicano della città di Innessa, Teuto. In Irlanda Eithnè è la figlia di Balor, il re irlandese della stirpe dei Fomori. Balor è descritto quale gigante con un solo occhio, dunque un Ciclope, e il suo popolo rappresenta il caos iniziale. La principessa sposa un principe della razza dei Tuatha de Danan, un’etnia che rappresenta, al contrario dei Fomori, il popolo della luce, dell’organizzazione, della coscienza disciplinata. Se è vera la nostra tesi sulla consanguineità tra i Sicani e gli Irlandesi e che entrambi, oltre a parlare in origine una comune lingua, attingevano ad una medesima cultura, in Sicilia, al vulcano, non si poteva che dare tale nome, in quanto la sua attività rappresenta un’ingovernabile forza delle energie telluriche del caos. Da non trascurare la tradizione secondo la quale al vulcano siciliano erano associati i Ciclopi (anche Balor lo era!), i quali vivevano alle sue pendici. Lug, nipote della Eithnè celta, svolse, a giudicare dal racconto mitologico che si fa di lui, un ruolo altamente simbolico che, a nostro avviso, è ricollegabile al simbolismo equilibratore delle due spirali, che si dipanano, non casualmente, verso sinistra e verso destra. Infatti Lug sintetizza in sé le enormi forze ciclopiche dei Fomori, l’etnia cui fa parte la nonna Eithnè, e le capacità organizzative dei Tuatha de Dana, di cui fa parte il nonno.  Come Indra, l’uomo diventato dio nel racconto vedico, Lug riesce a far parte del banchetto di dèi che si svolge nella collina di Tara, grazie alle intelligenti risposte da lui abilmente fornite alle domande che gli vengono poste. È probabilmente per la capacità mostrata da Lug di svicolare dalle domande poste dal custode della reggia di Tara, attraverso il ricorso a mezze verità, che gli venne attribuito tale nome. Infatti in tedesco Lug significa bugia, inganno, frode. Lug applicò insomma, in tempi non sospetti, il biblico detto secondo il quale “bisogna utilizzare violenza per entrare nel regno di Dio”.

Facendo un breve volo pindarico intorno all’etimologia dei nomi sicani in ambito toponomastico, ricordiamo che la città siciliana di Triocala (l’araba Caltabellotta) aveva, secondo i Greci, il significato di “le tre cose belle”. Il nome Trinakria, se fatto derivare dall’accostamento dei lessemi tri-an-akara, potrebbe tradursi “le tre terre o promontori di Ano, l’avo”; oppure, se fatto derivare da tri-an-kr, letteralmente “tre-avo-potenze”, potrebbe essere tradotto “le tre potenze dell’Avo”. A Palma di Montechiaro è stata rinvenuta una triqueta o triscele del XIII sec. a.C. , disegnata su un vaso, in cui, al centro delle tre gambe, vi è ritratta la testa della Gorgone: se si inscrivono idealmente le tre gambe dell’emblema siciliano all’interno dell’isola, il centro, raffigurato con la testa della Gorgone, coinciderebbe con Enna, luogo da noi identificato con la primeva reggia del dio sicano Ano, reggia che il dio, successivamente, avrebbe donato alla pronipote, Inn-ana\Proserpina. Questa reggia siciliana era il corrispettivo sumero della reggia mesopotamica chiamata Eanna (si rimanda all’articolo, pubblicato su questo sito, Un dio tra il Simeto e l’Eufrate). Il simbolo della Triscele, tra l’altro, è anche uno dei simboli più importanti d’Irlanda. 

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La collina di Tara

Questa collina era la residenza del re irlandese ed è caratterizzata dalla presenza, sulla sua sommità, di due cerchi concentrici accostati, realizzati scavando enormi solchi nel terreno, che richiamano fortemente quelli scolpiti nei due capitelli ritrovati nella contrada Mendolito di Adrano. Il nome dato alla collina, se è vero, come noi crediamo, che possa ricondursi al vocabolo germanico, tarn, col significato di velato, nascosto, è davvero pertinente col mistero che la collina racchiude in sé. Infatti sembra evidente che i simboli sulla suddetta collina indichino un mistero celato o velato a noi, uomini moderni, e forse anche alle masse degli stessi Irlandesi, moderni e preistorici, ma certamente evidente ai sacerdoti Druidi, unici detentori del sapere, che comunicavano solo oralmente al discepolo prescelto (Cesare, De Bello gallico). Ma non sono solo le spirali a creare un collegamento tra l’Irlanda e l’Italia pre-greca; basti pensare al fatto che, nella Magna Grecia, il nome pre-greco di Crotone era Taras, città nella quale, forse non a caso, decise di stabilirsi, con i suoi discepoli, Pitagora, filosofo, mago, uomo profondamente religioso. 

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Nella mitologia irlandese la collina di Tara era la residenza dei  Tuatha de Danaan, il popolo della luce. Il termine Tuatha, che significa popolo, è riproposto, con varianti, nella epigrafe urbica del Mendolito, dove si legge Teuto, nome proprio del principe sicano citato da Polieno nella sua opera, Stratagemmi, ma anche, almeno inizialmente, nome comune, con il significato “padre del popolo” o “della patria”. Il vocabolo potrebbe aver avuto anche il significato di patriota e crediamo che in questa accezione lo utilizzarono i Romani nella variante locale di Tito. Non a caso il nome Teuto era sempre  attribuito a re: fu così per Teuta, la regina degli Illiri, Teutomato, re degli Allobrogi, Teutobodo, il principe gallo incontrato da Cesare, Teuto, principe di Innessa, Tuathal, leggendario re supremo d’Irlanda, che avrebbe regnato nel I o nel II secolo. Il nome di questo re irlandese deriva dal celtico Teuto-valos, leader (ma più appropriatamente, padre) della tribù o del popolo.

Ciò che dovrebbe maggiormente impressionare noi Adraniti è tuttavia la presenza di un altro nome, cui abbiamo già fatto cenno, a noi assai familiare e in Irlanda estremamente frequente: Eithne, nome della figlia del re Balor, ma anche nome della madre di Tuathal, nonché figlia del re di Alba, vissuta qualche millennio dopo la mitica figlia di Balor (Alba è il nome dell’antica Inghilterra; spontaneo l’accostamento ad Alba Longa, città del Lazio, dove si stanziarono i Sicani, fondata da Ascanio, figlio di Enea). In una nostra ricostruzione storica, proposta in un articolo apparso in questo pregevole sito sotto il titolo Etna: un matrimonio illustre nella Adrano del VI sec a.C., avevamo ipotizzato che la figlia di Teuto, re di Innessa (futura Adrano), si fosse chiamata Etna, ed oggi, nel constatare come questo nome sia legato in modo indissolubile ad una casta regnante, crediamo più che mai di aver colto nel segno.

Quello di Eithne è dunque un nome molto frequente nella mitologia irlandese, fin dall’epoca del bronzo. In età mitica Eithne è la figlia del re Balor, il re gigante e monocolo. Da lei nasce il mitico eroe Cian, da questi Lugh e da Lugh, Cu Cuhlainn. Tralasceremo di parlare di Cian, il cui nome riporta al fiume siracusano, ma il nome di Cu Cuhlainn trova singolare assonanza con il nome del principe sicano Cocalo. Questo principe, di cui parla lo storico di Agira Diodoro, regnava intorno al XIII sec a.C. nei pressi di Agrigento. Crediamo che il nome irlandese Cu Chulainn sia un attributo conferito all’eroe e guadagnato sul campo. Secondo la tradizione ufficiale irlandese, tale attributo sarebbe stato dato al nostro eroe in seguito all’uccisione del cane del fabbro Cullan; pertanto il significato dell’attributo, con una evidente forzatura interpretativa sarebbe “il mastino di Cullan”.  Tuttavia noi, che abbiamo in altra sede indagato in profondità sul significato e sulla derivazione del termine tedesco Kuh, che indica regalità (vedasi il testo La lunga notte. I Veda l’occidente e la trilogia delle razze umane), non ci accontentiamo di tale spiegazione e attribuiamo l’apposizione del nome Cu Chulainn all’eroe in oggetto ad un altro evento assai più significativo per il popolo irlandese. L’evento si riferisce all’invasione della regione cui appartiene il nostro eroe ad opera della regina Medb, la quale utilizza, come casus belli per sottomettere il popolo di Cu Chulainn, la rivendicazione del possesso del toro Donn Cùailnge, naturalmente negata da Cu Chulainn.Immagine

Prima di fornire al lettore una traduzione del nome Cu Chulainn è necessaria la seguente premessa. Kuh in lingua germanica significa “vacca”; si noti pure che “re” in svedese si dice Kunung, in tedesco König e che in persiano Ciro il Grande veniva chiamato Khuros. Tacito racconta che per i Germani la ricchezza più grande consisteva nel possedere molte vacche. Il sacerdote persiano Zarathustra, quando voleva rivolgere un sommo augurio a qualcuno, auspicava che potesse possedere molte vacche. Si vada, inoltre, per un attimo con la mente all’immagine, fatta scolpire da Ramesses II, dei popoli del mare, raffigurati con buoi che tirano dei carri. Si pensi ancora alla lotta di Ercole con Caco (nome affine a Cocalo) per il possesso delle vacche. Alla luce di tali sintetiche osservazioni, non v’è dubbio che il lessema Kuh e i suoi derivati dovessero indicare la detenzione della ricchezza, del potere e del regno visto che, nel mondo germanico, il titolo di re deriva da quello di vaccaro o mandriano. La vacca, del resto, viene utilizzata in chiave metaforica in moltissimi riferimenti di testi sacri antichissimi quali l’Avesta, i Veda ed è ancora oggetto di utilizzazione in chiave religiosa, nonché simbolo di forza e potere, in tutto il mondo indoeuropeo. Nella mitologia greca, cretese, germanica e di tutto il mondo occidentale, il concetto di potere legato al toro (potere tirannico) e alla vacca (potere conferito da un’assemblea di pari ad un primus inter pares) si esplicita sotto mille forme che, dall’antica tauromachia, si è protratta fino alla corrida dei tempi moderni. Per additare ai sovrani la ricetta della buona gestione del potere, consistente nel saper tenere il popolo in pace ed unito, Zarathustra utilizzava ripetutamente una nota metafora, affermando che il re-vaccaro doveva “saper tenere le vacche nella stalla”. Pertanto ci sentiamo di affermare, ricorrendo ancora una volta all’antico alto tedesco, che la traduzione dell’attributo conferito al principe irlandese, il cui vero nome era Sesanta, sia “colui che tiene le vacche nella stalla” ovvero “colui che tiene il popolo unito o in pace” e, di conseguenza, “colui che è un buon governante” (dall’accostamento dei lessemi Chu-alla-inn cioè “vacca-tutte-dentro”).

Anche il nome del principe sicano Cocalo rientra a far parte di quella stirpe ideale di “re vaccari” nominati da un’assemblea popolare al fine di condurre saggiamente “le vacche”, fuor di metafora il popolo, per i pascoli abbondanti. Cocalo è però qualcosa di più che un semplice re mandriano; è piuttosto uno di quei re-sacerdote della tradizione indeuropea, cui abbiamo spesso fatto riferimento nei nostri saggi (La lunga notte. I Veda, l’occidente e la trilogia delle razze umane – Ed. Simple) ed articoli e dei quali Romolo rappresenta il più efficace esempio. Cocalo, da Khu Kalla, è colui che chiama, nell’accezione di declamare, la vacca. Il racconto fatto da Diodoro, che vede il principe sicano protagonista di una tragedia sventata con l’astuzia o saggezza – ci riferiamo alla tentata invasione cretese della Sicilia da parte di Minosse – lo pone tra quei re saggi che reggono il regno avendo a cuore solo il bene dei cittadini.

Dobbiamo adesso fare una necessaria comparazione tra il mito delle principesse siculo irlandesi denominate Eithnè e l’omonima ninfa siciliana. Eithnè, in Irlanda, era la nonna di Cù Cuhlainn. In Sicilia Etna era la ninfa di cui, secondo Le Etnee di Eschilo (rielaborate dal tragediografo greco da una versione sicana più antica), si invaghì Zeus. È curioso che entrambe le dee partoriscano dei figli gemelli “scomodi”, che la gelosa Era, moglie di Zeus, nel mito fornitoci da Eschilo, e Balor in quello irlandese, vorrebbero eliminare. Questi gemelli indesiderati, in entrambi i miti sono collegati o entrano in relazione con l’acqua. Infatti, trasformati in foche, per sfuggire a Balor, vengono gettati nell’Oceano in Irlanda; per sfuggire a Era, vengono trasformati in laghetti (o fonti d’acqua) in Sicilia. Inoltre, la presenza di una valle in Irlanda chiamata Pale, nei pressi di Dublino, ci insospettisce e ci riconduce al culto dei gemelli siciliani chiamati Palici. Il termine irlandese Pale viene fatto derivare dal latino palus, palo; noi non escludiamo però che derivi da Bala signore, visto che tale vocabolo lo ritroviamo in tutto il mondo protogermanico, da quello dei Filistei a quello degli Assiri, con questo significato.

Del resto si tenga conto che i Romani non penetrarono in Irlanda, pertanto non potevano esservi toponimi riconducibili alla loro lingua, il latino. Il fatto che il termine Pale si traduca con “recinto”, facendolo derivare da palo, non esclude la possibilità che l’area sacra fosse recintata, sul modello delle acropoli occidentali a noi familiari e non sul modello dei castra dei Romani. I Celti Irlandesi avrebbero, del resto, potuto utilizzare benissimo dei pali di legno per il sacro recinto, visto l’abbondanza delle foreste e la più facile reperibilità del legno rispetto alla pietra. Ancora nel Medioevo, il Basileus bizantino Costantino Porfirogenito, in una sua cronaca sui Vichinghi redatta a metà del X sec., raccontando della loro strana religione, diceva che, appena sbarcati sulla riva, erano soliti piantare al centro del loro accampamento un lungo palo, che durante la navigazione faceva da antenna per allacciarvi le vele; attorno ad esso, in circolo, mettevano altri idoletti e ad essi si rivolgevano perché fossero adempiute le loro richieste.  

La ruota del Sole e i capitelli del Mendolito

efLa croce inscritta nel cerchio è un simbolo solare comune a tutto il mondo occidentale che va sotto il nome di ruota del sole e, nel caso irlandese, si riferisce al calendario solare, il quale determina le più importanti festività celebrate nel corso dell’anno. Tra queste la più importante è quella del raccolto, Lammas. Mass significa Messe, raccolto. Ma la stretta connessione tra i capitelli adraniti e la ruota dell’anno irlandese è evidenziata dalle modalità in cui la croce è inscritta nel cerchio. La stessa croce inscritta nel cerchio, ovvero la croce celtica, che si crede essere un simbolo cristiano e dunque adottato dai Celti in epoca cristiana in seguito alla loro conversione, in realtà riconduce a epoche precristiane e se i Celti la accettarono di buon grado, quando la chiesa di Roma la ripropose, fu perché quel simbolo era loro familiare. Papa Gregorio Magno, rispondendo al suo vescovo inglese Mellitus, preoccupato per l’attaccamento sfrenato dei Sassoni agli antichi culti, gli suggerì di utilizzare gli stessi luoghi di culto e gli stessi simboli religiosi, in chiave però cristiana, al fine di convertirli; tale strategia alle lunghe gli avrebbe dato ragione, visto che ormai quasi tutti i cristiani nord europei hanno dimenticato le origini del simbolo. Di questo simbolo non diremo altro avendone parlato abbondantemente nell’articolo precedente dedicato alla simbologia adranita (leggi).

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LA SPIRALE. Presente in Irlanda, in Sicilia, a Malta e in molte altre zone del mondo rappresenta un simbolo universale il cui significato può essere sintetizzato nel concetto di “respiro di dio o dell’universo” e, nel caso delle due spirali contigue, che si svolgono l’una dall’altra, nel concetto di “riconversione degli opposti”. Sul significato simbolico della spirale abbiamo già sufficientemente disquisito altrove (Simbologia e ascesi nell’Adrano arcaica).

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LA LIRA è un altro dei simboli cui gli Irlandesi tributano importanza. Era posseduta dai maghi o sacerdoti e dai re. Essa era considerata un oggetto di potenza presso tutti i popoli indoeuropei. Infatti il re degli Ebrei, Davide (si rimanda al saggio Il paganesimo di Gesù, Ed. Simple), agiva con il suono di questo strumento su re Saul, scacciando “lo spirito maligno che da parte di Dio, lo agitava” (I Samuele 16, 14).  Nel mito mesopotamico essa era lo strumento del dio Anu. A Babilonia veniva utilizzata dalla casta sacerdotale degli Erebitti per intonare canti al dio. Il testo sacro dei Veda, in India, era stato ricevuto dai saggi (Rsi) sotto forma di percezione auditiva quale “suono divino”. Ad Adrano si trova effigiata sul verso di monete del periodo pre-greco. Il fatto che nella stessa moneta adranita, sul fronte, vi sia raffigurata la testa coronata con rami d’alloro intrecciati del dio Adrano (creduto Apollo dai numismatici), rende inevitabile l’associazione dello strumento alla ritualità nei confronti del dio e ci fa credere possibile ad Adrano la presenza di una struttura sacerdotale sul modello mesopotamico, ma per approfondimenti su questo argomento rinviamo i nostri lettori all’articolo del 30 Marzo 2014, Un dio tra il Simeto e l’Eufrate. Qui basti rendere edotti i nostri lettori sul fatto che, ad Adrano, si instaurò, in tempi felici, un centro d’irradiazione di forze che sarebbe ancora possibile risvegliare. Un ritorno che percorra le identiche vie di millenni fa sarebbe impossibile, oltre che anacronistico e improponibile ad un uomo del XXI secolo, ormai spiritualmente mutato. Ma tutto può adattarsi ai tempi contingenti e sortire i medesimi effetti. Per questo immaginiamo una nuova sensibilità negli operatori economici adraniti perché possano, attraverso una più adeguata nominazione delle attività commerciali, essere portatori consapevoli di una fiera identità etnica. Ci immaginiamo pertanto la prossima apertura di un “Caffè letterario Jam akaram” (jam akaram è la prima frase che compone l’epigrafe sicana ritrovata in contrada Mendolito), poi ancora un ristorante “Eithnè”, una sala da Tè o enoteca “La fonte dei Palici”, un B&B “La valle delle Muse”. Le insegne di queste attività potranno far rivivere gli antichi simboli del regno sicano di Adrano: la lira; le spirali, la ruota del sole ecc.

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I SACERDOTI celti irlandesi venivano chiamati Druidi. Il nome deriva dal probabile accostamento dei lessemi drh, forza, furore e eid, giuramento. Erano, perciò, coloro che avevano fatto un indissolubile giuramento. Il lessema drh, contenuto anche nel nome che designa i sacerdoti Adraniti, indica il concetto di furore di una forza portata al suo estremo, alla sua massima espansione e poi gestita debitamente dai sacerdoti, sia Druidi che Adraniti. I Dru-eid e gli Dr-An-Eiti, avrebbero però scelto due vie diverse per affermare le loro posizioni religiose o visioni del mondo, ossia la via della mano sinistra da adattare alle connaturali predisposizioni dei violenti Celti, famosi per essere dei tagliatori di teste, e la via dell’equilibrio cosmico per i più contemplativi Adraniti. Ciò si evincerebbe dal modo di rappresentare le spirali, come enunciato nell’articolo sul simbolismo adranita. Ritorna qui opportuno ricordare che la casta sacerdotale detta degli Adraniti, esisteva, ovviamente, prima che la città di Etna venisse rinominata con il nome del dio Adrano. Ciò è provato non solo dall’esistenza di monete che portano la scritta ADRANITAN in senso antiorario, cioè nel tipo di scrittura sicana o, come la definivano Erodoto e i Greci, barbara, ma dalla stessa letteratura che fa riferimento al culto di Adrano, a partire dallo storico greco di Agira, Diodoro, a Plutarco, per citare solo i più autorevoli, che definivano il culto del dio antichissimo ed indigeno, cioè sicano. 

I sacerdoti Adraniti, che praticavano un culto pluri-millenario, già prima che arrivassero i Greci, non possono essere liquidati superficialmente associandoli ad aneddoti banali, costruiti per lo più in un’epoca nella quale il culto del dio Adrano era stato soppiantato da divinità straniere. Sarebbe come condensare il complesso fenomeno della nascita della religione di Gesù, nei miracoli di Padre Pio, prescindendo dalla storia personale del suo fondatore e del giudaismo, che era la religione di provenienza. La gravitas, per dirla con un termine latino semanticamente pertinente, contenuta nella religione che si riproponeva di seguire la “via degli Avi”, come il termine sich Ahne (Sikani) lascerebbe intendere, è del tutto evidente nelle poche epigrafi funebri ritrovate ad Adrano e nella contrada del Mendolito, che parlano di un regno di luce verso cui il defunto sarebbe diretto. Testi sacri, anteriori di millenni all’era volgare, quali sono i Veda, l’Avesta e stralci di inni religiosi mesopotamici, ittiti e sicani, rendono del tutto evidente l’alto contenuto, anche di carattere introspettivo rispetto al divino, percepito dagli uomini dei millenni che hanno preceduto la nostra era. I sacerdoti Adraniti meritano di aver riconosciuta la loro dignitas al pari di quella indiscussa di Druidi, Magi e pontefici d’ogni era. Sarà nostro impegno e obiettivo prossimo individuare il ruolo dei sacerdoti Adraniti nel culto riservato al dio Adrano, l’Avo, il primo uomo che si misurò col divino e che con esso condivise la dimora, il Cielo.

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– Francesco Branchina