Ai giovani adraniti, “venuti alla luce” durante l’inizio della decadenza di questa città, affinché possano, attingendo dagli esempi positivi che provengono dal lontano passato di  Adrano,  città un tempo “abitata da dèi” e santuario prescelto per l’antico dio omonimo, imprimere una svolta positiva alla via che porta verso il  futuro di questa “grande” città.

In questo nuovo contributo alla storia locale, parleremo di uno dei  tanti figli della nostra isola, fucina di grandi uomini, Ducezio, che dalla nostra città, antico centro d’irradiazione di indefinibili forze ultrafisiche, attinse le energie necessarie per rispondere ad una chiamata interiore. Forze che, potenti, dovevano sprigionarsi dal luogo sacro dedicato agli dèi Palici, presso le rive del Simeto, ove ancora persiste l’ara declamata da Virgilio nella sua immortale opera, quando, alludendo a Capi, eminente capo dei Siculi, scrive: “(…) L’avea mandato di Sicilia il padre da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto, ov’è la mite ricca di doni ara di Palico“ (Eneide, Lib. IX).

Attratti anche noi dalla forza degli elementi sprigionata dal pregevole sito in questione, non abbiamo potuto fare a meno di avviare un’indagine sulla Valle delle Muse, all’interno della quale si trova l’ara degli déi Palici  e un’epigrafe incisa su una lastra di basalto, sotto la quale scorre ancora una fonte d’acqua, il cui significato sarebbe riconducibile ad un’invocazione recitata dal neofita iniziato ai misteri dei gemelli Palici. La fonte, che formava con molta probabilità un laghetto là dove essa sgorgava o “veniva alla luce”, potrebbe essere paragonata ad una fonte battesimale o meglio di purificazione, dal momento che l’acqua  ha sempre questo ruolo simbolico in tutte le tradizioni religiose. I Germani per esempio svolgevano i loro culti presso fiumi, laghi e fonti, oltre che negli impenetrabili boschi di frassini. Perfettamente in linea con la tradizione nord europea e dunque sicana, il luogo di culto dei Palici era costituito semplicemente dall’habitat naturale, autentico tempio vivente ancora ai tempi di Virgilio se il poeta, in un’epoca in cui la costruzione di templi imponenti rappresentava anche un simbolo di potenza per chi li costruiva, poteva riferirsi a questo luogo parlando di una semplice ara per i sacrifici. L’abitudine di circoscrivere con costruzioni i luoghi ove si percepivano forze particolari, dovette essere acquisita dai Sicani molto tempo dopo rispetto all’insorgere di questa abitudine in altre civiltà, come quella greca. A proposito dell’abitudine di circoscrivere i luoghi di culto è opportuno citare quella mente divina che fu Salomone (sal e mon, “sale” e “mente”) il quale, dopo aver costruito per gli Ebrei il grandioso tempio che non poco contribuì a farlo ricordare dalla storia, perché ospitasse la loro arca, se ne andò a pregare il proprio Dio sul monte Gabaon, “in un alto luogo”, all’aperto, chiedendosi come un  luogo, pur grandioso come il tempio da lui costruito e chiuso da mura, potesse  contenere l’immensa grandezza di un dio, compatibile solo con l’infinità del cielo e la grandiosità della natura. Dello stesso parere erano i Germani; Tacito narra che i loro luoghi di culto erano all’aperto poiché nessun luogo chiuso avrebbe potuto contenere la grandezza di una divinità ed in ogni caso non ritenevano opportuno tenere un dio relegato in galera. Non abbiamo dubbi sul fatto che i Sicani di Adrano pensassero alle loro divinità come a forze allo stato puro, con le quali si poteva interagire solo se si riusciva a sincronizzarsi sulla loro stessa lunghezza d’onda. 

Ducezio era nativo di Menai, l’attuale Mineo, o di Noa, citate entrambe da Diodoro come patria del nobile condottiero, devoto al culto dei Palici e, come tenteremo di dimostrare, loro sacerdote; in questo territorio del resto vi era un importantissimo luogo di culto consacrato agli dèi Palici. Per quanto nell’antica Paliké (presso Mineo), grazie proprio a Ducezio, il culto dei Palici avesse un maggiore rilievo rispetto ad altri luoghi della Sicilia che ospitavano la medesima pratica devozionale, riteniamo che la prima sede del culto dovette trovarsi presso Adrano. La ragione di tale convinzione è semplice e persino ovvia: questi dèi erano tradizionalmente considerati figli di Adrano e di Etna (o Talia o Etnatalia), con i quali costituivano una triade divina, non diversamente dalla triade Odino-Thor-Freyr, venerata nel tempio di Upsala in Svezia, o dalla triade latina Giove-Giunone-Minerva o da quella egiziana Osiride-Iside-Horus, triadi sempre riconducibili del resto ad una famiglia composta da padre, madre, figlio\a; pertanto il santuario originario dei Palici doveva essere vicino a quello del padre e della madre. Inoltre Virgilio, conoscitore dell’origine dei miti, non avrebbe fatto riferimento alla semplice “ara ricca di doni” sulle sponde del Simeto quale luogo simbolo del culto dei Palici, ma piuttosto avrebbe dato notizia dei suggestivi laghetti di Mineo, formati dalla fuoriuscita di acqua bollente proveniente dai geyser, presso i quali, come racconta Diodoro, veniva praticata una sorta di ordalia e vicino ai quali Ducezio aveva costruito uno splendido tempio, descritto con dovizia di particolari da Diodoro. Del resto Virgilio, autore di un poema, l’Eneide, molto più complesso di quanto non appaia ad una prima lettura [1], era uno storico “esoterico”, raccontava cioè una storia “nascosta” ed era capace di andare alla radice del culto. Il carattere arcaico e duraturo del culto adranita dei Palici e del luogo ove esso si svolgeva, un’ara naturale disposta dalla natura sul letto di un fiume, denota la maggiore antichità di tale pratica religiosa rispetto a quella che veniva praticata a Palagonia.

Se il culto dei Palici esercitava il suo fascino ancor al tempo del poeta latino, ci si immagini quale importanza dovesse avere durante il V sec. a.C. e come fosse probabile che i protagonisti di tale periodo storico, da Gelone ad Eschilo allo stesso Ducezio, volessero dare il proprio contributo onde esaltare il luogo, il culto ed unirvi il proprio nome.

([1] L’ Eneide è un poema storico a doppia lettura, in cui, dal confronto tra Enea e Turno, nonostante la finalità ufficiale del poema, emerge il meno famoso Rutulo Turno. Accenniamo brevemente al fatto che, a nostro motivato parere, i Rutuli, chiamati così a causa del colore rosso dei capelli, così come i Latini, i Sabini, i Boi, discendevano in realtà da un popolo più antico, stanziatosi precedentemente nell’Italia centrale. Per approfondire l’argomento si rimanda alla consultazione del saggio Dalla SKania alla S(i)Kania, di Francesco Branchina, disponibile anche presso la nostra biblioteca).

Ducezio, principe-sacerdote

Sarà ormai noto ai nostri lettori ciò di cui abbiamo altrove abbondantemente disquisito in merito all’oblio storico cui sono stati condannati tutti i più autorevoli personaggi sicani dagli storici greci. Il passato sicano dell’isola “doveva essere cancellato”, gli eroi sicani dimenticati e Ducezio non faceva eccezione. Lo storico greco-siciliano di Agira, Diodoro, con curiosità maniacale annota i particolari più insignificanti, inutili e ininfluenti ai fini storici dei re di Persia, narra i miti greci, ma liquida con pochi cenni le gesta del nostro principe siculo che aveva, per un ventennio, ricreato nell’isola le condizioni per un ritorno agli antichi splendori sicani. A chi obietterà che Ducezio fosse un siculo e non un sicano, rispondiamo rimandando alle nostre ricerche e ricostruzioni storiche in merito all’etnia siculo\sicana.

Diodoro definisce Ducezio principe, “nobilissimo di schiatta ed in quel tempo molto ricco” [1]. Il principe, durante la sua ascesi, indossa con estrema disinvoltura i panni di condottiero, oracolo, ecista. La sua apparizione nella storia siciliana coincide con la fine del pessimo regno del tiranno Trasibulo, che succede al fratello Jerone, il quale a sua volta era succeduto al felice ed illuminato regno del fratello Gelone. Per cacciare Trasibulo, i Siracusani avevano chiesto l’aiuto dei Siculi, di cui ora il nostro Ducezio era il condottiero, avendoli guidati alla conquista di Catania e di Innessa. Quest’ultima, così denominata da Jerone, che aveva attribuito invece il nome Etna alla città di Catania per il breve periodo della propria tirannia, venne rinominata da Ducezio col suo precedente nome di Etna. Fatto sta che i Siracusani contrassero un debito d’onore nei confronti dei Siculi, guidati da Ducezio, che li avevano aiutati a cacciare il tiranno Trasibulo.

Si tenga conto inoltre della presenza di una consistente componente etnica siculo\sicana a Siracusa. Questa etnia abitava la città già prima dell’arrivo dei Greci e prima che il greco Archia, facendosi tiranno, la mettesse politicamente in minoranza. I Sicani di Siracusa non avevano mai cessato di formare l’opposizione politica interna ai Greci nella città ed ora vedevano in Ducezio colui che avrebbe potuto, finalmente, contribuire a riscattarli dallo stato di Killiri, nome utilizzato dai Greci per designare la minoranza politica sicula\sicana (vedi l’articolo I Cilliri del Simeto). Forte anche di tale sostegno, Ducezio condusse un’inarrestabile opera di riconquista dell’isola, sotto la bandiera di un ritorno dell’egemonia sicula. Tralasciamo gli innumerevoli episodi che mettono in evidenza le grandi doti strategiche militari di questo condottiero, per focalizzare l’attenzione su un episodio che, per quanto raccontato con superficialità da Diodoro, non può celare del tutto i retroscena. Caduto in disgrazia per motivi non specificati dallo storico greco di Agira, i notabili siculi non accettano più il ruolo di Ducezio quale primus inter pares. Diodoro racconta che, in conseguenza di tale situazione, Ducezio si reca a Siracusa, da solo, in veste di “supplice”, per parlare al popolo. L’utilizzo del termine “supplice” però trae in inganno il lettore, il quale è indotto dallo storico, più o meno faziosamente, a ritenere che il principe fosse andato ad implorare la propria salvezza! Ma per quale motivo avrebbe dovuto recarsi dai nemici anziché scegliere da subito la via più sicura dell’esilio? Probabilmente lo storico, se vogliamo evitare di pensare alla sua cattiva fede, utilizza il termine supplice alludendo al fatto che, come testimoniato da Cicerone, a Siracusa c’era il tempio del dio Urio – così definito dalla componente non greca di Siracusa, da noi identificato con Poseidone e detto “L’antico” da Omero” (Urio, in lingua germanica, significa appunto “antico”) – all’interno del quale trovavano riparo politico o civile “i supplici”, tra i quali lo stesso Archia. In realtà Ducezio non assume affatto le vesti del supplice, ma piuttosto, recandosi a Siracusa, ricerca il consenso e il dialogo con la componente sicula, i killiroi, presente e forte nella città, come attestato da Tucidide, fino al tempo della guerra del Peloponneso, quando tale etnia avrebbe cooperato segretamente con il generale ateniese Nicia.

Tanto politicamente forte e credibile era tale opposizione politica sicula, da convincere Nicia a rimanere nell’isola per continuare la guerra contro Siracusa, nonostante il generale ateniese ritenesse che ormai non vi fossero speranze di vittoria per il proprio esercito. È significativo che durante la guerra del Peloponneso, in Sicilia, tra i Siculi che parteggiavano per gli invasori ateniesi, vi fosse un potente principe, Arconide, il quale trent’anni prima era stato al fianco di Ducezio nel tentativo di ristabilire il primato politico e religioso siculo nell’isola e di ricondurre ad un ruolo marginale quello punico e greco. Trattare all’interno di questo articolo anche la biografia di Arconide risulterebbe troppo dispersivo; ci limiteremo quindi a dire che Diodoro lo indica come principe degli Erbitei. È bene chiarire però che con il termine “principe” debba intendersi una carica che concentra in sé sia il potere temporale che religioso [2]. Infatti Arconide era non solo principe temporale degli abitanti di Erbita, ma anche un sacerdote o pontefice [3] della casta sacerdotale degli Erbitei, ossia gli “Eredi” (dal germanico Erbe) dell’Avo (Ano) per antonomasia, Odhr-Ano, “l’avo furioso” dei Sicani. Ma poiché l’eredità si ottiene attraverso il matrimonio e la procreazione, è probabile che il sacerdozio di Arconide comprendesse la celebrazione delle jerogamie cioè dei matrimoni sacri, come quelli celebrati simbolicamente in Mesopotamia tra la dea Innanna e il re. Questo rito, che garantiva la fertilità e la prosperità, in Sicilia, dovette essere praticato con la medesima ritualità riscontrata in Mesopotamia; del resto, come abbiamo dimostrato nel nostro articolo Un dio tra il Simeto e l’Eufrate, sconcertanti sono le affinità sumero-sicane. Se così fosse Arconide avrebbe il ruolo sacerdotale corrispondente a quello del sacerdote mesopotamico Urigallu. La presenza del dio Urio a Siracusa, cui fa cenno Cicerone nelle Verrine, darebbe ulteriore vitalità a questa tesi. L’Uri-kalla, termine da noi ipotizzato quale corrispondente dell’Urigallu mesopotamico, è dunque colui che declama l’avo antico (ur, antico in lingua germanica). In Sicilia l’Avo antico era il padre dei Palici; ecco perché il sodalizio tra Arconide e Ducezio rimane indissolubile dall’inizio dell’apparire di tali nomi nella storia dei siculi anti-greci fino alla scomparsa di Ducezio. Arconide e Ducezio rappresentavano l’alfa e l’omega della religiosità sicana in Sicilia. 

Tornando a Ducezio, anche lui principe in senso spirituale oltre che temporale, nei suoi comportamenti si individuano prove del suo ruolo sacerdotale. Infatti, dopo le sue prime vittorie militari sui Greci, fonda una città presso i laghetti dove si svolge il culto degli dèi Palici e la nomina, con gesto altamente simbolico, capitale del popolo siculo. Egli crea un omphalos, in chiave magico religiosa un centro di gravità, di forze intorno a cui tutto avrebbe dovuto ruotare. Inoltre, attorno alla grotta dove si prendevano gli oracoli, nell’immediatezza dei due laghetti, costruisce il santuario degli dèi Palici, che avrebbe destato lo stupore dello storico di Agira. La scelta di erigere un tempio ai gemelli Palici è motivata dal fatto che egli ne era il sacerdote e ad essi attribuiva il successo militare di cui si era reso protagonista. 

La stretta collaborazione tra due importanti personalità religiose quali erano Arconide e Ducezio, ci induce a credere che la grandiosa opera militare non mirava al solo possesso territoriale, ma prevedeva anche il ripristino di una tradizione religiosa palesemente minata dal forte influsso culturale dei Greci che, attraverso l’opera dei loro poeti, Pindaro, Bacchilide, Simonide, Eschilo, subdolamente alterava e\o sovrapponeva i propri miti a quelli sicani; Le Etnee di Eschilo ne è un esempio. Tale operazione condotta dai Greci, che raggiunse con lo jerofante (sacerdote) Gelone [4] il suo apice, per quanto i due lungimiranti

[1] Diodoro, Biblioteca Historica  XI, 19

[2] Simile pregnanza semantica è rinvenibile, a nostro parere, nel vocabolo veregaeso, contenuto nell’epigrafe rinvenuta nella porta da cui si accede all’insediamento siculo del Mendolito. Il vocabolo è costituito dai termini vè, sacro, e gaes lancia; è dunque traducibile come “il portatore di lancia” o come “il consacrato”, ruolo perfettamente in linea con la carica di primus inter pares conferita nel mondo indoeuropeo ad un capo che mostrasse di possedere doti superiori (Romolo tra i Romani, Saul tra gli Ebrei, Labarna tra gli Ittiti). http://www.miti3000.eu/la-lingua-dei-sicani.html.

[3] Sacerdote era anche il greco Gelone, futuro tiranno di Siracusa, appartenente alla famiglia dei Dinomenidi i quali, come racconta Erodoto in Storie VII,153 gestirono il culto greco di Demetra e Core.

[4] Gelone, il futuro tiranno di Siracusa, era un rampollo della famiglia sacerdotale dei Dinomenidi, che officiavano il culto di Demetra e Core. Gelone utilizzò fin da subito questa religione naturalistica per giustificare il possesso dei fertili terreni da parte dei greci siracusani. “Che il culto di Demetra e Core potesse prestarsi a fungere da veicolo di coesione fra le genti greche e la popolazione indigena (e pertanto da sicuro strumento di ellenizzazione) fu compreso dall’aristocrazia siracusana, soprattutto da quella terriera, che dal controllo del culto era in grado di trovare una giustificazione religiosa della propria egemonia” (da una nota al libro XI della  Biblioteca Historica di Diodoro).

Siculi/Sicani avessero tentato di ostacolarla, purtroppo alle lunghe riuscì, tant’è che nulla conosciamo (per il momento) del mondo sicano, nulla dei personaggi più eminenti, nulla del culto e della loro religione.

Diodoro narra di un Arconide oppositore del tiranno greco-siracusano Dionigi I e fondatore di Alesa nel 405-403 a.C. Secondario è appurare se si trattasse dell’Arconide cui si è già fatto sopra riferimento, ipotesi che risulterebbe smentita se fossero corrette le date indicate da Diodoro in merito alla fondazione di Alesa e da Tucidide in merito alla morte di un Arconide, che lo storico colloca nel 413 a.C., o di un suo erede naturale e spirituale. Significativo è ad ogni modo il fatto che tale Arconide, pur di non piegarsi ai compromessi dettati dal tiranno di Siracusa, al quale si era opposto, diversamente dai suoi cittadini, che invece accettarono il giogo del tiranno, abbandonò la sua città Erbita, per fondare Alesa (405\3 a.C.), in un territorio siculo ancora indenne dalla contaminazione dei tiranni e della cultura greca. Era lo stesso territorio dove, qualche anno prima, anche il suo alter ego Ducezio aveva fondato Kalè (Caronia). Ad Alesa Arconide – il primo Arconide o il suo erede – avrebbe eretto un tempio ad Adrano, l’Avo, a testimonianza del fatto che, egli sarebbe rimasto il suo vero e fedele erede, “Erbe”, e che nessuna apostasia avrebbe intaccato l’eredità spirituale sicula, preferendo a qualsiasi tipo di surrogazione religiosa l’estinzione o “l’ingrottamento” momentaneo di tale atavica religione, nell’attesa di una riemersione della stessa, resa possibile dalla riapparizione di un futuro “erede”. L’Arconide citato da Tucidide che, “potente com’era”, “regnava su alcuni dei Siculi di quelle parti”, aveva dunque tutte le carte in regola per formare, assieme a Ducezio, un’asse anti tirannica capace non solo di arginare le mire espansionistiche dei Greci di Sicilia, ma anche di invertire l’andamento della storia siciliana sotto l’insegna della tradizione religiosa degli antenati, di cui essi erano i sacerdoti. 

Ducezio, dopo aver parlato al popolo di Siracusa da presunto “supplice” come lo dipinge Diodoro o da grande statista come riteniamo noi, ottiene, dopo una democratica votazione del popolo siracusano, di essere inviato in esilio a Corinto, a spese dei Siracusani. Certamente, finanziare l’esilio di un nemico pubblico costituisce un fatto anomalo, passato sotto silenzio dallo storico di Agira; più probabilmente Ducezio era stato momentaneamente “consigliato” dal senato siracusano di allontanarsi onde evitare un pericoloso “incidente diplomatico” con gli Agrigentini, i quali sospettavano un’intesa segreta tra Siracusani e Siculi ed erano fortemente infastiditi e preoccupati dalle mire espansionistiche di Ducezio. A Corinto il nostro duce incanta il Senato, come presumibilmente aveva già fatto con la componente democratica e sicula del popolo di Siracusa, tanto da convincerlo a finanziare il suo rientro in Sicilia, con una scorta armata, e la fondazione della città di Kalè Aktè, l’attuale Caronia, al fine di continuare il progetto politico interrotto. Morto prematuramente Ducezio, durante la guerra peloponnesiaca, il comando dei Siculi sarebbe stato assunto dall’amico Arconide, il quale faceva presumibilmente parte di quegli autorevoli notabili siracusani e siculi, di cui narra Tucidide, capaci di convincere Nicia a protrarre la guerra peloponnesiaca in Sicilia.

Ma è soprattutto sul ruolo di ecista interpretato da Ducezio che intendiamo soffermarci. Egli, secondo tradizione, prima della fondazione delle città, chiede il responso degli dèi, recandosi però non nella famosissima Delfi, ma nel ben più antico e ormai “superato” ai suoi tempi santuario di Dodona. Qui la divinità oracolare si serviva del “chiacchierio” delle foglie mosse dal vento divino per comunicare col suo interlocutore umano, rappresentato dai sacerdoti, chiamati Selli (Σελλοί); stranamente, sia presso la fonte dei Palici sita nella Valle delle Muse che presso i laghetti di Mineo, dove Ducezio aveva innalzato un splendido tempio ai Palici, la divinità non poteva che servirsi, se è corretta la nostra indagine, del “chiacchierio” dello scorrere dell’acqua o dal “gorgoglio” dell’acqua dei laghi per comunicare con il suo interrogante (obbiettivoadrano.it/la-valle-delle-muse-il-chiacchierio-degli-dèi). Presso il santuario di Dodona il nostro trovava dunque condizioni ben più familiari e consone alla propria religiosità rispetto a quelle che caratterizzavano il santuario di Delfi, dove la comunicazione con Apollo era mediata dalle interpretazioni allusive, ambigue, “farneticanti” della Pizia, che si diceva essere perfino prezzolata. Ducezio, navigato politico, temeva pertanto che la Pizia potesse essere corrotta e che il responso della sacerdotessa potesse essere manipolato dai suoi nemici. Ecco dunque che il nostro astuto connazionale, definito da Diodoro, nel lib. XI Cap. XXII della Biblioteca Historica, “(…) uomo di fine ingegno e valente”, accampando le proprie prerogative sacerdotali di “interprete” della divinità oracolare dei Palici nel tempio di Palikè, espressa dal chiacchierio o gorgoglio dell’acqua, a Dodona può parimenti essere in grado di interpretare, senza l’ausilio dei Selli, il chiacchierio delle foglie della grande quercia sacra.  

La tesi secondo la quale Ducezio sarebbe stato sacerdote dei Palici viene da noi, altresì, accarezzata a motivo della constatazione che, subito dopo aver strappato Catania alla tirannide di Trasibulo, succeduto da un anno al fratello Jerone, il quale aveva denominato Etna la città, dopo aver sottratto tale denominazione all’attuale Adrano, rinominata di conseguenza da Jerone con l’antico nome di Innessa, gli interessi del nostro principe sacerdote vengono attratti da quest’ultima cittadina. La riconquista di Innessa\Etna, futura Adrano, avrebbe significato per il duce un’acquisizione strategica non solo sul piano militare, ma soprattutto su quello religioso, poiché la città era sede del santuario di Adrano, il dio di tutti i siculi di Sicilia e padre dei Palici, ai quali egli, in qualità di principe-sacerdote, aveva innalzato uno splendido tempio, costruito sulle basi di uno preesistente, nel territorio di Mineo, dove avrebbe anche fondato Palikè, la capitale sicula. Quanto all’importanza militare della conquista di Etna/Innessa, basti considerare quanto narrato da Diodoro, il quale afferma che Ducezio, con il contributo di Etna, può dirigersi verso il territorio della potente Agrigento, alla cui egemonia sottrae la città di Motyo. Da questo momento, constatata la dilagante potenza di Ducezio, oramai forte anche del sostegno di Etna/Innessa, i Siracusani, che fino a questo momento non erano stati apertamente ostili a Ducezio (come attesta Diodoro nel lib. XI Cap. XXII, quando scrive che non tutti i siracusani erano ostili a Ducezio), decidono di intervenire per arrestare l’emorragia sicula che dilagava sull’isola. 

La lingua di Ducezio

Ducezio fonda due città, i cui nomi sono a noi pervenuti probabilmente corrotti. Infatti Diodoro scrive quattro secoli dopo i fatti da lui raccontati, quando ormai la lingua sicula è scomparsa. Palikè è il nome della capitale dei Siculi, dove Ducezio erige il famoso tempio ai due gemelli figli di Adrano: i Palici. Se abbiamo visto giusto nell’affermare l’origine  nord-europea del siculo e del sicano, possiamo fare pure riferimento alla rotazione consonantica di questa lingua, ben spiegata dalla legge di Grimm, in seguito alla quale la B muta nella P; in tal caso Paal deriverebbe dall’originario Baal, che nella lingua nordica significa “Signore”, pertanto il nome Palikè alluderebbe ai Signori o ai due gemelli identificati con i due laghetti presso Mineo, il cui nome, in greco Mene, deriva dal nordico Min cioè ricordo, memoria. A proposito dei due laghetti, Diodoro racconta che, durante le guerre servili, si praticava un rito di ordalia: si gettava una tavoletta di argilla o altro materiale nel lago, se essa galleggiava l’accusato era ritenuto innocente, se affondava colpevole. Tacito narra, a proposito dei Germani, che la statua di una dea veniva condotta, a bordo di una barca, su una palude, ritenuta un luogo sacro, per poi inabissarsi assieme ai suoi portatori.  

Indicativo è anche il significato da noi attribuito, applicando il principio della derivazione nordica del siculo-sicano, alla città fondata dal duce sulla costa messinese, al ritorno dall’esilio di Corinto, da lui denominata Aktè Kalè. Act in lingua tedesca significa atto (acta in latino), azione; in lingua germanica dovette avere il significato di “atto religioso” o “sacrificio”, capace di mettere in relazione con il divino. Tale interpretazione del lessema Act viene confermata dalla lettura del testo sacro Upanisad e trova riscontro anche nella religione avestica, dove un sacerdote appellato Akt si oppone a Zarathustra. Anche il nome del figlio che Abramo avrebbe dovuto “sacrificare”, Isacco (Is Act, “egli è il sacrificio”), riconduce al concetto di sacrificio. Se il nome Actè conferito da Ducezio alla città significa “atto, sacrificio” e il lessema Kalè, riconducendo al germanico Kalla, significa “chiamare”,  il principe-sacerdote, denominando Calactè la città, fondata anche per accogliere le truppe giunte da Corinto al suo seguito, intende forse “chiamare (i Siculi) al sacrificio” o all’azione. 

La presenza di Arconide, l’altro grande pontefice siculo detentore “dell’eredità” degli dèi che scorreva nel sangue siculo, al fianco di Ducezio non può che rappresentare un’ulteriore conferma di quanto affermato fin qui sulla forte religiosità sicula che, come avvenne per i Palici, trasformati in fonti, si è forse “ingrottata” ma non estinta, destinata a riapparire quando il duro basalto sarà pur spaccato dalla forza prorompente di chi avverte il “dovere” di rinascere.

– Prof.re Francesco Branchina