Pietra Urbica: un’affascinante ipotesi interpretativa firmata dall’ottimo Francesco Branchina

Chi ci ha seguito fin qui, avrà ormai compreso, attraverso la lettura dei nostri studi, che noi consideriamo il popolo sicano, sia quello stanziatosi nel Lazio sia quello, successivamente o contemporaneamente, stanziatosi in Sicilia, una delle migrazioni provenienti dall’Europa del nord, costrette ad abbandonare la propria terra, a motivo dell’inospitalità dei luoghi d’origine, durante il periodo dell’ultima glaciazione, che attanagliava, col peso dei suoi ghiacciai, gran parte delle terre emerse, dall’Artide all’Europa centro-settentrionale. Attraverso le poche epigrafi e i numerosi lessemi lasciateci dai Sicani sotto forma di toponimi, antroponimi, idronimi, abbiamo identificato la lingua parlata da questo popolo con un’antica lingua riconducibile al protogermanico. Il protogermanico è in realtà una lingua ricostruita dagli studiosi attraverso la comparazione di lessemi delle lingue di derivazione germanica, che si sono conservati simili nelle lingue derivate, quali inglese, tedesco, gotico e molte altre. Noi siamo altresì certi che l’attuale lingua tedesca sia quella che, meglio di ogni altra, è rimasta aderente alla lingua d’origine. È di questa, pertanto, che ci siamo serviti, assieme al gotico e all’antico alto tedesco, per decriptare alcune epigrafi sicane, incise in steli, vasi, tegoli funebri. In particolare, la nostra attività interpretativa si è esercitata sulla celeberrima stele urbica ritrovata nel territorio di Adrano, in contrada Mendolito, di cui forniremo sotto una probabile o possibile traduzione, nella speranza di dare inizio ad una florida attività di studio, che abbia quale naturale conseguenza la nascita di un centro studi telematico sulla lingua siculo-sicana, anche grazie al potente veicolo di condivisione fornito da questo sito.

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1 – Ingresso sud dell’insediamento preellenico di contrada Mendolito. Nella torre di destra è visibile la stele in pietra lavica sostituita all’originale calcarea, ove era incisa l’epigrafe.

Riteniamo che la stele sia stata impropriamente definita urbica dagli studiosi, forse condizionati e sviati dal luogo in cui venne ritrovata (a nostro avviso non coincidente con quello di originaria collocazione), cioè uno dei due torrioni realizzati a posteriori rispetto alle mura che cingevano l’insediamento, al fine di proteggere la porta d’ingresso delle mura stesse.
In realtà riteniamo che la stele sia stata voluta da privati cittadini o, tutt’al più, da un gruppo o consorteria di lavoratori o proprietari terrieri, non molto avvezzi alle lettere, come dimostrerebbe lo stile disordinato dei caratteri e le giustapposizioni, che intesero, con quella privata iscrizione, manifestare tutta la propria gratitudine al principe che aveva intrapreso, a spese dello stato, attività di bonifica del territorio.

Se si divide l’epigrafe, che nella stele è un continuum di vocaboli che vanno da destra verso sinistra, in lessemi, constateremo la presenza di vocaboli, che hanno preciso riscontro nella lingua germanica o gotica, perfettamente compatibili con il contesto storico, geologico e geografico del luogo in cui l’epigrafe è stata rinvenuta. Esse sono: AKARA, TEUTO e VARA. Avremo pertanto la seguente suddivisione, che si ispira, con alcune significative varianti, alla lettura del professore Enrico Caltagirone:

JAM  AKARA  ME … ASKA,  AG.ES   G..D  TEUTO  VEREGAIESO,  EKAD  VARA  IEAD

Akara. Il primo vocabolo esaminabile senza alcuna difficoltà interpretativa è akara, attestato in antico alto tedesco (akara) e corrispondente al moderno tedesco Acker col significato di “campo agricolo”.

Teuto è il principe sikano che Polieno, nella sua opera Stratagemmi, afferma essere a capo di un popolo insediato in un territorio o città chiamato Innessa. Ora si dà il caso che, in lingua germanica, anche il nome di questa città o territorio, derivante da Inn ed Essen, rivesta un suo specifico significato, traducibile letteralmente con l’espressione “il cibo dentro” ovvero, più liberamente, come “terreno fertile”. Si noti che la fertilità del suolo siciliano e, più precisamente, etneo, è attestata anche nell’Odissea, dove si afferma, a proposito dei Ciclopi, che non aravano né seminavano poiché il terreno, fertilissimo, produceva spontaneamente i suoi frutti.

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2 – Gigantesca ascia-martello. Museo di Adrano

I Ciclopi, fratelli dei Titani, in quanto tutti figli di Urano e Gea, erano ottimi fabbri e, secondo il mito greco, avevano il compito di costruire i fulmini per Zeus. La loro fucina era posta dentro il vulcano Etna. Quando, di tanto in tanto, il vulcano si destava con i suoi acuti boati, si pensava che fossero i Ciclopi a picchiare, col loro martello, sull’incudine; da qui il soprannome di klopfer, battitori, picchiatori (dal tedesco klopfen, battere, picchiare) della terra, Ki: Ki-klopfer appunto. In merito alla traduzione del lessema ki con il termine “terra”, ci si avvale della lingua dei Sumeri, di cui in altra sede si è dimostrato l’affinità etnica con i Sicani, nella quale appunto il lessema Ki significa terra; non a caso il dio sumero Enki (en-ki) veniva identificato con “il Signore della terra”.  A differenza del termine akara,  che definisce un campo agricolo, il lessema ki identificherebbe un territorio in senso politico o geografico. Dunque i Kiklopfer (Ciclopi) sarebbero gli “scuotitori o battitori della terra” sicula.

Continuando l’excursus etimologico, facciamo notare di volata che il medesimo lessema ki, “terra”, seguito da gang, “andatura, passo, modo di camminare”, è contenuto anche nel termine Giganti; si allude in questo caso alla caratteristica di questa particolare stirpe di esseri, che popolavano anche la mitologia nord-europea, norrena in particolare, capaci di “percorrere la terra a grandi passi”. Per completezza, non possiamo omettere di indicare la derivazione etimologica nord europea del termine Titano, a cui Esiodo attribuisce il significato di “sforzo verso l’alto”, dal momento che il titano, secondo il mito greco, si rese artefice della civilizzazione del genere umano, facendo dono allo stesso del metaforico fuoco olimpico. Tale significato trova conferma nella lingua germanica visto che Tat significa azione, e An antenato, avo, ma anche cielo.

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3 – Prometeo che sottrae il fuoco olimpico per farne dono agli uomini.

Per ciò che concerne il nome Teuto, si osserva che esso è riconducibile al popolo germanico dei Teutoni ed è un nome tipico di principi e re: si pensi a Teuta, la regina degli illiri, succeduta nel 204 a. C. al marito, o a Teutomato, re dei Nitiobrogi, un popolo gallo che si scontrò con Cesare. In sanscrito il nome comune teuto corrisponde a “popolo”, come il termine tuatha nella lingua degli Irlandesi (popolo col quale avevamo, in altra sede, vantato affinità etniche ancestrali, come sembrerebbe attestare tra l’altro la corrispondenza tra il nome della figlia del re irlandese Balor, Eithne e il nome della figlia del sikano Teuto, Etna, Eithne in greco); il Tuatha de danann è infatti la saga del popolo dei Dani. Poiché il nome proprio Teuto caratterizzava uomini e donne di stirpe regale e poiché il nome comune teuto/tuatha significava “popolo”, ne potrebbe derivare che Teuto significasse in origine “padre della patria” o, più specificatamente, del popolo teutonico.

Vara.  Anche questo vocabolo rientra a pieno titolo nel vocabolario germanico e, senza tema di errare, può essere tradotto con il vocabolo “fiume” o con l’espressione “acque navigabili”. Nel moderno tedesco il lessema vara, modificatosi nel vocabolo wasser, perso l’originario significato, indica l’acqua, sotto qualsiasi forma. Il lessema vara era molto probabilmente presente nel linguaggio marinaresco nordico; lo confermerebbe l’attributo di Vareghi dato ai Vichinghi svedesi, composto dai lessemi vara e gehen, col significato di “andare sull’acqua”. Si aggiunga che Varusana era, a detta dello storico Erodoto, l’antico nome del fiume Dnepr, così chiamato dagli Sciiti, gli attuali Ucraini, che gli Unni, semplificando, chiamavano solo Var. L’antico nome del fiume  è composto da Vara (fiume, via fluviale), Hus (casa) e Ana (antenato); indica pertanto “la via che conduce alla casa dei padri”. Kiev, la capitale dell’Ucraina bagnata da questo fiume, era un’importantissima tappa vichinga, toccata dai famosi navigatori nordici durante i lunghi viaggi verso il ricco Oriente. Non può passare inosservato inoltre che il nome della capitale ucraina riconduce al significato di chiglia: Kiev appare infatti come una corruzione del vocabolo tedesco Kiel, che significa appunto “chiglia”, termine riconducibile ad un’economia basata sull’utilizzo delle vie fluviali. Kiel è anche il nome di una città tedesca vicino Hamburgo, il cui porto si apre sul mar Baltico, nella quale si tiene ancora oggi un’importante regata. Si tenga ancora conto che Vara è il nome di un fiume italiano, lungo il quale sorgono i villaggi di Cirella sul Vara, Borghetto di Vara. Non è escluso pertanto che il vocabolo Vara contenuto nell’epigrafe del Mendolito (scolpita in una stele inserita nel torrione eretto a protezione della porta d’accesso) indicasse, nella lingua dei Sicani di re Teuto, il fiume oggi chiamato Simeto, che scorre appunto nei pressi della cittadella.

Si comprende come, alla base della nostra ipotesi interpretativa, debba essere posta la tesi dell’origine nordica della lingua sicana, dettagliatamente provata in altre nostre pubblicazioni, sostenuta dalla riconducibilità dell’ampio patrimonio semantico, etimologico, mitologico e filologico del territorio alla lingua ed alla cultura nord europee. Si pensi all’omonimia tra il dio sicano Adrano e il fiume germanico Adrana, citato da Tacito nel suo racconto delle imprese di Germanico, figlio adottivo di Tiberio, nella terra dei Germani; si pensi all’attributo Odhr o “furioso”, che designa il dio sicano (Odhr-ano o Adrano, cioè “l’Avo furioso”), che caratterizzava, secondo Dumezil e Adamo da Brera, pure il dio germanico Odhino; si pensi ancora al nome Etna o Eithna, con cui venivano designati in Sicilia il famoso vulcano, la figlia di Teuto e qualche divinità femminile assimilabile alla greca Atena e in Irlanda la figlia del re irlandese Balor. Con l’Irlanda inoltre i Sicani condividono il simbolismo della spirale, che si ritrova scolpita in territorio adranita su capitelli di colonna e in Irlanda su pietre che formano tumuli funebri (o astrologici) del neolitico.

Veregaieso. Riteniamo che il termine fosse riferito a Teuto, definito nella stele come “colui che porta la lancia” o, semplificando, “il consacrato”, “il capo supremo”. Si tratta di un nome composto, tipico della lingua germanica, la cui struttura ricorda il nome proprio del famoso principe gallo, Vercingetorige. Nei due termini, Veregaieso e Vercingetorige, si nota la presenza del lessema Ve, seguito rispettivamente dai vocaboli gaes e ger. Ve, come abbiamo avuto modo di provare abbondantemente nelle nostre pubblicazioni, non è solo il nome di uno dei due fratelli del dio scandinavo Odino, ma è un nome astratto con il quale, in lingua germanica, si faceva riferimento ad un concetto di sacralità; gaes e ger sono entrambi vocaboli che indicano la “lancia” (gär in inglese, geirr in norreno, gaisu in gotico, gaesum in latino, gae in irlandese antico), simbolo, in tutto il mondo indoeuropeo, del comando e “di imperio”, per dirla con Plutarco, il quale narra che, quando venne chiesto allo spartano Agesilao quali fossero i confini della Laconia, egli rispondesse, vibrando la lancia, “fin dove arriva questa”. Lo stesso dio sicano Adrano era raffigurato, come lo descrive ancora Plutarco nella Vita di Timoleonte, nell’atto di brandire una lancia. Per questi motivi riteniamo che Veregaieso, riferito a Teuto, significhi “colui che porta la lancia”, “l’imperatore”.

Aska. Il vocabolo sicano Aska è molto affine al tedesco Asch, cenere. Lo stesso significato di cenere o forno è contenuto nel vocabolo ittita Hasas e in quello sanscrito asa. Ora si tenga conto che il territorio del Mendolito, ove era collocata l’epigrafe, è di origine lavica ed ancora oggi – nonostante le bonifiche effettuate nel tempo dai nostri coloni, i quali, con duro e tenace lavoro manuale, vi hanno piantato, nel secolo scorso, splendidi agrumeti – è evidente la sua origine morfologica di “grattugia” lavica, molto più evidente oltre duemila e cinquecento anni fa quando, per questo territorio arido, incenerito dalle lave vulcaniche, simile ad una fornace spenta, ma allietato dalle vicine e copiose acque dell’attuale fiume Simeto (Vara), era estremamente appropriato l’aggettivo Aska. Che Aska riconduca al concetto di un territorio arido, lo si deduce ancora da Esiodo, nato nella greca Ascra, da lui definita terra triste, calda d’estate e fredda d’inverno. Ed ancora, terre inadatte alla coltivazione sarebbero state la scandinava Askania e la filistea Ascalona. Lo stesso Strabone definisce “cinereo” il suolo lavico che sovrasta la città di Etna (Adrano):

“Vicino Centuripe c’è la città di Etna, menzionata poco sopra; essa dà accoglienza a quelli che salgono sul monte (Etna) e fornisce ad essi la guida: è là infatti che inizia la zona della vetta. Le terre intorno sono nella parte alta nude e cineree, coperte di neve d’inverno; in basso sono occupate da foreste e piantagioni di ogni specie”.

A questo punto della nostra disquisizione, posti alcuni significativi punti fermi, potremmo già avventurarci nel tentativo di fornire una grossolana traduzione della nostra epigrafe, lasciando il difficile compito di perfezionarla, attraverso la ricerca di una struttura linguistica e di ricorrenze grammaticali, ai linguisti e ai  filologi e invitando gli appassionati e gli studiosi adraniti a cimentarsi in tale interpretazione, nella convinzione che, riportando in vita la lingua dei nostri Avi, si darebbe fiato vitale anche alla weltanshauung che informò la nostra isola nel suo periodo più splendido e spiritualmente creativo.

JAM                      questo

AKARA                 terreno, campo agricolo

ME                        mio, me

ASKA                    arido, cinereo

AG..ES                il lessema ha una lacuna. Se il vocabolo mancante fosse una R, il termine agres potrebbe essere assimilabile al germanico Hugr, termine col quale si indicava un altare, un tumulo, un ricettacolo di forze metafisiche; tale interpretazione sarebbe coerente con le singolari caratteristiche del territorio del Mendolito, in cui, non a caso, si può ancora ammirare “la valle delle Muse”, dove insiste l’Ara degli dèi Palici, figli del dio Adrano. Il termine germanico Hugr sembrerebbe caratterizzare anche i termini latini Augusto e Augure, i quali infatti incrociano il campo semantico della sacralità.

TEUTO                 nome di persona, dal quale probabilmente deriva il latino Tito, che in origine dovette avere il significato di “padre del popolo o  padre della patria”.

VEREGAIESO     probabile titolo onorifico conferito a Teuto, primus inter pares, visto che ai Sicani era invisa ogni forma di dispotismo, traducibile, per le ragioni sopra esposte con le seguenti espressioni: “colui che porta la lancia” o, semplificando, “il consacrato”, “il capo supremo”.

EKAD                    (?)

VARA                     fiume, acque navigabili.

IEAD                      condurre, portare (?).

La probabile traduzione è pertanto la seguente:

SU QUESTO MIO ARIDO TERRENO, TEUTO, PRINCIPE CONSACRATO, CONDUSSE L’ACQUA.

L’epigrafe sarebbe dunque un simbolo di manifesta gratitudine, realizzata per ordine di un facoltoso privato cittadino che, forse assieme ad altri possessori di terreno a lui limitrofi, beneficiò dell’opera di bonifica voluta dal principe.

Nella certezza che l’utilizzo del protogermanico quale lingua di riferimento per l’interpretazione della lingua sicana costituisca la corretta chiave interpretativa, ci cimenteremo nella traduzione di altre epigrafi funebri sicane, arrivate a noi alquanto lacunose e tuttavia degne di attenzione per l’alto valore spirituale da esse veicolato, al fine di sollecitare studiosi ed appassionati ad intraprendere uno studio sistematico della lingua dei nostri avi.

Epigrafe apposta su un tegolo funebre rinvenuto in territorio di Adrano

DVIHTIMIRUKESHAISHUIARESESANIRESBE(…lacuna)

Si propone la seguente suddivisione:

DV                         tu

IHITI                    chiamare

MI                         me

RUKE                   mistero, segreto, silenzio

SHAI                     cercare; in tedesco suchen significa cercare, ricercare, andare  in cerca, fare ricerca.

RESESANIRES    viaggio nel regno del sole; in tedesco reisen significa viaggiare e vi sono molte parole composte con questo lessema: Reise’sack, sacca da viaggio; Reise’wagen, carrozza da viaggio.

BE…                       forse il nome del defunto

Probabile traduzione:

MI CHIAMASTI A PARTECIPARE DEL MISTERO (dell’aldilà). INTRAPRENDI ORA IL TUO VIAGGIO VERSO IL SOLE,  BER… (nome del defunto).

Altra epigrafe

DOEITIPHAKEBEZELNIPEZB…

DO                         tu

EITI                       chiamato, nell’accezione di invocare

PHAKE                 nome del defunto

BEZEL                  enumerare

NIPEZB                grado parenterale del defunto con coloro che gli hanno dedicato l’epitaffio

TU (morte) HAI CHIAMATO PHAKE, NOSTRO CONGIUNTO E LO HAI AGGIUNTO (enumerato) AL NUMERO (dei morti).

Si sottolinea che la simbologia sicana, incisa su numerosi manufatti, di cui il territorio del Mendolito è cosparso, dalla spirale alla ruota del sole, dal sole alle croci potenziate, è perfettamente in sintonia con il concetto dell’aldilà espresso nelle epigrafi funebri qui esaminate.

Agli arguti lettori il compito di soppesare le nostre motivate ipotesi interpretative, nella speranza che la soprintendenza di Siracusa, la quale da un secolo conserva nei propri scantinati, impolverata e dimenticata, la preziosa reliquia adranita, la stele del Mendolito, abbandoni le tiranniche pretese sull’epigrafe, restituendola agli Adraniti, eredi legittimi dell’illuminato principe Teuto, e si dimostri non meno magnanima e lungimirante di quel direttore del Pool Getty Museum, meritevole di aver restituito la Venere di Morgantina all’omonima cittadina siciliana, cui era stata precedentemente sottratta in seguito a scavi illegali. Ritorni l’epigrafe, memore di antichi splendori, nella patria sicana, quale vessillo e lustro del popolo adranita, e non perseveri la città di Siracusa nella via tracciata dal Tiranno Dionigi, inviso alle democratiche genti sicule, che fondavano sul diritto la propria civiltà.

– Francesco Branchina