Il Sapere dei Sicani

Il rinvenimento del masso

Il rinvenimento del masso

Poiché con il termine Museion i Greci intendevano indicare un luogo protetto dalle Muse, va da sé che lo stesso luogo rappresentava, nel contempo, la sede della conoscenza, di cui le Muse erano custodi. Le Muse accoglievano nel Museion e facevano partecipe della conoscenza solo chi vi si accostava con purezza d’intenti.  

In Sicilia, in una contrada di Adrano – antichissima cittadina sita alle falde del vulcano Etna e sede del santuario più importante dell’isola, dedicato al dio Sicano Adrano, cantato da Plutarco e citato da numerosi storici, da Ninfodoro  a Diodoro Siculo – vi è un luogo ancora oggi assai suggestivo, caratterizzato dalla presenza di colonnati lavici del Pliocene, acque fluviali, boschetti di betulle, arenarie millenarie ed aironi che, planando sul luogo, sembrano voler scoraggiare i visitatori insensibili a dimorarvi; lo spiritus loci diffonde un’aura di serenità e produce una calma interiore tali che il visitatore sensibile alle bellezze naturali abbandona malvolentieri quel magico sito. Il luogo, che da tempo immemorabile viene indicato come “Valle delle Muse”, è caratterizzato dalla presenza di una grande roccia di arenaria nella quale sono intagliati nove sedili, tanti quante, secondo il mito, erano le Muse; anche per questo motivo il toponimo, che allude alla frequentazione delle divine ispiratrici, è quanto mai opportuno.

2A una cinquantina di metri di distanza dalla roccia con i nove scranni, più a valle e nel letto del fiume, in estate, quando il fiume è in secca, si vede emergere dalla superficie delle acque un grosso masso di arenaria, inamovibile per il suo peso, incastrato tra rocce laviche, lucido, in parte levigato dalle acque della corrente fluviale. L’enorme sasso porta inciso nella facciata più ampia dei suoi tre lati un bassorilievo che sembra riprodurre un simbolismo di non facile interpretazione.

Osservando con attenzione i luoghi prossimi al masso, è facile realizzare che lo stesso si trovava in origine in un posto diverso, probabilmente presso i sedili delle Muse, a pochi metri al di sopra del luogo ove oggi esso giace solitario e decontestualizzato. È probabile che, durante le invernali fasi di piena, il fiume, erodendo l’argine e la base del terreno dove il masso era appoggiato, lo avesse fatto precipitare sul fiume e lo avesse trasportato più a valle, fino alla sua sede attuale.

Prendendo spunto da Cicerone che, nel suo trattato De Divinazione, riferisce circa le abitudini dei sacerdoti di alcuni popoli antichi di riunirsi in consesso in luoghi appartati, è plausibile ipotizzare che, anche nella Valle delle Muse, si riunissero dei sacerdoti per discutere di questioni metafisiche e religiose, per confrontarsi su studi di carattere astronomico, per condividere le proprie esperienze mistiche. Ai popoli citati da Cicerone nel suo trattato, potremmo aggiungere quello dei Veda, in cui le riunioni fra i rishi o saggi erano continue e di altissimo contenuto metafisico, come si evince dall’Upanisad.

Tenendo conto, dunque, delle caratteristiche della cosiddetta Valle delle Muse, ancora oggi di grande effetto suggestivo per i suoi boschi, le sue rocce e per la ricchezza di acque fluviali e di sorgente, è possibile ipotizzare che, fin da tempi remoti, tale luogo venisse scelto quale sede del sacro, come sito ideale per l’esaltazione della riflessione metafisica. La presenza della pietra di arenaria, che si ritiene originariamente posta in prossimità dei nove sedili, e l’interpretazione del simbolo su di essa inciso, è coerente con l’ipotesi su formulata circa l’origine del nome della valle e l’uso a cui era destinata. Il bassorilievo inciso sul sasso ricorda, a parere nostro, la figura di un serpente che avvolge e stringe tra le sue spire una figura antropomorfa o teriantropica o una sfera, la quale potrebbe rappresentare il mondo. La presenza di un tale simbolismo, in un luogo sacro, riservato alla casta sacerdotale o ai neofiti ansiosi di acquisire la Conoscenza, non deve sorprendere, visto che il serpente, da tempo immemorabile, è simbolo di conoscenza. Negli antichi testi indiani il serpente simboleggia una forza occulta, misteriosa e pericolosa. Se, però, essa viene conosciuta, assume un aspetto benefico e si piega alla volontà dell’operatore. La kundalini, per esempio, è una forza che, quando riposa, è come un serpente raccolto su se stesso. Nell’Antico testamento il serpente viene palesemente indicato come guardiano dell’albero della conoscenza, artefice dell’invito, rivolto ai primi due nostri progenitori, a mangiare il “frutto” dell’albero in cui essa cresceva; anche nel Buddismo appare collegato alla conoscenza, visto che offre la propria protezione al Budda, al fine di permettergli di applicarsi indisturbato  alle sue meditazioni; nei Veda, il serpente Ananta rappresenta uno dei primi esseri della creazione, è legato all’acqua e il dio Vishnu appare disteso su di esso, mentre, sempre in India, i Naga venivano descritti come uomini per metà serpenti; in Mesopotamia, il dio Enki veniva talvolta raffigurato metà uomo e metà serpente a doppia elica; tra i Greci, nella variante di drago, lo ritroviamo a guardia del vello d’oro; nella mitologia germanica il Miðgarðsormr è il grande serpente che cinge il mondo; perfino nel centro America Quetzalcoatl, il dio serpente piumato, era ritenuto colui che portava la conoscenza.  Neanche alla religiosissima Roma sfuggì il significato del simbolo se il saggio Augusto, colui il quale garantì quarant’anni di pace all’Urbe più combattiva del mondo antico, lo utilizzò come metafora per la propria nascita[1]. Ma il simbolismo della pietra ritrovata nei pressi di Adrano è particolarmente affine, ancora una volta, con quello che caratterizza il culto di Giunone Sospita a Lanuvio.

Lanuvio entra nelle cronache della nostra storia locale grazie ad un intonaco rinvenuto a Taormina, da cui si evincono rapporti di fratellanza, attestati anche dall’annalista romano Fabio Pittore, tra Lanuvio e i nostri vicini Centuripini. A Lanuvio, fino al IV secolo d.C., la nascente religione cristiana dovette confrontarsi con l’antichissimo culto di Giunone Sospita, nel cui tempio, eretto nell’acropoli della città, veniva allevato il sacro serpente; era affermato anche il culto di Vesta, che si sostiene importato da Romolo a Roma dove, nel II sec. d.C., viene scolpito un rilievo raffigurante la dea del focolare che tiene con una mano uno scettro e protende l’altra mano nel gesto di offrire un uovo ad un grande serpente. L’imperatore romano Antonino Pio, originario di Lanuvio, era un devoto della dea Giunone Sospita, il cui culto viene ritenuto antichissimo da Cicerone. Come si può notare, il riferimento al serpente e all’uovo primordiale da cui promana la creazione era presente nell’Italia centrale, abitata da Sicani e popoli affini, già prima della fondazione dell’Urbe, come affermato da Virgilio nell’Eneide. Lanuvio, città del centro Italia, attraverso i suoi comprovati rapporti con il territorio etneo della Sicilia, rappresenta, a nostro modo di vedere, l’anello in grado di provare il legame culturale, da noi sempre sostenuto e da Cicerone intuito, tra la Sicilia sicana e il Lazio pre-romano. 

L’ipotesi della destinazione d’uso sacra della Valle delle Muse è avvalorata dalla constatazione che molti popoli affini ai Sicani avessero l’abitudine di riunirsi presso laghi, fiumi, rupi poste dalla natura su valli come naturali palcoscenici, boschetti sacri, fonti d’acqua. Queste abitudini vengono descritte con dovizia di particolari da Tacito in riferimento ai Germani; da Virgilio in relazione ai Romani del periodo regio, con particolare riferimento a Numa Pompilio; da Snorri Sturluson in relazione agli Scandinavi; dagli autori dell’Antico Testamento per quanto riguarda i Filistei. Nel libro VIII dell’Odissea, in cui si descrive l’accoglienza che i Feaci (posti da Apollonio Rodio in Sicilia) riservarono ad Ulisse, viene affermato che i principi feaci, in numero di dodici (numero esoterico che ricorre sovente nella letteratura di tutti i popoli del mondo), si riunivano in un luogo vicino al porto (non passi inosservato il simbolismo dell’acqua, sempre collegato ai luoghi in cui si svolgono pratiche rituali). Qui si sedevano su “lucidi scranni di pietra”, evidentemente predisposti gli uni accanto agli altri per facilitare la comunicazione verbale dei convenuti. Una serie di numeri dal valore chiaramente esoterico – il nove, accostabile al numero delle Muse e dei loro scranni, il dodici, che ricorre nel numero delle province in cui, come afferma Alcinoo nell’Odissea, fu suddiviso il territorio fra i principi Feaci, il tre, di cui il nove e il dodici sono multipli, che forma il toponimo Trinacria, allusivo del concetto della triade divina formata dal padre, dio Adrano, la madre, dea Etna o Hibla, ed eredi, gemelli Palici – ci introducono in una Sicilia misterica e ancora poco indagata sotto questo aspetto.

Taceremo in questa sede, per esigenze di sintesi, su altri aspetti afferenti alla tesi misterica secondo cui, per gli Antichi, nell’isola di Sicilia albergavano forze ultrafisiche. Non ci soffermeremo, pertanto, sul significato della numerosa presenza di rocce bucate o “perciate”, come vengono definite nel dialetto siciliano, sulla presenza di spirali realizzate con l’opportuna disposizione sul terreno di pietre megalitiche di epoca neolitica o paleolitica, di rocce antropomorfe e zoomorfe, di cui l’Argimusco rappresenta solo il luogo più conosciuto o meglio conservato. Si noti che il toponimo Argimusco, secondo un metodo interpretativo di cui sono state già fornite ampie spiegazioni in numerosi precedenti nostri contributi, risulta formato dall’unione dei lessemi arkè e Musa; si noti, inoltre, che questa contrada si trova nei pressi del paesino siciliano di Montalbano Elicona, toponimo che allude chiaramente alla Musa dell’Argimusco, visto che le Muse venivano dette dai Greci Eliconie.


[1] Secondo un mito il principe sarebbe nato dalla unione della madre con una serpe, incarnazione della conoscenza e dello stesso dio Apollo, al quale l’imperatore fu straordinariamente devoto.


4Ma il richiamo alle Muse, in terra di Sicilia, non è circoscritto ai due luoghi sopra citati; molte sono le contrade ad esse intitolate, tutte ancora caratterizzate da ambienti naturali suggestivi, nonostante l’antropizzazione irrispettosa del territorio. La contrada Musa, a tre chilometri da Nicosia, non è meno suggestiva di altre, con i suoi monti di arenaria e gli ancora foltissimi   boschi di querce che li circondano. Straordinario appare il fatto che alcuni luoghi designati con un toponimo derivante da Muse, a loro volta si trovino nei pressi di luoghi indicati con il nome Favare.

All’interno della Valle delle Muse di Adrano, costeggiata dal fiume Simeto, vi è un luogo detto Favare, ove sgorgano5 acque di sorgente. Lo stesso avviene presso la contrada Musa di Nicosia, costeggiata dal fiume Salso, affluente del fiume Simeto, ove ricorre il medesimo toponimo di Favara e dove scorrono acque di sorgente. Riteniamo che Favare significhi “acque sacre” da (o fe), che significa sacro, e wara ossia acqua corrente. Sarebbe interessante avviare una ricerca per appurare se, in prossimità di tutti i luoghi designati con nomi derivanti dalle Muse, siano presenti acque copiose e toponimi, come Favare, che riportino al concetto di acque sacre.

I Misteri

A qualche centinaio di metri a monte rispetto agli scranni delle Muse, su una parete lavica, sotto la quale sgorga una fonte d’acqua purissima, vi è un’epigrafe in caratteri greci; in contrapposizione rispetto ad alcuni studiosi, che la ritengono un’epigrafe paleocristiana del III secolo e vi ravvisano una sequenza di quattro nomi di persona, riteniamo piuttosto che essa veicoli una tradizione misterica coerente con la tradizione e la toponomastica del luogo.

Riteniamo che in quest’enorme area sacra, lungo il margine del fiume più importante della Sicilia, citato col nome di Simeto fin dal V secolo a.C. dallo storico greco Tucidide e cantato da Virgilio, il quale vi poneva l’ara degli dèi Palici, veniva attuato da tempo immemorabile un percorso iniziatico, la cui conclusione avveniva proprio presso gli scranni delle Muse, sui quali sedevano non tanto le Muse ma piuttosto i sacerdoti, gelosi custodi dei loro misteri. Essi, riuniti in consesso, ieraticamente seduti sugli scranni, circondati da fuochi ardenti in loculi ricavati nella stessa roccia presso gli scranni, interrogavano il neofita valutando se lo stesso fosse degno di accogliere e, a sua volta, custodire delle verità che il profano non avrebbe potuto comprendere. Numerosi gli indizi che inducono a formulare l’ipotesi di cui sopra: le Muse, con il cui nome da tempo immemorabile è designata la Valle, sono custodi della conoscenza; presso il luogo denominato Favare, “acque sacre”[2], vi sono due fonti, esito della metamorfosi degli dei Palici, note l’una come fonte d’acqua chiara e l’altra come fonte di acqua scura; nei pressi degli scranni vi è un altare in cui si sacrificava ai gemelli divini, i Palici, figli del dio patrio Adrano. Si noti come il mito dei due gemelli Palici sia strettamente collegato al concetto di dicotomia o complementarietà degli opposti: acqua chiara, acqua scura.


[2] Alcuni ritengono che il toponimo Favare sia di origine araba. Riteniamo che il toponimo fosse antecedente alla dominazione araba e che gli Arabi si siano limitati a conservarlo. Infatti, il termine vara ricorre nei nomi di molti fiumi che scorrono nel nord Italia, in Liguria, in cui non vi fu dominazione araba; nomi di fiumi in cui ricorre il lessema wara scorrono nel nord Europa; i Vichinghi svedesi furono appellati vareghi ossia waragehen “coloro che percorrono i fiumi”.  Erodoto, nelle Storie, indica un fiume, corrispondente all’attuale Dnepr, che gli antichi chiamavano varustana; il dio delle acque Indù si chiamava Varuna. Gli esempi potrebbero continuare.


L’insieme di questi elementi induce a ritenere che il luogo ancora oggi noto come Valle delle Muse dovesse essere originariamente un’area sacra, sede di percorsi iniziatici, di conoscenze ermetiche, comuni anche ad altre civiltà coeve, come quella dei Veda, in India. Qui era il dio Kṛṣṇa che, istruendo il discepolo Arjuna, gli indicava l’esistenza e la possibile scelta di seguire una “via oscura o una via chiara”. In qualche modo, un corpus[3] di antichi misteri, legato alla conoscenza trasmessa dalle Muse, dovette essersi originato e poi tramandato. Chi non vede nell’importantissima processione che si svolge a Musa, in cui si porta in giro per il villaggio la statua della Madonna della “guardia”, ai cui piedi si inginocchia un pastore implorante, il medesimo, plurimillenario, atteggiamento mentale di chi invoca la benevolenza e la protezione dell’antica Musa?

Ad majora!

Francesco Branchina


[3] “La Sicilia del IX secolo era, ancora, detentrice di un corpus di opere sconosciute al resto dell’Europa tanto da formare, assieme alle opere arabe e spagnole dell’epoca, una terza via per l’acquisizione della conoscenza”. Da L’elisir e la pietra – Ed. Net, M. Baiget-R.Leigh. Potremmo porci la legittima domanda: quante di queste opere erano la prosecuzione o riproposta di conoscenze acquisite in tempi incommensurabili?