Il campo dell’educazione è un pascolo comune. Ognuno di noi parla di educazione, valuta l’educazione degli altri (raramente la propria), considera la società sotto il punto di vista educativo. Questo stato di cose porta con sé il rischio, sempre molto frequente in educazione, della retorica. La retorica in questo caso è la chiacchiera ampollosa, piena di paroloni, vuoti il più delle volte, che fa si che la pedagogia diventi pedagogismo, di infimo livello per giunta.

L’educazione e la pedagogia invece sono pratica seria e scientifica, che richiede rigore nel pensare, nel ricercare, nel progettare e nell’agire. Necessita di rigore soprattutto concettuale perché la nostra azione educativa, i nostri progetti non diventino strutture vuote, sequenze di azioni simili al battere le mani in aria producendo solo rumore e scarsi risultati.

Campo pericoloso è la cosiddetta “educazione alla legalità”. Mi sono sempre chiesto, da pedagogista, cosa voglia dire “educare alla legalità”, chiedendomi sempre quali azioni concrete si possano fare in tal senso ma, prima ancora, di come sia valutabile e distinguibile il risultato da ottenere con tale direzione educativa.

Il dubbio mi nasce dal veder fiorire iniziative numerose di “educazione alla legalità”, tra le più disparate, spesso basate sull’assunto che siano da implementare nei quartieri e contesti “difficili” dove alti, per esempio, sono i livelli di dispersione scolastica o di reati commessi ecc. Qui nasce proprio la prima perplessità: siamo sicuri che, ammesso che sia logicamente possibile, “educare alla legalità” sia qualcosa da riservare a quei contesti dove la pericolosità sociale è semplicemente più evidente che in altri? Provo a spiegarmi meglio. Esistono forme di devianza dalla legalità che creano un basso livello di allarme sociale, che sono, come dire, socialmente più accettabili, ma che forse fanno più danno. Mi riferisco, per fare un esempio, ai crimini c.d. dei “colletti bianchi”, spesso di tipo finanziario-fiscale. Siamo sicuri che, ammesso che si possa farlo, non sia questo l’ambito sul quale indirizzare il maggior sforzo educativo in direzione della legalità? Il dubbio mi viene considerando il fatto che spesso le situazioni difficili che si vivono in certi contesti o quartieri nascono proprio da questo genere di crimine. Evasione fiscale significa meno soldi per lo Stato, quindi meno servizi proprio per chi ne avrebbe più bisogno ad esempio. Ma non voglio dilungarmi, voglio solo sottolineare come, ammesso che sia possibile una “educazione alla legalità”, questa sia già spesso di per sé impregnata di provvidenzialistici pregiudizi, tipici della Francia ‘800 raccontataci da Hugo. Una visione di per sé fortemente classista e razzista.

Tornando al concetto di “educazione alla legalità” ed alle domande poste in testa a questo scritto, mi viene in mente, per aiutarci a discernere, la teoria dell’apprendimento di Bateson (i fautori della c.d. “educazione alla legalità” la conosceranno di sicuro, per gli altri vi chiedo la gentilezza di andarla a cercare). L’”educazione alla legalità” non può essere inquadrata tra le forme di apprendimento di tipo zero, forme riflesse di reazione ad uno stimolo del contesto. Qui nessuna forma di intelligenza è presente, per dirla con semplicità. Non può neanche, credo, essere inserita tra le forme di apprendimenti di tipo 1, fortemente legate al rapporto stimolo-risposta e quindi al contesto anche se le possibilità di risposta si allargano in funzione dei segnali-stimolo del contesto.

Ammesso che sia possibile una “educazione alla legalità” potremmo forse collocarla al livello del deutero-apprendimento, della capacità cioè di saper ridefinire i contesti, di non rimanere legato percettivamente al contesto, di saper integrare sapere vecchio e sapere nuovo, di saper ridisegnare i confini dei contesti, imparando anche a ridefinire sé stessi in rapporto al contesto. Forse neanche in questo contesto potremmo iscrivere la c.d. “educazione alla legalità”. L’apprendimento di tipo 2 è certamente difficile da conseguire ma è il vero obiettivo educativo. Acquisire la capacità di “apprendere ad apprendere”, di dare direzione alla nostra esperienza quindi, di saper leggere i dati non lasciandosi dominare da questi, di saper spaziare tra contesti diversi con agilità e intelligenza.

Il rispetto della legalità si configura quindi più come un habitus (nel senso deweyano del termine) o, in senso cristiano, una virtù, cioè un’abitudine contratta a fare il bene. Ma come si acquisisce? Si acquisisce forse dalla somma di altre acquisizioni precedenti, primo tra tutti il senso di appartenenza ad una comunità.

Quando parliamo di appartenenza mi riferisco alla consapevolezza di far parte di una comunità, alla capacità di saper incidere su questa, di fare la propria parte. L’educazione in tal senso passa da due ambiti privilegiati, senza tralasciarne altri. In primo luogo, passa dalla scuola. Se la scuola non funziona bene, in termini di istruzione (quella vera, anche quella depurata dai pedagogismi), la democrazia non funziona bene e quindi la società. La scuola è il primo strumento per acquisire l’apprendimento di tipo 2, la capacità di ridefinire i contesti, di saper apprendere ad apprendere e quindi dare direzione alla propria crescita. In secondo luogo, passa dalle agenzie educative extrascolastiche (associazioni, oratori ecc.), palestre di vita e di convivenza, luoghi positivi di esperienza di comunità dove l’I care tanto caro a don Milani si incarna nell’impegno concreto. Questi ultimi, progetti, iniziative ecc., sono e devono comunque essere subordinati al buon funzionamento della scuola (non la Buona scuola di deriva aziendalistica – sulla scuola il discorso è estremamente lungo e complicato).

Educare alla legalità potrebbe allora essere sostituito con educare alla comunità. Questo eviterebbe alcuni pregiudizi, luoghi comuni e “bug” insiti nella c.d. “educazione alla legalità”. Li elenco di seguito sperando di essere conciso (per me una vera e propria impresa) ed esaustivo:

  1. L’educazione all’appartenenza ed al senso di comunità non si rivolge solo ai “disagiati”, ai poveri ragazzi dei quartieri difficili (quanta retorica!) ma si rivolge a tutti, in ogni luogo e tempo, in ogni condizione.
  2. L’educazione alla comunità mira a creare cittadini capaci anche di smascherare l’ingiustizia insita nella comunità (quanta ce n’è nella nostra Adrano!).
  3. L’educazione alla comunità muove verso la partecipazione di tutti, senza pregiudizi e provvidenzialismo. Non c’è il povero bimbetto svantaggiato da salvare ma c’è il cittadino da costruire.
  4. L’educazione alla comunità valorizza la scuola (quanta la dispersione scolastica nel nostro territorio?) e le agenzie educative e favorisce la creazione e diffusione di occasioni e luoghi educativi.
  5. L’educazione alla comunità guarda al bene di tutti, non solo al proprio lavoro, progetto, alle proprie azioni. Guarda alla comunità.
  6. L’educazione alla comunità non si nasconde dietro nomi altisonanti che, strumentalizzati, sembra quasi rendano intoccabile chi se ne appropria.

Concludo. Ho sentito in questi giorni chi voleva festeggiare l’ultimo giorno di scuola fregandosene di chi nel nostro territorio a scuola non c’è mai neanche andato. Ho sentito associazioni per la legalità usare metodi di intimidazione e pressione, seppur con mezzi leciti, che nulla hanno a che fare con il senso di comunità e legalità. Propongo di lavorare invece per lo smascheramento. Perché nessuno nella nostra società debba essere costretto ad elemosinare lavoro o aiuti economici al “signorotto di turno”, specie in tempo di elezioni, perché nessun disabile sia costretto a pagare per lavorare solo per allontanare il rischio della esclusione e segregazione sociale. Perché alle feste degli ultimi giorni di scuola sappiamo preferire la scuola per tutti, aperta a tutti.

L’educazione è cosa seria, cosa politica (non di maggioranza ma politica), è concretezza delle azioni e rigore del pensiero. Non si nasconde dietro nomi, slogan, autocelebrazione, commiserazione per lo svantaggiato. Guarda in faccia l’uomo per dargli l’opportunità di crescere, di esprimersi cioè al meglio delle sue possibilità. In questo, nella lotta contro ogni oppressione vera, l’educazione è eminentemente politica, di altissimo livello. Forse proprio per questa è spesso mistificata, misconosciuta, strumentalizzata, ignorata.