Giuseppe Testa sul quotidiano La Sicilia di oggi

In genere, quando si grida “al lupo, al lupo!”, il lupo non è mai dietro l’angolo. Ma in politica ci sono lupi singolarmente sensibili ai richiami della foresta: grida oggi e grida domani, qualcuno finirà per crederci a questa storia delle elezioni sotto Natale. Per adesso, siamo alle urla. Ai clamori di ferraglia. Ed è bene domandarsi quali intenzioni, quali paure e, soprattutto, quali effetti producano.
Ospite di un paesino padano, il capo del governo ne ha approfittato ieri per alzare toni e volume e intonare il grido “al voto, al voto!” che suona sì dolce alle orecchie di Bossi. Perché? Primo: vuol muoversi di conserva con la Lega. Secondo: vuol diffondere il messaggio subliminale che la decisione di andare alle urne dipende soltanto da lui: difatti, ha definito drasticamente… «formalismi» gli eventuali tentativi di Napolitano, in caso di crisi di governo, di cercare maggioranze diverse in Parlamento.
Ora, poiché Berlusconi non teme il voto anticipato, ma neppure ne è così entusiasta, la terza e più importante ragione di continuare a evocarne lo spettro è quella di gettare nel panico i finiani che, se davvero si votasse a dicembre, sarebbero spazzati via con i primi fiocchi di neve. Già, i finiani. Chi sono i finiani? A forza di battere il tamburo delle elezioni, si direbbe che Berlusconi stia riuscendo a sparigliare il gruppo.
Ieri i seguaci del presidente della Camera hanno parlato due lingue: Bocchino, che li guida a Montecitorio, ha giurato che il capo è pronto a scendere in lizza con un suo partito; Viespoli, capogruppo a palazzo Madama, si è espresso in termini molto più cauti: «Se non si riuscisse a ricucire, verrebbe meno il più grande partito di centrodestra in Europa».
In attesa di capirci qualcosa di più, l’ordalia della fiducia sui famosi “cinque punti” è già passata in sott’ordine. Berlusconi sa, primo fra tutti, che non basterà ottenere un sì della pattuglia di ribelli sul programma per sottrarsi, al momento di tradurlo in leggi concrete, al traccheggio dei negoziati che lentamente, ma inesorabilmente, ne logorerebbero l’immagine: ed è questo il vero obiettivo di Fini. Non certo per votare fra tre o quattro mesi.
Dunque, se provassimo a mettere la sordina alle trombe di guerra, quel che dovremmo aspettarci è, ancora e sempre, la guerriglia. Difficile duri fino alla scadenza della legislatura, ma non è nemmeno facile che sbocchi in immediato chiarimento in cabina elettorale. Ed è il peggio che ci si possa augurare.
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