Molti giovani di loro volontà si recano da loro (dai Druidi) per esserne discepoli

 e molti sono mandati dai genitori e dai parenti.

Da loro, a quanto pare, debbono imparare a memoria un gran numero di versi;

per molti il tempo del noviziato dura venti anni.

Non ritengono lecito scrivere i loro precetti sacri;

invece per gli altri affari sia pubblici che privati, usano l’alfabeto greco.

Cesare – La guerra gallica-VI,14. 

I SENONI

Prenderemo spunto dal nome dell’illustre antenato siciliano citato da Cicerone nel corso del processo intentato a Caio Verre, Senone di Mene, per squarciare un ulteriore velo che ammanta la storia della Sicilia pre-greca. Il nome in questione è un etnico che allude all’ascendenza gallica di Senone di Mineo.

È noto che i Senoni erano una delle tante tribù che Giulio Cesare incontrò durante la conquista della Gallia. Ancor prima che i Galli Senoni fossero menzionati da Cesare, già nel 390 a.C. avevano fatto parlare di sé in Italia. Infatti questa tribù aveva messo a ferro e fuoco la città più potente d’Italia, Roma, atto temerario che fece guadagnare al capo che la comandava l’attributo di Brenno, che significa l’incendiario, dal germanico brennen ardere, incendiare. Nella sua descrizione del popolo gallo, Cesare mette in luce il prestigioso ruolo che avevano i sacerdoti Druidi in seno alla loro società. Quest’ordine sacerdotale si occupava dell’istruzione dei giovani e della formazione della futura classe dirigente. Cesare scrive:

Vengono anche trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e i loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sulla essenza e sul potere degli dèi”.

L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà della presenza druidica fra i Celti, popolo dal quale i Druidi prendono origine, come sostiene lo stesso Cesare. I Celti, d’altra parte, si distinguono dai Galli solo per il nome che li contraddistingue e che può essere considerato una sorta di soprannome. L’antica abitudine di dare dei soprannomi, del resto, ci viene confermata da Erodoto, il quale la attribuisce ai Persiani (Storie I,139). È probabile che l’appellativo “Celta”, divenuto in seguito un etnico, derivi dal vocabolo cenedl che, in lingua irlandese, indica un gruppo umano unito da vincoli di sangue; che l’appellativo Galli derivi da Kalla, col significato di chiamare e, a tal proposito, il Generale romano racconta che i Galli, comunicando da villaggio in villaggio, “si chiamavano” lanciando forti grida; mentre quello di Germani derivi da ger e mann, uomini con la lancia. In tempi remoti dunque Celti, Galli, Germani, Iperborei altro non erano che un unico popolo denominato, convenzionalmente, con il nome di popolo germanico.

Come si evince dalla descrizione che ne fa Cesare, a cui si aggiungono quelle di Plinio il Vecchio, Teopompo, Diogene Laerzio  e molti altri storici antichi, i Druidi erano conoscitori di un’arcana sapienza. Studiando ulteriormente le società in cui i Druidi avevano un ruolo preminente, emerge ancora che essi contavano sull’infinita potenzialità della mente umana, che stimolavano in continuazione. Allenavano la memoria, componevano versi ed esercitavano riti evocatori al fine di produrre una manifestazione del divino. Non stupirà, pertanto, se in Grecia, area geografica affine a quella siciliana per cultura, circa duecento anni prima dell’esistenza del nostro illustre siciliano di Mineo, un altro Senone fondava una scuola di pensiero, che dalla Stoà di Atene sarebbe confluita nei salotti buoni della Roma imperiale e avrebbe inciso nelle menti più illustri della società romana, trovando in Catone Uticense prima e poi in Seneca i più celebri rappresentanti. Il riferimento va a Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo ( la s, secondo la rotazione consonantica espressa nella legge di Grimm, sarebbe mutata in z )[1].

Oltre un secolo prima della nascita dello stoicismo in Grecia ad opera del greco Senone\Zenone, e quattro secoli prima rispetto al periodo in cui operò il siciliano Senone, ritroviamo nella patria di quest’ultimo,  Mene (l’attuale Mineo), un altro illustre conterraneo in odor di druidismo, il grande condottiero Ducezio. Nato anch’esso a Mene, secondo la testimonianza di Diodoro, e sorvolando in questa sede sullo studio della sua prorompente personalità, oggetto di un precedente saggio (Link) ci limiteremo soltanto a segnalare ai nostri attenti lettori che il nome della città in cui egli nacque[2]  è già di per sé una testimonianza del fatto che essa fosse sede di un ordine sacerdotale affine a quello dei druidi galli preposto al culto degli dèi Palici, il cui antro oracolare si trovava proprio nei pressi di questa città, tra Mineo e Palagonia. Infatti il radicale Mn che compone il toponimo, significa mente. Il nesso consonantico in questione forma ancora i nomi di Mnemosine, la memoria, figlia di Ur-Ano, e di Minerva, nata dalla testa o mente di Zeus.

Non possiamo fare passare inosservata l’affinità spirituale tra il panteismo proposto da Zenone, fondatore della filosofia stoica, e quello riscontrabile nell’atteggiamento religioso druida, che vedeva in ogni singolo elemento del mondo la manifestazione del divino. Per comprendere come il panteismo druidico fosse una scuola di pensiero presente in Sicilia, crediamo sia sufficiente visitare i luoghi di culto sicani, che ancora si ergono come cattedrali naturali, Pantalica, Cava Grande, Valle delle Muse e tanti altri ancora, e poi osservare i Dolmen di Avola, Sciacca o Ragusa e compararli con quelli della celtica Irlanda, terra in cui il druidismo scandiva la vita religiosa quotidiana di ogni singolo uomo. Sul significato religioso dei dolmen  presenti in Sicilia così come in Irlanda, nell’antica Gallia e in altri luoghi del nord Europa, crediamo non vi siano più dubbi. Del resto è nota l’abitudine dei primi patriarchi biblici di innalzare steli, “mucchi di pietre”, altari, laddove si era palesato il sacro. È altrettanto evidente come la relazione tra le due caste sacerdotali, quella dei Dru-eid o Dru-iti celtici e degli Odhr-an-iti siciliani, venga a crearsi attraverso il nesso consonantico dhr presente in entrambi i nomi. Il nesso consonantico dhr allude ad una forza, ad una potenza extrafisica che si manifesta in modo violento, con furore, tanto che il suono onomatopeico che si emette pronunciandolo fa pensare al ringhiare di un animale in fase di attacco. Lo si ritrova anche nel nome di un animale immaginario che gli scandinavi ebbero caro, il drago, al punto di scolpirne la testa nella prua delle loro navi e chiamarle drakkar, drago.  I Druidi dunque erano coloro che potevano gestire questa forza violenta di ordine extrafisico nelle due possibili varianti: forza che si manifestava indipendentemente dalla volontà del sacerdote e forza evocata dal sacerdote. La Bibbia fa frequente riferimento a questa inspiegabile forza, definita divina, alla sua violenta manifestazione. I Patriarchi che ne vengono a contatto si meravigliano di rimanere in vita dopo averne sperimentato gli effetti, tanto che, nell’Antico Testamento, ricorrono frasi, pronunciate dai patriarchi, del tipo “ho visto dio faccia a faccia e sono rimasto vivo”. Altre volte si rimaneva folgorati o momentaneamente accecati, come nel caso di Saulo (Paolo). Alla grande capacità creativa della mente fa allusione Zarathustra, quando si riferisce al dio avestico Ahura Mazda, definendolo il dio che crea con la mente. Zaratustra, nell’Avesta, fa spesso riferimento ad una forza, la drui, alla quale attribuisce una connotazione di negatività.  La drui, che pare  gestita da un ordine sacerdotale antagonista riconducibile ai Magi, è attribuita al potente dio Angra Mainyu. Passeremo sotto silenzio in questa sede il significato del nome Mainyu, dall’analisi del quale ricaviamo la convinzione che sia questo il dio che crea con la mente piuttosto che Haura Mazda, per osservare che, al tempo di Zarathustra, le due regioni confinanti, Media e Persia, erano in conflitto e gli ordini religiosi dei due territori combattevano la loro guerra al servizio della propria patria utilizzando, su un piano metafisico, mezzi quali scomuniche, pratiche magiche, anatemi e maledizioni, tutte forze riconducibili al nesso consonantico dhr.

Il nome di un mago medo, oppositore a Zarathustra, non pone dubbi sull’origine nord europea di questi operatori di magia. Il mago si chiamava Akt ossia colui che agisce o colui che sacrifica. La presenza dei Germani in Persia è attestata dallo storico Erodoto. Essi vi erano presenti già da molto tempo e rinsanguavano continuamente la stirpe attraverso periodiche migrazioni. Una delle ondate migratorie, né la prima né l’ultima, fu quella nota come migrazione dei “popoli del mare”. Crediamo che il nome Ciro o Kuruś con cui Zarathustra, utilizzando il  linguaggio metaforico proprio dei druidi,  denominava il famoso re, avesse il significato, denso di simbolismo, di “mucca rossa”, da vacca e rus rosso. Rus, si ricorderà, era un appellativo dato ai Varieghi svedesi per il colore dei loro capelli ed il cognome Russo è frequentissimo in Italia, in particolare nel meridione. Che Ciro avesse connotazioni somatiche nord europee non deve stupire per diversi motivi. Già Diodoro faceva riferimento ad una quasi sottomissione dell’intera Asia da parte dei Cimbri avvenuta in tempi lontanissimi dalla sua epoca. Ed infatti Sargon, il grande re di Akkad, in Mesopotamia, era biondo e si vantava di aver sottomesso il popolo dalle teste nere. Eschilo nella tragedia I Persiani, chiama criseo , cioè biondo, Matallo, uno dei sottoposti di Serse  al comando di diecimila Persiani. La madre di Serse si chiamava Atossa, dallo svedese ut, ossia fuori, esterno, ed ass, che nel linguaggio runico significa ispirazione, presagio; infatti la donna, attraverso i sogni che la turbavano ogni notte e che faceva interpretare ai Magi, aveva continue premonizioni circa il futuro disastro della campagna militare condotta dal figlio contro la Grecia. La madre di Ciro si chiama Mandane, da man mente e Dana, la dea madre celtica. Dunque non ci si meravigli se la descrizione che fa Erodoto dei Persiani è perfettamente sovrapponibile a quella che, cinque secoli dopo, Tacito avrebbe fatto dei Germani. Ma le analogie continuano: un secolo prima che Ciro strappasse il regno ai Medi, questi erano governati da Deioce, al quale si attribuisce l’unificazione delle tribù mede in un unico popolo e la formazione della Media in un unico regno. Magi era il nome di una delle tante tribù presenti nella Media, che aveva il compito di fornire la casta sacerdotale al paese. I Magi erano chiamati dal re medo Astiage per interpretare i suoi sogni. Deioce, il riunificatore medo, viene descritto come un giudice che si era messo in vista per la correttezza delle sue sentenze e successivamente eletto re per unanime consenso. Dei Druidi Cesare afferma che erano gli unici deputati a fare da giudici per le private e pubbliche contese. Per il momento passiamo sotto silenzio l’affinità tra i nomi Deioce, Ducezio e la città gallica di Decezia, per fare notare che tutti gli operatori del sacro in cui siamo incorsi durante le nostre ricerche, provengono da famiglie nobili. Lo sono Zarathustra ed Akt in Persia e Media, lo è Budda in India, lo sono Vercingetorige e Ducezio in Gallia e Sicilia.

Lo stesso Senone di Mene è definito da Cicerone “uno tra i più nobili della sua città” (Verre III,55), identica definizione che Diodoro aveva usato sia per Arconide, anch’egli in odore di appartenenza a questo speciale sacerdozio, sia per Ducezio. L’appartenenza del neofita ad uno strato sociale elevato era condizione necessaria per diventare leader ed essere istruito dai Druidi. I Druidi, dice Cesare, potevano mettersi essi stessi a capo di eserciti o istruire chi, per innato intuito, aveva le doti necessarie per fare da guida al proprio popolo. Quest’ultimo sembra il caso del gallo Vercingetorige, come pare suggerire il prefisso sacro Ve che compone il suo nome. La nobiltà degli appartenenti all’ordine sacerdotale dei Druidi ci induce a ritenere che l’ordine dei cavalieri Teutonici formatosi nel Medioevo, che proibiva l’accesso ai non nobili, in qualche modo si rifacesse all’antico sacerdozio druidico. La nobiltà caratterizzava anche il popolo dei Senoni. Di loro, infatti, Tacito afferma che erano considerati i più nobili tra i Germani e ciò a motivo della loro antichità, attestata, secondo lo storico romano, da un rito che essi celebravano[3].

Il rito in questione, celebrato in onore dell’Avo, mette ancora una volta in evidenza le comuni radici tra Sicani e Senoni. Se dunque a Mene ritroviamo un etnico, Senone, non dovrebbe meravigliare che il nome di Ducezio, nato a Mene, sia simile a quello della città gallica Decezia, citata da Cesare nel libro VII,33 del De bello gallico. Il fatto che tutto il popolo gallo si fosse recato a Decezia, riunito in una gigantesca assemblea per parlamentare col generale romano ed eventualmente deliberare per acclamazione, permette di azzardare la traduzione del toponimo, che potrebbe derivare dal vocabolo cenedl che, nella lingua irlandese, indica una comunità di individui legati da vincoli di sangue. Decezia, dunque, rappresentava il luogo deputato a raccogliere tutte le stirpi consanguinee dei Galli, centro sacro di raccolta, in perfetta sintonia con le abitudini di tutti i popoli germani, perdurate fino in epoca vichinga, quando in Svezia i re si recavano nella prateria di Mora, nei pressi di Upsala, per essere eletti dal popolo. Se questa interpretazione fosse esatta, il nome del condottiero siculo Ducezio potrebbe essere stato un appellativo per indicare l’uomo come colui che era stato eletto per essere la “guida delle stirpi” consanguinee dei popoli siciliani. Lo stesso può affermarsi per il nome, storpiato per la differente pronuncia, di Deioce, avendo egli riunito le stirpi mede in un unico popolo.

Un’ulteriore prova della presenza druida in Sicilia può essere rappresentata dall’effige delle monete coniate in Sicilia e in particolare nella città di Adrano, la città sacra che, come Decezia, era il centro di raccolta in cui si tenevano le assemblee, monete in cui si vede un’aquila che ha predato una lepre. Infatti fra i Celti il falco era il simbolo della vittoria e veniva raffigurato sopra la lepre. Il simbolo della lepre e la sua allegoria si ripete nel caso di Ciro, definito impropriamente persiano in quanto la madre era Meda. Sottolineiamo questo fatto poiché riteniamo che i Medi fossero di etnia celta, pertanto il medo Arpago, quando invia la lepre a Ciro, è certo che il re ne comprenderà il simbolismo grazie all’ascendenza materna.

IL DIO SCANDINAVO ODHR E IL DIO SIKANO ODHR-ANO. DRUIDI ANTE LITTERAM?

Non è solo la prateria di Mora a mettere in relazione la Sicilia con la Scandinavia, né l’antico toponimo dell’isola S(i)kania, identico alla regione scandinava Skania, né lo è l’antroponimo Teuto, principe d’Innessa; il trade union per eccellenza è rappresentato piuttosto dal nome del dio o dell’Avo comune: Odhr, il furioso, il primo Druida, colui che, per primo, si confrontò con le forze ultrafisiche che lo ferirono sì, ma non lo spezzarono. Ci chiediamo se lo scandinavo Odhr-inn e il sikano Odhr-an siano la medesima divinità. A giudicare dall’aggettivo “furioso” utilizzato per delinearne il carattere, si direbbe che questi dèi  comunicassero con gli eredi umani attraverso violente e non meglio definite manifestazioni. Ma ciò che a noi interessa è il constatare che la genesi del druidismo si verifica in Scandinavia e che il primo druida porta l’aggettivo Odhr, che lo lega alla Sicilia. Il furore dello scandinavo Odhr-inn sarebbe diventato in Sicilia il furore dell’Avo, Odhr-An.

La presenza in Sicilia degli etnici Senone e Teuto, l’appellativo Ducezio, l’aggettivo Odhr, furioso, rinvenibile nel nome del dio Adrano e  poi ancora l’uso in Sicilia del tipico linguaggio runico o metafisico utilizzato dai Druidi e rinvenibile nel toponimo Ass-Hor (Assoro) costituiscono traccia della comune etnia e, di conseguenza, della comune mitologia tra Sicilia e l’Europa settentrionale. L’attribuzione alla mente di un potere creativo, che è un leit motiv druidico, è rinvenibile nel toponimo Mene (mente); nel suono runico ass che compone il toponimo Ass-or e che significa il “pronunziatore”, “colui che crea attraverso la parola” e fa sì che il potere del pensiero diventi materia. Secondo lo studioso Kenneth Meadows, nel linguaggio runico “ass esprime la capacità dello spirito di essere contemporaneamente dentro e fuori le cose create” e “rappresenta il potere che viene ricevuto ed espresso attraverso la mente”. Ass è la runa che simboleggia il dio scandinavo Odhr-inn.

Vaso con svastica esposto nel Museo di Caltanissetta

Vaso con svastica esposto nel Museo di Caltanissetta

Le comuni origini tra il sud dell’Europa, la Sicilia, e l’estremo nord, la Scandinavia, sono ancora tradite dal medesimo simbolismo, la svastica, la croce inscritta nel cerchio, ma anche dalla presenza dei Senoni, in Sicilia come in Svezia;  anzi, il nome della Svezia probabilmente deriva proprio da Svea rike, regno dei Sviones. Il termine Suiones viene utilizzato da Tacito e, in seguito, con la variante Sueones, da Adamo da Brera. Quando, poi, la coltre di ghiaccio provocata dal dio Angra Mainyu, secondo la tradizione avestica, seppellì la Scandinavia in tempi immemorabili, essi dovettero migrare verso sud, dove il “dio sole” continuava a splendere.


[1] Le variazioni di S in Z, P in F, B in P ecc. postulate da Grimm sono, a nostro parere, l’effetto di una peculiarità della pronuncia; si pensi al caso della c fiorentina pronunciata come h aspirata. In ambito germanico crediamo che sussistessero notevoli differenze di pronuncia tra gli Scandinavi e i popoli germanici del centro Europa, caratterizzati dal forte accento gutturale che impressionò Tacito. Una pronuncia addolcita e dunque palatale del nesso consonantico sc è tipica degli Scandinavi, mentre la pronuncia gutturale caratterizza i Germani. Il carattere distintivo della pronuncia quale spia di una diversa appartenenza etnica emerge anche da un aneddoto raccontato nell’Antico Testamento (Giudici 12,6): per scoprire l’identità dei fuggiaschi Efraimiti, i Galatiti ordinavano ai prigionieri di dire “scibbolet”; se pronunciavano sibbolet, venivano passati a fil di spada.

[2] Diodoro attesta che Ducezio nacque a Mene o Noa. Il lessema Noa è contenuto nel toponimo Bal-gonner-nau,  antico nome dell’attuale Palagonia, che significa “i signori (bal) protettori (gonner) dei naviganti (nau)”, con riferimento agli dèi Palici, il cui culto oracolare era esercitato presso l’antro che si trova esattamente a metà strada tra Mineo e Palagonia. Ducezio era il sacerdote di questo culto tanto che, quando prese le redini del comando militare al fine di riportare alla luce le antiche tradizioni dei Siculi\Sicani, minate dalla cultura greca, eresse, laddove vi era un semplice antro, uno splendido santuario a questi gemelli, santuario ancora in uso ai tempi di Diodoro, che lo descrive nei particolari.

[3] Cfr. Link.


DRUIDI CELTI E DRUIDI SICANI: OPPOSTE SCUOLE DI PENSIERO

È ora il caso di soffermarsi sulle differenti posizioni circa la nuova visione del mondo maturata dai druidi Sicani, fin dal primo momento del loro insediamento in Sicilia, rispetto a quella dei loro omonimi celti. Le differenze sostanziali circa l’interpretazione del proprio ruolo in seno al cosmo emergono dalla semantica di termini religiosi di probabile derivazione nordica e soprattutto dal simbolismo di svastiche, trinacrie, ruote solari, spirali, tutte caratterizzate da un moto apparente in senso antiorario. Sul significato della direzione del moto, verso sinistra o verso destra, si è già argomentato in vari articoli; qui si vuole porre l’attenzione sulla deliberata scelta evocativa, da parte dell’ordine religioso sicano degli odhr-an-iti, di adottare per l’isola di Sicilia il movimento simbolico del sole, da destra verso sinistra, scegliendo conseguentemente di attuare una politica di non belligeranza, di accoglienza, di sintonia con le forze armoniche che regolano l’universo.

I principi siciliani, scelti dai sacerdoti ed eletti dal popolo, vennero educati ed iniziati dai sacerdoti odhr-an-iti (Adraniti) al fine di conseguire un sapere, una capacità di autocontrollo che permettessero loro di destreggiarsi con successo fra le forze avverse. Questo atteggiamento emerge sia dal ripetersi insistente del simbolismo della trinacria e della svastica, caratterizzate da un apparente quanto evidente senso rotatorio antiorario[1],  impresse nelle ceramiche di probabile utilizzo religioso, collocabili forse per datazione in epoca sicana, sia dai pochi frammenti di versi, attribuibili ad antichi letterati, nei quali vengono narrate le gesta dei re sicani, da Cocalo e Iblone a Teuto. Tutti questi principi siciliani di epoca pre-greca, dei quali è certa l’etnia sicana, sono caratterizzati dall’esercizio del sacro istituto dell’accoglienza nei confronti dei supplici, non diversamente dai Suiones, come emerge dal racconto di Adamo da Brera e, circa un millennio prima, dalla narrazione di Tacito.

Cocalo e Iblone accolsero e ospitarono profughi di ogni ceto e derivazione geografica, permisero loro di insediarsi nel proprio territorio, di edificare le loro città e praticarvi i propri culti, anche quando questi erano antitetici circa la visione del mondo sicana, come nel caso dei Cretesi che, al culto dell’Avo (Ano) o alla predominanza dell’istituto sociale basato sul patriarcato, anteponevano il culto della madre e del matriarcato. Cocalo anticipò di millenni il concetto cristiano sintetizzato nell’espressione “ama il tuo nemico” tanto che, all’esercito nemico arrivato da Creta al seguito del re Minosse, il quale voleva rendere tributaria la Sicilia, egli, re magnanimo, dopo averlo sconfitto, senza imporre tributo di sangue, con acume e saggezza, offrì territori perché i nemici sconfitti potessero fondarvi città e istituire culti propri. Si comprende dunque quanto fosse radicato in Cocalo il concetto di tolleranza e quanto profonda fosse la conoscenza delle cose sacre se il re giungeva al punto da permettere ai nemici sconfitti libertà di culto.

Tale saggezza non può non essere messa in relazione con quanto avvenne in altre aree geografiche, come affermato nelle Cronache di Nestore. In queste cronache viene raccontato che quella vasta area geografica, oggi chiamata Russia (rus fu un soprannome dato ai soli Vareghi e poi, per estensione, ai popoli a loro sottoposti), nel Medioevo era un’area politicamente caotica e anarchica; pertanto fu chiesto ai Vareghi (nome derivante da vara fiume e gehen andare), cioè agli attuali Svedesi, allora chiamati anche Vichinghi, assieme a Norvegesi e Danesi, di inviare dei re al fine di governare saggiamente e col carisma dell’autorità, caratteristiche in loro innate, quei luoghi. I re\sacerdoti siciliani, a memoria d’uomo, non intrapresero nessuna guerra di conquista. Quando furono costretti ad impugnare le armi, lo fecero, come si comprende dal significato del nome Cocalo[2], solo per la difesa del territorio, un territorio scelto da dio per loro, avuto in dono direttamente dall’Avo divinizzato (Ano) in tempi che sfuggono alla cronologia umana, con il quale i Sicani avvertivano di formare un unico corpo.

Intenso era dunque il rapporto dei Sicani, come dei Druidi, con la natura. Ai Druidi era sacro l’albero della quercia; tuttavia Cicerone afferma che ad Adrano (citata nelle Verrine col suo precedente nome Etna) Apronio riceveva i suoi interlocutori nella piazza centrale, sotto l’ombra di un enorme olivo selvatico. La presenza di un olivo secolare nella pubblica piazza di una prestigiosa città non crediamo fosse  casuale, crediamo, piuttosto, che avesse un significato occulto, altamente simbolico. Infatti il simbolismo della pace collegato a quest’albero è antecedente all’avvento del Cristianesimo e la sua presenza nella città\santuario, del dio Adrano appare oltremodo coerente con il concetto metafisico della Sicilia quale terra di pace ed emanazione di Dio[3]. Inoltre, il fatto che quest’albero e la piazza che lo ospitava si trovavano nei pressi del santuario dell’Avo Adrano, come crediamo, carica il simbolismo dell’ulivo di un valore non dissimile da quello attribuito all’ulivo di Atene, protetto addirittura da guardie, in quanto nato dalla lancia di Atena. Come Atena, l’Avo Adrano era raffigurato in una statua con la lancia e nelle monete adranite ora con l’elmo, dunque in veste guerriera, ora con la testa cinta di rami (di olivo?) intrecciati, cioè in veste sacerdotale.

La collocazione dell’ “albero della pace” nella piazza adranita rientra nella particolare visione del mondo abbracciata dall’ordine sacerdotale degli odhr-an-iti (Adraniti), i quali utilizzavano il movimento antiorario e dunque augurale in antitesi rispetto a quello orario, foriero di eventi violenti. Ad Adrano, nella valle delle Muse, sulla parete di un levigato basalto sotto il quale scorre la fonte degli dèi Palici, alla fine dell’epigrafe su di esso incisa[4], è raffigurato un albero, con evidente riferimento simbolico ad un percorso iniziatico che doveva svolgersi a partire dalla fonte su menzionata. Inevitabilmente il pensiero corre anche all’albero della conoscenza della mitologia nordica, nel quale Odino esegue la propria impiccagione iniziatica. All’ulivo, Omero fa riferimento nell’Iliade quale albero di buon auspicio, che sancisce legami affettivi, tanto che Ulisse ricava il proprio talamo dal tronco di un ulivo secolare, non sradicato, attorno al quale aveva edificato la propria camera da letto. Stazio, nella sua opera, l’Achilleide, descrive Ulisse mentre si reca alla corte di Licomede per convincere Achille a dare il suo contributo nella guerra contro Troia, “portando un ramo d’ulivo e parole di pace”. 

L’affinità tra i Sicani e i popoli nordici emerge anche da altri elementi. Sul letto del fiume Simeto, presso Adrano, sede del culto degli dèi Palici, si trova un grande masso di arenaria, simile ad un’isola, con delle incisioni assimilabili a gradini che conducono fino alla sua sommità, dove vi sono due vasche. Si ritiene che questo sito fosse utilizzato sia per celebrare i sacrifici in onore degli dèi Palici e sia per  l’intronizzazione del re eletto dall’assemblea. Infatti, presso tutti i popoli nordici era abitudine che i re eletti, per giurare e ricevere il sacro mandato di governare, si recassero presso una sacra pietra collocata naturalmente in una grande vallata. La pietra su cui saliva il re germanico faceva da palco, essendo visibile dall’intero Thing (assemblea), che inneggiava alla sua elezione; vogliamo immaginare che anche Timoleonte venisse eletto all’unanimità condottiero dai Siculi della Sicilia, chiamati a raccolta presso il grande sasso della valle delle Muse. A Upsala, in Svezia, si è conservata memoria di questa pratica ancora in tempi relativamente recenti. Se Upsala fu il centro sacro della Svezia, Adrano lo fu della Sicilia.

Ancora, se è vero, come riteniamo, che nella famosa stele adranita del Mendolito[5] la sequenza sillabica teuto faccia riferimento al famoso re omonimo, si aggiunge un ulteriore elemento che conferma la presenza druida in territorio sicano. Infatti non si può non accostare il nome del principe d’Innessa, Teuto, alla divinità celta Teutates, dio della guerra, della fertilità e padre del popolo celta. Si tenga conto inoltre che la fonte degli dèi Palici, ove è incisa l’epigrafe e l’albero, l’epigrafe sulla stele ove viene citato il principe Teuto e il grande sasso sul fiume insistono tutti nella medesima area.

I RE MITICI DELLA SICILIA

Per comprendere l’atteggiamento di questi re pacifici siciliani è necessario fare la comparazione con le due classi sociali presenti in Gallia di cui ci parla Cesare, quella dei cavalieri e quella dei sacerdoti. Appare evidente che in Sicilia, almeno nel caso di Cocalo, queste due classi si incarnano nel medesimo uomo, possibilità riconosciuta dallo stesso Cesare per i Galli. Il romano afferma ancora che, fra i sacerdoti, solo uno stava nella posizione più alta del comando, a cui tutti obbedivano. Alla sua morte vi succedeva chi aveva acquisito meriti maggiori. A noi sembra, questo, il caso concretizzatosi in Sicilia con il principe Ducezio, il quale viene investito nel medesimo tempo, del potere temporale e di quello spirituale, al punto da costruire santuari e dichiarare guerra ai nemici, con la medesima autorità.

MAGIA

Diogene Laerzio era a conoscenza di un libro sulla magia praticata dai Druidi. Siamo certi che, se un tale libro esisteva, non era stato scritto dai Druidi o, se lo avevano fatto, questi non avevano più nulla in comune con quei primi Druidi che affidavano solo alla forza della mente la memoria di ogni sapienza. Strabone, già nella sua epoca ( a cavallo tra I sec. a.C. e I d.C.), fece riferimento alla degenerazione del ruolo sociale dei Druidi, al punto che Augusto proibì le pratiche druidiche, sicché nessun romano avrebbe potuto accostarvisi. Cesare afferma che per i Druidi era sacrilego mettere per iscritto le loro conoscenze e ciò, probabilmente, a motivo della loro considerazione circa l’indole umana. Sapevano, infatti, che la divina conoscenza, posseduta da infimi individui, sarebbe potuta diventare un’arma a doppio taglio, nella migliore delle ipotesi sarebbe potuta diventata opera innocua, utilizzata, per sbarcare il lunario, da fattucchiere come Sagana e Canidia, che Orazio prende in giro nella Satira VIII

Se oggi il nome magia veicola un senso di diffidenza e paura verso chi la pratica, tuttavia un tempo essa fu  sinonimo di conoscenza e scienza, quest’ultima applicata soprattutto allo studio degli astri. I Magi che andavano in giro per la Palestina alla ricerca di un grande re nascituro, erano astronomi e nei Vangeli vengono definiti re. Anche in Persia, al tempo di Zarathustra, è attestato il temibile mago Akt. I Druidi dunque, come i loro “colleghi” maghi, furono tra i primi studiosi della volta celeste. Come non attribuire a loro, pertanto, la presenza dei capitelli rinvenuti ad Adrano, ove sono incisi il calendario solare, quello lunare e le spirali simbolo delle galassie? Cicerone, nelle Verrine, afferma che i Siciliani utilizzavano ancora al suo tempo il calendario solare e quello lunare. Per ciò che concerne l’attività principale esercitata dai nostri sacerdoti adraniti, essa è tradita dal significato del loro stesso nome: “Gli evocatori (heitan, iti) del furore (odhr) dell’Avo (An)”. Certi che il termine di paragone sarà efficace, possiamo dire che il “furore divino” o “ispirazione” evocato dagli adraniti era l’equivalente dello spirito santo evocato dai primi apostoli, grazie al quale si otteneva la conoscenza. Con il termine  Odhr, come il suono onomatopeico lascia immaginare, s’intendeva evocare una forza temibile che, una volta “domata”,  fosse sottoposta al servizio dell’operatore. È possibile definire gli evocatori dell’odhr dei temerari che osavano sfidare la più pericolosa delle manifestazioni divine, per imbrigliarla e ridurla al proprio potere. Ciò è evidente nell’Avesta, ove Zarathustra manifesta il suo timore nei confronti della Drui.

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Le norne che tessono i fili del destino ai piedi dell’albero Yggdrasil

Sull’uso positivo che i sacerdoti sicani fecero del “furore divino” non è il caso di ripetersi, in quanto abbiamo sopra sostenuto che esso trapela dal verso antiorario dei simboli religiosi della trinacria e  della svastica. Possiamo aggiungere, onde riallacciarci alle comuni origini con gli Scandinavi, che Odhr-inn, secondo il mito norreno, offrì l’occhio sinistro quale sacrificio per trascendere la morte. Fuor di metafora, l’Avo divinizzato scandinavo aborrì la violenza, comunemente attribuita al lato sinistro e definita in ambito esoterico come via della mano sinistra. Poiché la provenienza da destra ha valore augurale, Odino, rimanendo simbolicamente solo con l’occhio destro, acquisì l’onniscienza e la saggezza. Si comprende allora perché il popolo svedese dei Senoni – discendenti di Odino e progenitori dei Galli Senoni di cui parla Cesare e dei germanici Semnoni attestati da Tacito – fu così denominato: Senoni, derivando dai lessemi  sehen (vedere) e nor (destino), significa “coloro che vedono il destino”.

Avendo fatto Odino la scelta di perseguire la “via della mano destra” e di prodigarsi per il bene dell’universo, gli scandinavi, constatato che l’Avo divinizzato aveva agito a prezzo di sacrifici personali, lo onorarono quale dio guaritore che aveva come suo unico scopo il bene di tutti. Crediamo che gli Odhr-an-iti, perseguendo i medesimi obiettivi, si adoperassero al fine di mantenere l’equilibrio cosmico, atteggiamento rinvenibile nel simbolismo della doppia spirale incisa nei manufatti e che ricorre con inusitata frequenza in tutto il territorio siciliano.  


[1] Il concetto negativo espresso dal movimento che va da sinistra verso destra è contenuto nel termine sce (sinistra). Sceleratus viene definito ad esempio da Cesare chi veniva escluso dal culto dai sacerdoti druidi. Il termine è composto da scee (sinistra), hell (cielo, luogo sede di forze metafisiche) e rat (consiglio); pertanto può essere approssimativamente tradotto come “colui che è mal consigliato da forze metafisiche sinistre”. I Druidi avevano il compito di istruire i re sicani affinché questi, al momento opportuno, opponessero il proprio retto discernimento a quello sinistro suggerito dalle forze antagoniste.

[2] Cocalo, nome composto da kù (vacca, simbolo di ricchezza e comando) e kalla (chiamare), significa “colui che è stato chiamato a regnare”. Anche in Irlanda esistette un re,  Cuchulainn, a cui un pericoloso antagonista tento di sottrarre il regno, come aveva fatto Minosse con Cocalo. 

[3] Cfr. Link.

[4] Link.

[5] È d’obbligo informare i lettori che l’interpretazione dell’epigrafe è stata da noi effettuata lavorando su una riproduzione della stessa effettuata e data alle stampe dagli accademici. Solo da qualche mese abbiamo preso personalmente e direttamente visione della stele, esposta al museo di Siracusa. Abbiamo notato, con grande stupore, che l’iscrizione fornita dagli studiosi è incompleta. Infatti, alcune lettere incise sul margine superiore e laterale della stele, non visibili da una prospettiva frontale, sono state omesse. La conseguenza che ne deriva è che, pur rimanendo certi di non aver fallito sul significato delle singole parole, l’interpretazione globale dell’epigrafe da noi fornita potrebbe essere rimessa parzialmente in discussione.


 

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– Francesco Branchina