Sognava di costruire un violino da quando era bambino. È diventato liutaio a ottant’anni suonati. I suoi strumenti sono piccoli capolavori. Alcuni sul dorso sono decorati con intarsi raffinati. Nel laboratorio ricavato nel grande scantinato di quello che un tempo è stata la sua fabbrica di mobili, arrivano con il passaparola artisti italiani e stranieri. Non scherza quando, strizzando gli occhi azzurri e vivaci, dice: «Roba unica al mondo. Sfido tutti». Cresciuto in una famiglia di falegnami da tre generazioni, Pietro Grasso a sedici anni prese il treno ad Adrano, il suo paese alle falde dell’Etna in Sicilia, diretto a Cantù, il «paradiso» dei mobili. Si fermò prima, a Meda, e qui nel regno dell’ebanisteria, forgiando mobili intagliati in stile Luigi XV, da garzone di bottega è diventato imprenditore.
Ha avuto successo Pietro Grasso, oggi 86enne. Ha cresciuto e sistemato cinque figli, e quindici anni fa s’è finalmente ritirato ad Andora, in Liguria, da pensionato, pensando di godersi la barca, la casetta al mare e il tempo libero. Macché. «Un giorno in un negozio d’antiquariato ho visto due vecchi violini — racconta —. Sono entrato e li ho comprati. Da ragazzino, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale che ci rese poveri, andavo a lezione di violino e in modo rudimentale mi ero costruito una specie di strumento, con i pezzi che mi aveva regalato un anziano liutaio del paese. Avevo e mi è rimasta una passione smisurata per il suono».
Lavora giorno e notte quando inizia un nuovo strumento. È consapevole che qualcuno delle grandi scuole di liuteria storcerà il naso, perché Pietro fa di testa sua e non ha timori a dirlo. «Se di qualcosa dobbiamo discutere, discutiamo del suono». Il suo è perfetto. Tratta i legni destinati a trasformarsi in strumenti i musicali come trattava quelli per i suoi mobili intarsiati. Ha un trucco per uccidere i parassiti, per asciugare le colle, per «purificare» il legno togliendo tracce di ferro, rame e far cantare quei pezzi di materia prima non ancora forgiati. Dove vuole arrivare Pietro? «Me lo sono chiesto più volte, penso di voler arrivare a far riconoscere questi strumenti. Non seguo la scuola cremonese, persino la forma che uso io è tutta un’altra cosa. Ma i tempi cambiano, bisogna migliorare. E sperimentare».
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