Chi ci ha seguito fin qui ha imparato a conoscere il metodo d’indagine storica di cui ci avvaliamo. Esso, a causa dell’assenza di fonti storiche dirette che riguardano il periodo pre-greco, si basa sull’utilizzo di diverse discipline scientifiche, tra le quali assume un ruolo preponderante la toponomastica. Si pensi, per esempio, al nome del fiume siciliano Simeto; la sua prima citazione risale al poeta latino Virgilio ed ancora, dopo duemila anni, esso conserva lo stesso nome. La toponomastica, come abbiamo sostenuto più volte, da sola potrebbe spiegare l’intera visione del mondo di un popolo. Gli antichi nostri Avi avevano l’abitudine di dare ai luoghi di insediamento nomi che spiegavano il motivo, lo scopo per il quale erano stati scelti. Il nome di Kamico, a nostro avviso, ricade in questa consuetudine.
Dando per acquisita la tesi, ormai nota ai nostri lettori, dell’appartenenza della lingua sicana alla componente indoeuropea e della sua affinità linguistica con le attuali lingue nord europee, applicheremo il nostro solito metodo interpretativo all’analisi del nome della città sicana di Kamico. Trattasi di un nome composto, formato dall’accostamento del lessema Kam, col significato di venire, giungere[1] , e del pronome personale ik, io; il significato del nome dovrebbe avvicinarsi pertanto a “giunsi” o “venni”. Il nome della fortezza di Kamico, la cui costruzione viene ordinata da re Kokalo, spiega, a nostro avviso, il ruolo esercitato nella comunità sicana da questo re. Nel nome è nascosto dunque il motivo dell’edificazione dell’edificio, che, secondo la comune interpretazione, è solo una postazione fortificata.
[1] Potrebbe trattarsi anche del lessema Kamm che, nella lingua tedesca attuale, significa cresta, orgoglio. Anche questa ipotesi è plausibile, in quanto l’io collettivo si identifica con l’orgoglio di appartenenza ad una stirpe.
Il re Kokalo fu infatti un re/sacerdote e, nel momento in cui decise di affidare la costruzione della fortezza di Kamico all’insigne architetto Dedalo, certamente pensava ad una duplice finalità dell’edificazione, sacra oltre che militare. Siamo certi, infatti, che il celebre architetto fosse un costruttore di opere realizzate per fini sacri, trascendentali, edificati in luoghi ove si compivano le iniziazioni ai misteri e nei quali le caratteristiche naturali del sito venivano esaltate da quelle architettoniche, amplificando le potenziali forze extrafisiche ivi presenti. A questo dovette servire il labirinto cretese di Knosso e la reggia siciliana di Kokalo a Kamico[2]. La stessa impresa attribuita dal mito a questo architetto cretese, quella di volare, si presta ad una lettura in chiave esoterica di tale tentativo umano di spiccare un salto verso l’alto, distaccandosi dal suolo e dalla caducità, liberandosi dalle stampelle e dai pesi che lo trattengono nella materia, in basso. Andando ancora in là con la fantasia, possiamo immaginare che Dedalo, fuggendo da Creta, nota per la sua visione matriarcale del mondo (Erodoto affermava che i Cretesi chiamavano Matria la propria Patria), e venendo in volo in Sicilia, avrebbe abbandonato la cultura matriarcale della propria “Matria”[3] per abbracciare quella patriarcale[4] della società siciliana. Dedalo fuggiva dalla “Matria” Terra sorvolando il “Patrio” Cielo.
Indagando meglio sugli aspetti metaforici del ruolo interpretato da Dedalo a Creta e poi in Sicilia, ci sembra cogliere delle affinità con Merlino, così come le imprese di Kokalo, assistito da Dedalo, appaiono affini a quelle di Artù e parimenti finalizzate a sconfiggere le ingiustizie e gli oppressori. Il ruolo esercitato da Dedalo nella definitiva sconfitta del tiranno Minosse, avvenuta in Sicilia, ha i suoi prodromi a Creta. Infatti, a Creta l’architetto avrebbe imprigionato nel famoso labirinto di Knosso il Minotauro, nato da un rapporto innaturale della moglie di Minosse con un toro (fuor di metafora, con il simbolismo del toro si indica la tirannide esercitata da Minosse).
Il fatto che Dedalo, secondo il mito, avesse costruito per Minosse un’enorme vacca di legno, dentro la quale la moglie di questi, Pasifae, si sarebbe accoppiata col leggendario toro, sta ad indicare metaforicamente come il regno di Minosse, nato sotto felici auspici, si fosse trasformato in tirannide dietro istigazione della propria moglie, simboleggiata dal toro e dal Minotauro. Il grande architetto del labirinto, all’interno del quale venivano richiuse, fuor di metafora, le velleità tiranniche del re Minosse, doveva essere ritenuto in possesso di quella stessa arte muratoria detenuta in Egitto dal dio Tot, in Grecia da Ermes, in Cina dagli esperti costruttori del primo imperatore Yü e dal grande architetto dell’universo dei Massoni. Dedalo costruisce le sue opere sulla terra perché esse siano lo strumento per coloro che ambiscono a volare, per coloro che hanno l’ardire di intraprendere un’ascesa metafisica: egli edifica per i re e arte regia potrebbe essere definita la sua prestazione. Se abbiamo colto correttamente la metafora cretese, Dedalo crea un labirinto per imbrigliare le funeste forze tiranniche messe in atto da Minosse, simboleggiate dal Minotauro, e per favorire il principe Radamanto. Scoperto il complotto, Dedalo è costretto a fuggire per andare in Sicilia, ove edifica, per il re sicano Kokalo, la superba reggia di Kamico al fine di consentire al re di captare le vaganti e fauste forze degli Avi.
[2] La grande Piramide è stata definita un libro di pietra per i numerosi parametri matematici scoperti in seno ad essa. In tempi recenti, di fronte al pericolo britannico, il re del Myanmar Mindon, temendo che gli Inglesi potessero distruggere i codici della dottrina buddista, incisi su foglie di palma, le fece incidere su 729 tavolette di marmo e su ognuna di esse fece edificare una pagoda, formando un complesso di templi definito il libro di pietra più grande al mondo.
[3] La patria di Dedalo era la Grecia, che l’architetto dovette abbandonare in seguito ad un omicidio da lui commesso. A maggior ragione, dunque, il nostro architetto mal si sarebbe adattato nella società cretese, ove il matriarcato era in palese contrasto con la propria formazione culturale patriarcale.
[4] Nella città di Innessa, poi denominata Etna ed infine Adrano, regnò, come attestato da Polieno, il principe Teuto. Trattasi di un antroponimo, che significa Padre della Patria. Quello che in origine era un titolo, venne poi utilizzato come nome di persona, con le dovute varianti linguistiche per aree geografiche. Nel Lazio si sarebbe trasformato in Tito.
IL SIGNIFICATO DEL NOME KAMICO
Poiché la scelta del nome della reggia del re, Kamico, non è che la conseguenza di una visione del mondo di Kokalo, dovremo cercare di comprendere quale fosse la cultura sicana e in che modo essa determinava la formazione dei re. Crediamo che il re venisse “formato” per il ruolo rivestito da una casta sacerdotale detentrice di una conoscenza che spaziava su ogni ramo del sapere.
I re egizi, sumeri, babilonesi ed ancora quelli, almeno i primi due, dell’antica Roma, rappresentavano il vertice assoluto della piramide sociale. Solo il re poteva fare da ponte tra Cielo e Terra, tra il visibile e l’invisibile. Prima che si verificasse la scissione dell’“Uno” e avvenisse la separazione tra il sacro e il profano, erano i re a celebrare il sacrificio in onore del dio nazionale, dell’Avo. Presso i Galli, come apprendiamo da Cesare, il druida era il capo indiscusso della casta sacerdotale e talvolta poteva essere eletto come guida militare del popolo.
Nel caso del re sicano Kokalo possiamo facilmente dedurre che egli si trovasse ad essere investito re in un momento di crisi per l’intero popolo Sicano, crisi addebitabile agli appetiti di conquista del re cretese Minosse. Su questo episodio, cruciale per l’avvenire dell’isola, allora chiamata Sicania, è stato raccontato assai poco dagli storici greci, un silenzio sospetto ma spiegabile alla luce di un bieco nazionalismo, mal celato dallo storico Dionigi di Alicarnasso che, per l’appunto, intimava agli storici greci di tacere tutto ciò che non faceva onore al prestigio greco, al punto da rimproverare a Tucidide di aver raccontato la guerra del Peloponneso, in quanto episodio vergognoso della storia greca. Diodoro, Erodoto, Platone fanno solo brevi accenni all’ingordigia del re Cretese, che intendeva sottomettere l’intero Mediterraneo. Tuttavia, nonostante i silenzi degli storici antichi, non è difficile immaginare che le mire espansionistiche di Minosse non riguardassero solo il regno di Kokalo ma l’intera Sicania[5], motivo per cui il pericolo cretese dovette allarmare tutti i re sicani dell’isola. Se il re cretese non fosse sceso a patti con i pacifici isolani, probabilmente il re Kokalo sarebbe stato eletto dai principi sicani come coordinatore delle operazioni militari contro Minosse. L’isola, se dobbiamo dare retta a Omero e se consideriamo attendibile la tesi secondo la quale la terra dei Feaci si identifica con la Sicilia[6], nel periodo in cui regnarono Kokalo e Alcinoo, era governata da tredici principi; infatti il re dei Feaci Alcinoo, nell’Odissea, afferma che la sua terra, che noi riteniamo essere identificabile con la Sicilia, era governata da dodici principi e lui era il tredicesimo.
In merito alla tesi della contemporaneità dei regni dei due re siciliani, si accenna al fatto che Alcinoo, nell’Odissea, vantando le capacità nautiche dei Feaci, afferma di aver ospitato Radamanto, fratello di Minosse, per poi ricondurlo in un solo giorno, grazie all’abilità dei suoi marinai, sano e salvo in patria. I motivi della visita del principe cretese Radamanto non vengono esposti da Omero, ma non è difficile dedurli. Infatti Minosse, fratello di Radamanto, con un atto di forza si era impossessato dell’intero regno dell’isola di Creta, ereditato assieme agli altri due fratelli, costringendo il fratello Radamando a fuggire dall’isola. Radamanto chiede pertanto ospitalità, e forse aiuto militare, ai Feaci onde riprendersi il regno usurpato dal fratello. Nello stesso tempo, in un’altra provincia della Sicilia, il principe Kokalo dava ospitalità a Dedalo, anch’egli fuggito da Minosse. È lecito dunque pensare che i due fuggiaschi fossero salpati contemporaneamente da Creta per venire in Sicilia, alla ricerca di un’alleanza con i principi sicani dell’isola. Forse i due cretesi iniziarono i contatti in Sicilia cominciando dai due principi sicani più rappresentativi: Alcinoo a Siracusa e Kokalo ad Agrigento. Minosse, venuto a conoscenza delle mosse del fratello, a sua volta tenta una contro mossa, recandosi con un poderoso esercito in Sicilia. Il re, se da un lato vuole creare, con la presenza del suo esercito, un deterrente psicologico nei confronti dei re sicani onde evitare un’alleanza anti cretese, dall’altro lato non esclude il tentativo di sottomettere la Sicilia, così come aveva fatto già con l’Attica e molte isole greche.
Dopo aver ipotizzato, utilizzando e integrando le notizie fornite dagli antichi storici, la ricostruzione di una pagina della nostra storia isolana, osiamo addentrarci nell’impervia via delle intuizioni metastoriche, onde tentare di penetrare nella divina mente dei religiosissimi nostri Avi, pregandoli di esserci da guida in questa via onde evitarci di commettere sacrilegio.
[5] “Si racconta, infatti, che Minosse, giunto in Sicania (che ora si chiama Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta. Passato un po’ di tempo, per incitamento d’un dio, tutti i Cretesi, in massa, eccetto quelli di Policne e di Preso, venuti con una grande flotta in Sicania, avrebbero assediato per cinque anni la città di Camico, che, ai tempi miei, era abitata da Agrigentini. Alla fine, però, non riuscendo a conquistarla, né a rimanere più a lungo a lottare con la fame, se ne sarebbero andati abbandonando il campo”. (Erodoto – Storie– VII, 170)
[6] Sulla ubicazione in Sicilia dei Feaci rimandiamo all’articolo: https://obbiettivoadrano.it/la-sicilia-pre-ellenica-i-feaci-e-la-fondazione-di-sicher-usa-siracusa-2/.
IL NOME COME FORZA EVOCATIVA
Abbiamo sostenuto che il significato di Kamico è “io giunsi”, dal verbo Kam venire e dal pronome ik, io. Crediamo che il pronome personale si riferisse ad una entità o forza sovrumana discesa dall’alto, forse quella stessa forza che aveva scongiurato il concretizzarsi dei programmi egemonici sulla Sicilia da parte di Minosse. Alla luce di tale affermazione, la fortezza di Kamico[7] assume sempre più le sembianze di un santuario, senza per questo escludere la sua funzione coesistente di roccaforte militare. Infatti la dicotomia fra sacro e profano, come affermato sopra, ha radici piuttosto recenti dal momento che per i nostri antenati ogni manifestazione divina rappresentava soltanto un singolo aspetto dell’uno primordiale, cosicché nella religione giudaica il divino poteva essere conosciuto attraverso uno dei suoi settantadue nomi, quello di Jahvè, e secondo Zaratustra con il quarantesimo, quello di Ahura Mazda.
Ma alla convinzione che l’altura di Kamico fosse utilizzata come un’antenna, con lo scopo di attrarre le forze degli avi che aleggiavano libere sull’isola, siamo giunti anche grazie al contributo fornito dal grande ermetista Giuliano Kremmerz, il quale sostiene che “un dio è il Kamarupa (ovvero l’Io) di tutto un popolo”[8] e diviene tale grazie all’incarnazione delle forze Kamiche del suo popolo. Le forze Kamike cui fa riferimento il Kremmerz non possono non essere messe in collegamento con il significato espresso dal vocabolo sanscrito Karma, con cui nella religione indiana si indica un agire volto ad un fine. Il karma[9] innesca un’attivazione del principio causa-effetto, mette in atto la legge secondo la quale l’agire coinvolge gli esseri nella fruizione delle conseguenze morali che ne derivano. Il vocabolo Karma può, dunque, essere tradotto come “atto”, “azione”, “compito”, “obbligo”.
Ma se Kamico, secondo la nostra traduzione, significa “io venni”, il suo corrispondente sanscrito, Kamala, dovrebbe significare “tutto giunse”, da kam e alla, che significa tutto, con riferimento al potere o alla particolare forza evocata. Non sarà un caso che la baia di Kamala, in Thailandia, è circondata da una leggenda che racconta di un regno favoloso e di un popolo straordinario. Hermann Hesse, famoso scrittore di romanzi metafisici, da profondo conoscitore della lingua sanscrita, attribuisce consapevolmente il nome Kamala all’Etera e istruttrice del giovane principe Siddharta nel romanzo omonimo. Kamala, nel romanzo di Hesse, rappresenta a nostro avviso la materializzazione della forza tantrica che avviluppa il giovane Samana Siddharta. Nella realtà storica tibetana, invece, al fine di diffondere il Buddhismo, nel VIII secolo venne inviato in Tibet un missionario di grande carisma proveniente dall’India dal nome Kamalasita. Ed ancora, con il sacro il termine Kamlanie, si suole indicare, presso le tribù della Siberia, una seduta sciamanica. Durante queste sedute lo sciamano, attraverso invocazioni e preghiere, invita lo spirito evocato a “venire” presso il focolare acceso dentro la iurta (una tenda rotonda, elevata per l’occasione). Crediamo che sia dovuto alla frequente ripetizione del verbo venire (kam), utilizzato dallo sciamano quale invito diretto allo spirito evocato a partecipare alla seduta, che in lingua turco-tartara lo sciamano viene chiamato Kam ed in mongolo Kami.
Alla luce di quanto sopra affermato, potremmo definire Kokalo, se non proprio un Teurgo (il Teurgo è, secondo Kremmerz, colui che forma gli dèi o che attrae le forze, facendole manifestare), almeno un sacerdote d’alto rango, quali furono altri re o principi sicani, come li definisce Diodoro Siculo, quali Arconide e Ducezio. Del resto, come confermato anche da Cicerone, i re dei primordi, in tutte le parti del mondo conosciuto, da Roma all’India, dalla Persia alla Mesopotamia, erano istruiti nell’arte divinatoria ed in molti casi erano essi stessi sacerdoti. Questo è quanto afferma Cicerone:
“Nei tempi antichi i sovrani erano anche maestri di arte augurale: consideravano come una dote regale la divinazione al pari della sapienza nel governare. Ne è testimone la nostra città (Roma), nella quale dapprima furono àuguri i re, poi alcuni privati cittadini, muniti di questa stessa carica sacerdotale, governarono la repubblica con l’autorità promanante dalle credenze religiose. (…) né alcuno può essere re dei persiani se non ha prima appreso la pratica e la scienza dei maghi”
Cicerone, De Divinazione Lib.I.
Alla luce di quanto sopra sostenuto dall’autorevole Romano in merito alla spiritualità degli antichi re e di quanto emerso circa la collocazione del termine germanico cam o del sanscrito cama nel campo semantico della spiritualità, con particolare riferimento alla contemplazione, alla meditazione religiosa, si può concludere che il santuario di Camico fosse per Cocalo un luogo di meditazione. Il pronome ik – io, contenuto nel toponimo allude ad un io interiore, il verbo cam – venire fa riferimento al sopraggiungere di un nuovo stato spirituale, realizzato grazie ad una volontà di ricongiungimento. Camico, per il re sacerdote Cocalo, rappresentava il luogo ideale ove l’io si ricongiunge al sé, realizzando un profondo raccoglimento interiore e liberando l’io.
La nostra interpretazione del significato del nome Kamico è coerente con la teoria secondo la quale Kokalo avrebbe fatto di tale fortezza-santuario il luogo di irraggiamento della protezione spirituale degli Avi all’intera Sicilia, il luogo dal quale sarebbe stato possibile evocare la materializzazione dell’io collettivo, dalle sembianze divine, del popolo. Del resto, il Sicano si sentì sempre parte del divino; non a caso il nome Sicano deriva da sik–Ano cioè “dio in sé”[10]. I Sicani consideravano il dio Adrano il proprio Avo, il capo della stirpe, il primo uomo, colui che era asceso agli dèi rendendosi a loro simile. Il teurgo Kokalo non faceva altro che invocare, richiamare, appellarsi alla parte divina del popolo sicano, alle sue origini divine ereditate dall’Avo. I Sicani, dunque, in quanto eredi di Anu, dell’Avo, erano vincolati dal proprio Karma e l’io individuale convergeva in quello dell’intero popolo. Il compito del re Kokalo veniva pertanto facilitato dal fatto che egli seminava in un terreno ricco di humus religioso. Non sapremo mai se attribuire più al valore delle armi o al potere carismatico dei Sicani e del loro principe il fatto che il più potente re del Mediterraneo, Minosse, venisse sconfitto, a detta degli storici antichi, senza che venisse combattuta una vera e sanguinosa battaglia campale.
[7] Nell’Antico Testamento, in II RE 23,13 e I RE 11,71 si legge: “Fu allora che Salomone costruì, sul monte che sta di fronte a Gerusalemme, un alto luogo per Camos”, dio bellicoso dei Moabiti; emergono, da tale citazione, le affinità linguistiche e culturali tra Filistei e Sicani. Sul tema cfr. Francesco Branchina, Il Paganesimo di Gesù, Ed. Simple.
[8] Giuliano Kremmerz, La sapienza dei Magi. Il mondo segreto, Fratelli Melita, vol. I, p. 85
[9] Da Wikipedia. Karma (adattamento del termine sanscrito trascritto come kárman o più comunemente karman), è un termine d’uso nelle lingue occidentali traducibile come “atto”, “azione”, “compito”, “obbligo”, e nei Veda inteso come “atto religioso”, “rito”. Il karma indica, presso le religioni e le filosofie religiose indiane, o originarie dell’India, il generico agire volto a un fine, inteso come attivazione del principio di “causa-effetto”, quella legge secondo la quale questo agire coinvolge gli esseri senzienti nella fruizione delle conseguenze morali che ne derivano, vincolandoli.
[10] In merito alla lingua sicana, cfr. https://obbiettivoadrano.it/jam-akaram-la-lingua-dei-sikani-e-il-sacro-ruolo-degli-adraniti-2/.
KOKALO COME NUMA
Diodoro Siculo racconta che Minosse venne ucciso attraverso un escamotage messo in atto dalle figlie del re sicano. Crediamo che Diodoro (Biblioteca Historica, lib. XII, 71) abbia preso troppo alla lettera ciò che il racconto metaforico voleva veicolare a proposito del potere carismatico del re siciliano Kokalo. Il linguaggio dei poeti, dei sacerdoti sicani non differiva da quello dei bardi celti, degli Aedi greci, del Mago Akt, citato nell’Avesta, che parlava agli interlocutori attraverso indovinelli, non era dissimile da quello utilizzato dai Rs (saggi) Veda, i quali raccontavano della nascita dell’universo utilizzando metafore di tipo alimentare e allegorie di smembramenti di divinità, non era diverso da quello evangelico di Gesù, che si esprimeva attraverso parabole. Crediamo che, attribuendo alle figlie di Kokalo il successo dell’impresa, si volesse alludere metaforicamente alla sapienza, alla religiosità e, perché no, all’astuzia del re siciliano, qualità figlie della sua mente e del suo spirito, grazie alle quali aveva conseguito la vittoria sulle forze disgregatrici che rischiavano di smembrare l’isola sicana.
Secoli dopo, in un’altra area geografica dell’Italia, si sarebbe diffusa la convinzione che Numa Pompilio, secondo re di Roma, scelto per la sua grande religiosità e saggezza, fosse solito andare nel bosco per prendere consiglio dalla ninfa Egeria, che si diceva fosse diventata sua moglie, al consiglio della quale si doveva, tra l’altro, il cambiamento apportato dal nostro re al vecchio e inesatto calendario romano. Anche di Socrate si diceva che avesse avuto una donna come istruttrice nella sua iniziazione alla filosofia. Neppure il linguaggio moderno è alieno di metafore simili, evidenti ad esempio nella nota espressione secondo la quale la violenza è figlia dell’odio. Nella mitologia sicana si fa sovente riferimento alle ninfe, che giocano un ruolo importante nella vita di re ed eroi. Di queste ninfe siciliane, delle fonti o degli oceani o dei monti, si conoscono pochi nomi, i più noti sono quelli di Aretusa e di Etna-Talia. Forse che il progetto dell’esoterista Dedalo mirava a fare di Kamico la sede di queste forze femminili, definite figlie del re, che avevano il nome di Saggezza, Conoscenza, Astuzia?
Come sostenuto sopra, sono numerosi nella storia della civiltà i santi, gli eroi e i filosofi che si accompagnavano con donne dalle quali traevano ispirazione; ai già citati Socrate e Numa si possono ancora aggiungere Simone detto il Mago, Gesù, Salomone con le sue mille mogli, re Davide e tanti altri. Va notato che la metafora dei figli riguarda, non a caso, tutti e tre gli eroi coinvolti nella parte di storia siciliana oggetto di questa nostra trattazione. Tutti e tre hanno un figlio il cui nome rispecchia il carattere, il modo d’essere dei nostri protagonisti: Dedalo concepisce Ikaro cioè, fuor di metafora, la nobiltà. Nobiltà che il giovane poi perde, visto che precipita per la sua imprudenza, caratteristica celata nel nome stesso di Dedalo. Il nome, infatti, deriva da un termine della lingua nord europea di cui rimane traccia nell’attuale tedesco dahle, vocabolo che fa riferimento ad un individuo che agisce senza accortezza, proprio come sembra che abbia agito Dedalo a Creta nei confronti di Minosse. Ikaro è invece un nome composto da Ik, che significa io, e Ario, che significa nobile. È lecito supporre che la nobiltà di spirito posseduta da Dedalo gli avesse impedito di prestare i propri servigi di architetto al re cretese, che assumeva sempre più i tratti di un tiranno, e per questo motivo Dedalo si sarebbe successivamente recato alla corte di un re in odor di santità quale era Kokalo, offrendo a lui i propri servigi e mettendo a disposizione la propria scienza, nella certezza che il re sicano ne avrebbe fatto buon uso. Minosse – il cui nome, formato dai lessemi Min mente ed Hass odioso, rancoroso, allude chiaramente ad un uomo malvagio, coerentemente con la tradizione greca che raccontava di un Minosse despota e violento – concepisce il Minotauro, ossia una “mente tirannica” (da Min, mente, e stier, toro). Non si conoscono i nomi delle due figlie metaforiche di Kokalo, ma non facciamo fatica ad immaginare che essi fossero Saggezza e Astuzia, qualità grazie alle quali il re aveva impedito che si combattesse una guerra sanguinosa fra due popoli e due civiltà.
Non sorprenda il riferimento alle figlie metaforiche del re siciliano, dal momento che, nel periodo in cui “tutto il mondo condivideva la stessa cultura”, come sostenuto da Sua Divina Grazia A. C. Bhakivedanta Swami Prabhupàda, anche in Palestina o in Persia era ricorrente il riferimento a figli metaforici o spirituali di uomini illustri, frutto non della carne ma di menti spiritualmente feconde. In Palestina o meglio Filistea, come amava definirla il profeta Isaia, questi chiama in causa due figli immaginari concepiti con una profetessa:
“Poi mi avvicinai alla profetessa ed essa concepì un figlio ed il Signore mi disse – Dagli il nome di Maher.Shalal.Hash.Baz perché prima che il fanciullo possa dire mio padre, mia madre, la ricchezza di Damasco e il bottino di Samaria saranno portati davanti al re di Assur”
(Isaia 8,3).
Nel nome del metaforico figlio di Isaia si nasconde un chiaro riferimento ad eventi infausti per il popolo di Israele, che puntualmente si sarebbero verificati attraverso l’invasione dei territori di Damasco e Samaria da parte del re di Assur. Infatti il vocabolo Maher, in tedesco[11], significa mietitore/falciatore, sicuramente riferito al re Assur come portatore di morte indiscriminata; Shalal è composto da Sah-vedere ed alla-tutto; Hash corrisponde al tedesco moderno Hase–lepre/uomo codardo; Baz potrebbe essere una voce del verbo tedesco bezog – coprire/recarsi/frequentare. Si potrebbe pertanto tentare la seguente traduzione: “Il mietitore (re assiro) vedeva la codardia che abitava quel luogo”, approfittandone per attaccarlo. Del resto lo stesso Isaia si avvale del simbolismo del mietitore quando afferma: “Avverrà come quando il mietitore falcia le spighe (…)” (Isaia 17,5). Insomma quel nome simbolico altro non era se non un monito inviato dal profeta alla sua gente per la codardia che essa dimostrava e che ingenerava gli appetiti di conquista di re stranieri. Isaia auspicava, attraverso i suoi moniti e i nomi dei suoi figli, un ritorno agli antichi splendori, che coincidevano col periodo in cui quei luoghi erano stati denominati Falestinia, da lui definita Filistea (Isaia 14,29) dal nome della stirpe che l’aveva conquistata. Nel tentativo di destare i Filistei dal loro torpore, Isaia continua il suo monito auspicando la possibilità non solo di eludere l’invasione degli Assiri, ma addirittura di adoperarsi per stabilire una pentapolis perfino in Egitto. Il nome dell’altro figlio di Isaia, Sear-Jasub, riconduce ad un’interpretazione che in qualche modo si ricollega alla precedente; Sear-Jasub potrebbe essere stato, nella forma originaria, Seh’ Ar- Gast oben ossia “lo straniero posa il suo sguardo su Ar”, essendo l’Ar la regione che il re assiro si apprestava a conquistare, oppure Seh’Ar jäh oben cioè “lo sguardo sull’Ar, veloce (pose)”. Il riferimento alla conquista della valle dell’Aram viene ripreso attraverso l’espressione: “Efraim perderà le sue fortificazioni e Damasco la sua regalità: il resto di Aram sarà trattato come la gloria dei figli d’Israele, oracolo del Signore degli eserciti” (Isaia 17,3).
Nell’Avestā ( Khordah Avestā; yast aban 5,34) Zarathustra ripropone la metafora dei figli quali frutto del concepimento di una mente riflessiva ed illuminata. Nel citare il prode Thraetaona, il profeta afferma che il guerriero, quale grazia da ricevere in cambio del sacrificio che si approssimava a compiere sull’altare della dea Anàhita, chiede che gli venga concesso di essere in grado di sconfiggere il più forte mago detentore delle Druj (forze magiche) e che, a tal fine, la dea, possa concedergli la grazia di far concepire le sue due mogli Savanghavàk ed Erenavàk, i cui nomi, fuor di metafora, significano conoscenza ed onore.
Ma ritorniamo in Sicilia.
[11] Le complesse ragioni per le quali si ricorre al tedesco per tradurre nomi propri delle antiche lingue sono state più volte argomentate dallo scrivente in precedenti pubblicazioni.
L’ASPETTO RELIGIOSO DEL RE KOKALO
La religiosità in odore di druidismo del re Kokalo appare evidente fin dal significato del suo stesso soprannome: Ku-Kalla[12] ovvero “Colui che invoca il regno (per il popolo sicano)”. Questo nome potrebbe essere stato apposto al re dai contemporanei dopo la sconfitta di Minosse, in memoria e ad onore dei mille sacrifici che il saggio re\sacerdote Kokalo, aveva celebrato per evocare l’Avo Adrano e spingerlo ad un suo diretto intervento sul campo di battaglia[13].
La forza evocativa di Kokalo, capace di “costringere” gli dèi ad intervenire in aiuto della propria gente, gli guadagnò fama di teurgo. La splendida coppa in oro ritrovata a S. Angelo Muxaro è attribuita al suo tesoro personale. Per il simbolismo che la coppa riproduce, riteniamo davvero probabile che essa facesse parte di un corredo religioso[14] utilizzato durante i riti ed appartenuto al re, in quanto il simbolismo delle mucche impresse a sbalzo sul fondo del calice riconducono al simbolo del re saggio, eletto dal popolo per universale consenso e per indicazione divina. Il simbolo della mucca è universalmente collegato alla saggezza, alla mitezza e si collega a quello del buon mandriano, chiamato a dirigere la mandria o, fuor di metafora, il popolo. Il profeta Eliseo (II RE 19,20) arava il suo campo con una coppia di buoi che, a loro volta, facevano parte di dodici (multiplo di tre) paia di buoi, quando viene investito da Elia del ruolo di mandriano di anime. Il re di Israele Geroboamo, per ricordare al re di Giuda Roboamo che era stato eletto per consenso popolare in una assemblea alla quale avevano partecipato le dodici tribù d’Israele e per ribadire la propria legittimità, fece innalzare due vitelli nelle città di Bet-El e di Dan. Naturalmente il gesto di Geroboamo venne mal compreso dallo scriba dell’Antico Testamento, ormai distante dalla cultura dei tempi in cui i fatti si erano svolti, che interpretò l’innalzamento dei vitelli come un atto di idolatria.
Circa il significato da noi attribuito al nome Siculi, “mandriani” (da Sik, sé e kuh, mucca), abbiamo detto sufficientemente altrove per ripeterci in questa sede. Non vogliamo far passare di secondaria importanza il fatto che le mucche effigiate nella coppa di Kokalo, mandriano di popoli, in numero di sei, multiplo di tre, numero che rappresenta la sacra triade, sono raffigurate come se girassero attorno ad un “centro”, ad un “asse”, ad un “omphalos” con andamento antiorario. Tale andamento evoca il procedere armonico degli eventi secondo lo stesso naturale procedere dell’astro apportatore di luce e di vita: il sole.
Come si può notare, tutto il simbolismo che ruota attorno alla figura del re Kokalo, a partire dal nome della sua reggia, ci trasmette, tra le righe, un messaggio ermetico circa il ruolo che ebbero i re nella comunità sicana. Essi rappresentavano il simbolo manifesto delle forze armoniche dell’universo, essi collegavano la Terra al Cielo facendo da ponte, da essi ci si aspettava che agissero di conseguenza. Kokalo non deluse le aspettative del popolo siciliano.
[12] Per il significato di regno legato al termine kuh, vacca, si rimanda ai numerosi articoli pubblicati, in particolare http://www.miti3000.eu/la-terra-dellavo.html.
[13] Plutarco, in Vita di Timoleonte, lascia intendere che il dio Adrano prendesse personalmente parte alle battaglie combattute dai propri eredi contro i nemici. Questa concezione religiosa non era esclusiva del popolo sicano, basti pensare al dio ebraico Jahvè, che combatteva contro i nemici egiziani del suo popolo, o alla partecipazione degli déi alle battaglie combattute sul campo troiano, secondo la narrazione di Omero.
[14] Nell’Antico Testamento, II RE 23,4, si fa un elenco minuzioso degli utensili utilizzati durante le cerimonie religiose, conservati nella stanza adiacente a quella nella quale si trovava l’arca dell’alleanza.
– Francesco Branchina