Francesco Cossiga è stato un eroe tragico. Forse il solo, il vero eroe tragico della storia della Repubblica. Nella prigione delle Brigate rosse Moro fu, soprattutto, un uomo atterrito. Zaccagnini, l’anima bella, rimase stritolato fra il debito d’amicizia e il dovere della carica, e non resse letteralmente il peso di quella tragedia. Andreotti ne fiutò il senso politico e si precipitò a formare il governo con i comunisti per il quale Moro avrebbe subìto l’olocausto. Tutti degni di uno Svetonio. Solo lui, Cossiga, all’altezza di un Tacito.
Uscì lacerato dal conflitto fra ciò che sapeva di Moro, del sequestro, e ciò che, probabilmente, avrebbe potuto, forse voluto, e non poté fare per salvare l’ostaggio. La vedova gli addossò le colpe di una trattativa con le Br a cui tutta la Dc si era sottratta. Ma è credibile che Cossiga sia stato l’unico ad avviare qualcosa di simile a un negoziato coi rapitori.
Le sue dimissioni dal Viminale, subito dopo la nefanda riconsegna del cadavere, restano un gesto mai più imitato nel nostro Paese. Non è tanto questo, però. Cossiga riemerse da quella vicenda come uno spettro dall’Ade: di colpo incanutito, la ciclotimia, di cui soffriva da sempre, si era mutata in autentica nevrosi. Si ammalò di vitiligine, un disturbo neuro-trofico che gli chiazzò la pelle per il resto dei suoi giorni.
Custode geloso degli arcana imperii, di cui subì senza dubbio il fascino tenebroso, amico di generali e grandi spioni dei servizi, verosimilmente al corrente di trame ancora oggi senza soluzione, dopo l’affaire Moro, Cossiga divenne un’altra persona. Pochi ne colsero allora, in quei giorni drammatici, la metamorfosi: l’uomo che portava il peso del tremendo segreto del potere, si avviava a diventare il primo demistificatore del sistema di cui conosceva i più oscuri gangli.
L’apparizione del Picconatore, alla magistratura più alta dello Stato, sorprese e allarmò quanti non aveva avuto l’acume d’indovinare l’intima parabola dell’«umile servitore» a cui l’eccesso di sapere ormai provocava accessi di dolore. I dirigenti del Pci, più di tutti gli altri, ne furono disorientati. Al punto di porre in stato d’accusa il presidente che, giorno dopo giorno, rivelava il marcio della Repubblica.
Credendo di conoscere il politico, avevano sottovalutato l’uomo. Assieme a Enrico Berlinguer (di cui era cugino) Cossiga è stato l’ultimo erede della scuola sardo-sabauda che, a partire da Gramsci e passando per Segni, fondò l’Italia sul tacito patto fra le due chiese: la bianca e la rossa.
Il caso Moro aveva disvelato quel patto nella maniera più brutale. Cossiga lo capì per primo: dopo di allora, il Paese non avrebbe più tollerato l’ipocrisia. Con il sublime candore concesso al più implicato di tutti, complice il clima di Tangentopoli, affossò la Prima Repubblica. Con lucida determinazione che, all’epoca, parve follia.