Nelle sue armi splendide si stava
d’Arcente il figlio (Capi), in clamide dipinta
di ferrugigna porpora lucente.
L’aveva mandato di Sicilia il padre
da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto,
dov’è la mite ricca di doni ara di Palico.
Virgilio, Eneide, lib.IX
AFFINITÀ TRA SICULI, SICANI e POPOLI NORDICI
Si ritorna in questo studio sulla tesi, più volte richiamata, circa le affinità tra il popolo dei Siculi con quello dei Sicani e di entrambi con i popoli coevi che abitarono il nord Europa.
I due nomi, Sicani e Siculi, erano degli appellativi apposti a due tribù della Sicilia, appartenenti ad una medesima o affine etnia e accomunate da una stessa weltanshauung, al fine di indicarne i rispettivi ruoli sociali. Come le tribù dei Leviti e dei Giudei, due delle dodici tribù israelite, ognuna derivata da uno dei dodici figli di Giacobbe, avevano il compito di fornire all’intera società israelita rispettivamente i sacerdoti e i re/guerrieri, così i Sicani ed i Siculi di Sicilia avevano il compito di fornire al popolo siciliano rispettivamente i sacerdoti e i capi politici. Siculi, infatti, come affermato in altra sede e come più avanti richiamato, significa letteralmente “mandriani” e, su un piano metaforico, guida politica di uomini, di un popolo.
I Siciliani, ai quali fu invisa ogni forma di dispotismo, affidavano ad un “principe”, come lo definisce Diodoro Siculo, scelto quale primus inter pares e coadiuvato da un consiglio o assemblea popolare con funzioni consultive e dall’ordine sacerdotale, la gestione del governo di un comprensorio territoriale formato da una città principale, in cui si trovava la sede regia e la casta sacerdotale, e da una serie di villaggi da essa dipendenti.
La convinzione che la differente denominazione delle due tribù in oggetto volesse esplicitamente indicarne la differente funzione sociale, è la conseguenza della tesi secondo la quale le medesime fossero in realtà componenti di un unico popolo che, in tempi remotissimi, era giunto in Sicilia dall’estremo nord Europa, suddividendosi, lungo il percorso da nord a sud, in mille rivoli e dando conseguentemente vita a civiltà simili tra loro. Alla luce di questa affermazione si ritengono coeve le tribù siciliane dei Ciclopi, dei Lestrigoni, dei Feaci[1], dei Sicani e forse dei Siculi, per quanto, storicamente l’arrivo di questi ultimi in Sicilia sia attestato solo nel XII secolo.
Come sopra anticipato, ai Sich–kuh o “mandriani” di popoli, metafora affine a quella cristiana e israelitica di “pastori” di genti, spettava il compito di difendere l’eredità atavica, anche con le armi se necessario[2]; ai Sich–Ahne o Sicani spettava il compito di trasmetterla agli eredi attraverso le caste sacerdotali degli Adraniti e degli Erbitei. Anzi, possiamo affermare che ai Sicani spetta il primato del concetto di consustanzialità del padre col figlio, ripreso da Atanasio nel concilio di Nicea del 325. Infatti, nel pronome riflessivo sich, che significa sé, se stesso, si evidenzia come il Sich-Ano si ritenesse un tutt’uno con l’Avo (Ano) divinizzato. I Sicani, come i Cristiani, prendono il proprio nome dai rispettivi capostipite. I Cristiani stanno a Cristo come i Sicani ad Ano, l’Avo.
In merito alla collocazione temporale dei Siculi è necessario effettuare alcune precisazioni: la tesi qui esposta secondo cui i Siculi erano probabilmente coevi dei Sicani e degli altri popoli sopra citati, che trae i suoi presupposti da osservazioni e ragionamenti esposti in altri studi, non ignora né contesta il fatto che nel XII secolo in Sicilia fosse giunto un popolo chiamato Siculo, tanto più che l’immagine dei popoli del mare, tra i quali si annoverano anche i Siculi, su carri trainati da buoi, fu incisa, per volontà di Ramses III, nel tempio di Abu Medinet a memoria della vittoria egiziana. Si ritiene tuttavia che in Sicilia vi fosse una presenza sicula anteriore a quella storicamente attestata del XII secolo e che comunque l’appellativo figurato di “mandriani” o Sich-kuh esistesse in Sicilia ancor prima che il faraone facesse incidere nel tempio i nomi dei “popoli del mare”, espressione con la quale veniva genericamente indicata una moltitudine di popoli provenienti dal nord Europa, eterogenea ma etnicamente affine, che aveva imperversato per anni in Asia prima di essere sconfitta e poi dispersa in mille rivoli in Egitto da Ramses III; allo stesso modo i Cimbri e i Teutoni, che da tempo scorrazzavano per l’Europa, nel 104 a.C. furono sconfitti dal console Caio Mario. Il tragitto dei popoli del mare era iniziato nel nord Europa e proseguito fino al Mar Nero; forse proprio la provenienza da questo mare valse loro l’appellativo di “popolo del mare” prima e poi, in Mesopotamia, ove si stanziarono, il nome affine di Sumeri o Zu–meer (“attraverso il mare”, in lingua nord europea). Dal Mar Nero il passaggio in Asia attraverso l’Anatolia è naturale. Già Diodoro Siculo fa riferimento ad una sottomissione dell’intera Asia da parte dei Cimbri, da lui denominati Cimmeri, avvenuta in tempi assai distanti dai suoi: essi, come cavallette su un campo di grano, distrussero l’impero ittita, non lasciarono traccia di quello miceneo né di tutti quelli che man mano incontravano nel loro passaggio. Tuttavia la gran massa d’uomini si assottigliava lungo il percorso in quanto, man mano che distruggevano gli imperi, si stanziavano nei territori devastati, dando vita a nuove civiltà, come quella dei Medi, dei Persiani o dei Mitanni. Quando il popolo del mare giunse in Egitto, era ormai molto ridotto; fu per questo che Ramses III poté sconfiggerlo e ricacciarlo indietro. Il composito popolo, fatta la sua ultima tappa nella filistea Ascalona, si disperse e le differenti tribù presero commiato le une dalle altre e si divisero per etnia; quella che giunse in Grecia diede vita alla civiltà dorica, mentre i Siculi raggiunsero le coste adriatiche dell’Italia e quelle della Sicilia.
Queste rotte erano conosciute dai nuovi immigrati; i loro antenati, infatti, le avevano già percorse più e più volte. Erano perfino a conoscenza della fama che si era guadagnata la Trinacria\Sicania quale terra ricca e ospitale, in cui, oggi come allora, i profughi, i diseredati, erano i benvenuti, trattati come ospiti dai re magnanimi dell’isola. Di questa ospitalità si erano avvalsi, nei decenni precedenti, il fuggiasco Dedalo, il quale aveva trovato asilo alla corte del principe Sicano Kokalo, il principe cretese Radamanto, accolto dai Feaci, forse anche lui fuggiasco assieme a Dedalo a motivo dell’avidità del re cretese Minosse. Kokalo, il magnanimo re sicano, offrì terre da abitare e templi per pregare anche all’esercito sconfitto di Minosse. Altri illustri profughi che godettero della magnanima accoglienza siciliana furono Ulisse e poi Enea col suo seguito; anche per questi ultimi fu messa a disposizione tanta terra quanta ne serviva per fondarvi città. L’eredità della sacra ospitalità fu raccolta, secoli dopo, dal magnanimo re Iblone, il quale avrebbe costruito una città per i fuggiaschi Megaresi guidati dall’ingrato Archia.
Poiché nessuna tradizione siciliana racconta di una guerra di respingimento dei Siculi da parte dei Sicani, è chiaro che questi ultimi dovettero essere stati considerati dei profughi ed accolti pacificamente. Comprendiamo che, poiché nell’immaginario collettivo ogni conquista territoriale deve essere legata ad uno scontro armato, la tesi che fa riferimento ad una pacifica accoglienza dei Siculi da parte dei Sicani nel XII sec. a. C. diventa ardua da sostenere. Ciò dipende in parte anche dal fatto che si è immaginato più numeroso del dovuto il numero dei Siculi che approdarono in Sicilia. Infatti, come affermato sopra e come i reperti archeologici dimostrano, parte di essi si era fermata in Puglia e aveva raggiunto anche l’Abruzzo, il Lazio e molta parte dell’Italia centro-meridionale. Perfino Diodoro, che era Siciliano, non avendo trovato nessuna tradizione locale circa uno scontro bellico Siculo-Sicano, per giustificare la presenza dei Siculi in Sicilia orientale, ipotizzò una loro occupazione del territorio in seguito ad una presunta fuga dei Sicani dovuta, a suo dire, alle devastanti eruzioni dell’Etna. Tralasciando il fatto che, per quanto spettacolari e temibili, le eruzioni del vulcano non potevano essere talmente diffuse da indurre un intero popolo ad abbandonare un territorio ampio come la Sicilia orientale, si osserva che l’insediamento siculo nella parte orientale dell’isola non fu uniforme ma a macchia di leopardo; ciò fa immaginare che furono gli ospitanti Sicani a determinare le caratteristiche di tale insediamento, proprio al fine di favorire l’assorbimento dei nuovi arrivati nel tessuto sociale sicano. Non si potrebbe giustificare altrimenti la presenza, citata da Polieno nel suo trattato Stratagemmi, di un principe sicano che, ancora sei secoli dopo l’arrivo dei Siculi, nel VI sec. a C., regnava sulla prestigiosa e ricchissima città di Innessa, posta alle falde dell’Etna, nella Sicilia orientale. Del resto, se fosse vero, come ipotizzato da alcuni studiosi, che i Siculi si insediarono con la forza delle armi in Sicilia orientale, cacciando i Sicani, non si potrebbe logicamente spiegare la presenza isolata del regno sicano di Inessa all’interno di un “oceano” siculo: la città era, infatti, ricchissima, posta in un luogo fertile e ricco di acque, munifica, appetibile per ogni conquistatore e, se aveva stimolato gli appetiti predatori del tiranno agrigentino Falaride, non si capisce per quale motivo non avrebbe dovuto stimolare anche quelli dei presunti nemici siculi. In realtà, non esisteva conflittualità tra le due tribù, né è immaginabile, come sostenuto da alcuni, che i Sicani fossero stati cacciati dai Siculi; i Sicani, che abitavano l’intera isola, denominata di conseguenza Sicania oltre che Trinakria, e che avevano contrastato il potente esercito cretese di Minosse, non avrebbero avuto molte difficoltà a sconfiggere un popolo ormai stremato e numericamente esiguo.
Che i Siculi respinti da Ramses III si fossero integrati con gli affini Sicani lo testimoniano, oltre al racconto citato di Polieno, in cui si attesta la convivenza pacifica del regno sicano di Innessa all’interno di un territorio siculo, la presenza di nomi nord europei che continuarono ad essere presenti sia nella Sicilia orientale che in quella occidentale, anche dopo la pseudo invasione sicula. Tra tutti facciamo riferimento al teonimo Adrano, nome composto da Odhr (furioso) e Ano (avo, antenato) così come Sicano è composto da sich (pronome riflessivo) e Ano, con cui veniva designata la più importante divinità sicana, rimasta oggetto di grande culto anche in periodo siculo, dato che il tempio del dio sopravvisse fino al 213\211 a. C., anno in cui, per volontà dei Romani e per decreto dei Decemviri, venne chiuso al pubblico culto. Che il dio fosse sicano e precedente all’arrivo dei Siculi lo conferma il fatto che il suo culto era praticato in tutta l’isola ed era ritenuto il padre della nazione e del popolo siciliano. Il culto del dio nazionale, Adrano, era e rimase presente nella parte occidentale dell’isola prima e dopo l’arrivo dei Siculi, come testimonia la presenza della fortezza di Monte Adranone nei pressi di Sambuca di Sicilia, un luogo in cui la presenza sicula non è attestata. Il culto di Adrano, così come quello dei suoi figli gemelli, detti Palici, non venne dunque portato in Sicilia dai Siculi. Anche il culto dei Palici, come quello del loro divino padre, era praticato sia nella Sicilia occidentale che in quella orientale; nella parte occidentale fu così importante da formare il toponimo della Valle del Belice – dal momento che Bel deriva dal Baal, “signore”, da cui Palici – in cui scorre il fiume omonimo (il culto dei Palici, tra l’altro, è indissolubilmente legato alla presenza delle acque). I Palici erano evocati nella Sicilia orientale presso le sponde del Simeto e la loro ara si trovava nei pressi del santuario del padre Adrano. Dal momento che Adrano era un dio sicano – tanto che i Sicani, autoctoni dell’isola (Timeo), si consideravano orgogliosamente una sua discendenza, come suggerisce il significato del loro nome (“l’avo in sé”) – chi sostiene che i Siculi fossero etnicamente e culturalmente differenti rispetto ai Sicani, dovrebbe chiedersi quale fosse il dio venerato dai Siculi e per quale motivo non sia rimasta traccia di tale culto.
Noi crediamo che il culto reso al dio sicano coincidesse con quello reso al dio siculo, in quanto la patria originaria degli uni e degli altri fu quel nord Europa in cui veniva celebrato il culto di Odhr-in (Odino) così come in Sicilia veniva venerato il sicano Odhr-an (Adrano).
VIRGILIO. L’ARA DEI PALICI
La città sicana di Innessa, retta dal principe Teuto, si trovava ad oriente dell’isola, vicino Centuripe, dove la pone Strabone[3], in un territorio ritenuto di insediamento siculo. L’autore dell’Eneide fa riferimento ad una città che ospitava l’ara di Palico; per quanto Virgilio non ne espliciti il nome, essa è identificabile con la ricca città di Innessa poiché sorgeva sulla riva sinistra del Simeto e perché celebre per essere sede del culto dei Palici. Ancora oggi nel sito è visibile l’ara dei sacrifici, la stessa cui il poeta fa riferimento nel suo poema. Da Innessa viene dunque inviato in soccorso di Enea, in lotta contro Turno, re dei Rutuli, Capi, rampollo di Arcente, che intorno al XII sec. a.C., epoca in cui si svolgono i fatti narrati da Virgilio, governava la città.
[1] Sulla collocazione geografica dei Feaci in Sicilia, vedasi ObBiettivo Adrano.
[2] La famosa coppa d’oro del XIII sec. a.C. del re Cocalo, su cui sono raffigurate, a sbalzo, sei vacche che in fila si conducono in senso circolare anti-orario, sembra fare chiarezza su quanto da noi affermato in merito al significato del termine Siculo, metaforicamente “mandriano di popoli”. Cocalo impersona il re “mandriano di popoli”. Il suo stesso nome risulta formato dai lessemi kuh (vacca) e kalla (evocare). La radice kuh, nelle lingue nord europee, è contenuta in tutti i nomi che designano il re: konig in Germania e kunung in Scandinavia; inoltre kùrush veniva chiamato il re persiano Ciro; Cuchulainn era il soprannome di un principe irlandese le cui gesta sono legate al recupero di un Toro conteso.
[3] Per l’identificazione di Innessa con Etna citiamo Diodoro: “Costoro tentarono di contrastare l’azione nemica, ma, sconfitti in parecchie battaglie, furono scacciati da Catane e presero possesso dell’attuale città di Etna, che in passato aveva il nome di Inessa” ( Biblioteca Historica, Lib. XI,72-3)
LA PIETRA DEL MENDOLITO E LA PIETRA RUNICA DI ULUNDA
Le steli runiche vichinghe hanno molte affinità con quella, di un millennio antecedente, rinvenuta ad Adrano in contrada Mendolito: la scriptio continua; il materiale utilizzato quale base per l’iscrizione; la fissazione della stele in verticale sul terreno. La stele di Adrano, per quanto sia stata ritrovata in posizione orizzontale, in origine aveva una posizione verticale, come le pietre runiche vichinghe, ed era posta su un piedistallo anch’esso di pietra, come si evince dalla rotondità della base della stele e dal foro al suo interno, che serviva ad inserirvi un’anima metallica al fine di fissarla alla base per renderla stabile.Il nome del siciliano Kapi, citato da Virgilio, ci dà l’occasione di aggiungere un ulteriore tassello al grande mosaico che attesta l’origine nord europea della lingua sicana e del popolo che la parlava. Infatti, non solo è di chiara origine nordica il nome Teuto, re di Innessa nel VI sec. a.C., ma appare visibilmente scandinavo anche il nome Kapi. Si constata che questo nome era frequente presso i Vichinghi e lo si ritrova inciso in una pietra runica ritrovata nei pressi di Ulunda. Le pietre runiche, incise dai Vichinghi durante i loro viaggi in tutto il mondo, trenta delle quali si trovano in Grecia, rappresentano certamente un’antica consuetudine, che ha un precedente nella città di Innessa, patria del siculo Kapi, di Teuto e della probabile figlia di quest’ultimo, Etna, la quale, come da noi supposto in un precedente articolo (ObBiettivo Adrano / ObBiettivo Adrano 2), avrebbe dato il suo nome alla città di Innessa avuta in eredità dal padre.
La stele, asportata dal luogo originario ove essa venne originariamente collocata e dove si trovava in posizione verticale, fu posta orizzontalmente nella torre, costruita a posteriori rispetto al muro che cingeva il sito di contrada Mendolito. È probabile che essa venne utilizzata, nella nuova collocazione, quale simbolo vivente di una tradizione sicula ed anti greca, in un momento in cui i Siculi medesimi non erano forse più in grado di comprendere la lingua di origine. Infatti, se abbiamo ben interpretato la cronologia degli eventi, l’epigrafe fu incisa all’epoca del re Teuto, nel 550 a.C. circa, dal momento che in essa è chiaramente leggibile la sequenza “TEUTO”[1], mentre la sua collocazione nella torre dovrebbe essere stata effettuata quando Ducezio intraprese una guerra antigreca al fine di recuperare i territori e la tradizione sicula, minati dai nuovi arrivati. In questa occasione, nel 450 a.C., vennero fortificate tutte le città sicule della Sicilia, compreso il sito del Mendolito, presso Inessa\Etna (futura Adrano), che da sito agricolo commerciale quale era dovette essere stato riadattato militarmente. Del resto l’epigrafe poteva essere letta sia che la stele fosse in posizione verticale sia che si trovasse in posizione orizzontale. In quest’ultimo caso, essendo la stele incassata nella torre, risultava privata di alcune lettere, incise lungo il margine interno superiore della stele. Poiché queste lettere non sono mai state riportate nella riproduzione dell’epigrafe effettuata dagli accademici, tutti i tentativi di traduzione, compreso quello da noi proposto nell’articolo La Lingua dei Sikani, sono risultati parziali o comunque in parte compromessi.
Comprendendo la probabile difficoltà, da parte dei lettori, ad accettare la consanguineità tra Sicani e popoli nord europei, a ritenere la pietra di Adrano e le pietre runiche presenti nel nord Europa, i molti casi di omonimia, che vanno da Etna a Teuto e a Kapi, o ancora la presenza numerosa dei dolmen in Sicilia come nel nord Europa frutto di una affinità, rimandiamo i lettori che avranno avuto la pazienza e l’interesse di seguirci fin qui e che desiderassero approfondire l’argomento all’articolo in: ObBiettivo Adrano .
*
– Francesco Branchina