Guardiamo, ad esempio, al governo nazionale. La massiccia vittoria del Centrodestra aveva fatto pensare, anche a chi non l’aveva votato, che finalmente era in condizione di realizzare, condivisibile o meno, il suo programma. Concreto nell’affrontare l’emergenza (rifiuti di Napoli e terremoto dell’Aquila), veloce nel varare qualche riforma, il governo Berlusconi è andato poi a impantanarsi su tre cose: la spaccatura con Fini; lo scandalo del G8 con un ministro, Scajola, costretto alle dimissioni (e si parla anche di altri ministri); la pasticciata legge sulle intercettazioni.
Quest’ultimo ddl lascia perplessi. Per i tempi e per i modi. In un momento di crisi economica mondiale con pesanti ricadute sul nostro Paese, era proprio necessario creare una spaccatura nel Parlamento e nella società italiana che vede questa legge come una censura all’informazione? Il momento non era opportuno. Si può discutere sui duri contenuti per i quali un po’ di responsabilità l’hanno quei magistrati i quali utilizzano la stampa come strumento politico e di carriera. Vedi i Di Pietro, i De Magistris; oppure, ultimo esempio, quel magistrato di Trani scoperto mentre per telefono (ecco perché le intercettazioni sono utili) dava notizie riservate a un giornalista. Ma responsabilità ne abbiamo anche noi giornalisti portati spesso a non distinguere la notizia di interesse pubblico da quella strettamente privata. Ci piace giocare al gossip sulla pelle della gente.
Però una legge così drastica, con penalità pesanti per editori e giornalisti, fa pensare più che a una regolamentazione del settore a una censura bella e buona. Inoltre per avere un voto bipartizan sarebbe stato opportuno rispolverare la legge varata dal governo Prodi, approvata solo da una ramo del Parlamento e non andata avanti per la caduta del governo stesso. Legge che allora fu firmata da Mastella e che trovò consenzienti sia Romano Prodi («le intercettazioni alimentano un clima di scontro con le istituzioni»), sia Anna Finocchiaro («legge necessaria per evitare il mercato nero di materiale riservato»), sia Antonio Di Pietro («vanno previste sanzioni per tutelare la privacy»).
Ma al di là di qualsiasi polemica, il governo, torniamo a ripetere, in questo difficile momento avrebbe dovuto, confrontandosi con l’opposizione, dare priorità alla grave situazione economica. Alla disoccupazione, specie quella giovanile, sempre in aumento; all’impoverimento delle famiglie; alle difficoltà delle medie e piccole industrie; alla scuola; all’Università; all’inarrestabile fuga dei cervelli; ai pensionati; alle infrastrutture che ancora non decollano. Si può rispondere che a queste cose il governo ci ha già pensato, ma tutto è ancora sulla carta ed è tutto da verificare. In particolare per quel clima rissoso creatosi non solo con l’opposizione, ma anche all’interno della stessa maggioranza.
Non parliamo delle promesse fatte al Sud. Berlusconi aveva tempo addietro promesso un piano per il Meridione. Non è andato oltre le parole. Alla Sicilia lesinano persino i soldi del Fas che le toccano di diritto. Alcune scoppole certamente ce le meritiamo. Soprattutto la nostra classe politica, la quale non è da meno di quella nazionale in materia di liti. Anzi peggio. Perché a Roma bene o male c’è una maggioranza che regge, in Sicilia invece le spaccature sono sia nel centrodestra sia nel centrosinistra e a governare c’è una maggioranza variabile diversa da quella espressa dagli elettori. Raffaele Lombardo viaggia a vista senza conoscere il suo vero futuro. Sì, magari alcune riforme si sono varate ma il difficile è realizzarle. Così il piano rifiuti, così quello energetico. Con la bomba dei precari pronta a esplodere.
Se l’Italia è spaccata in due, anche noi siciliani abbiamo contribuito con una inefficiente classe politica alternatasi al governo regionale negli ultimi decenni. Viviamo in attesa che accada qualcosa. Senza un progetto complessivo di sviluppo.
Non avendo poi con chi prendercela si maledice persino Garibaldi e qualcuno scopre che era un masnadiero assassino. Quasi a voler togliere di mezzo quel simbolo dell’unico momento nel quale i siciliani credettero veramente all’unificazione dell’Italia. Come dire: quello, forse, era solo un sogno.