Il professore Francesco Branchina ci parla di etnologia siciliana con impeccabile particolarità.
Il termine Killiroi venne generalmente utilizzato dagli storici greci che si occuparono delle cronache siciliane per definire la popolazione pre-greca di Siracusa. Ma non è detto che l’etimo sia riferibile esclusivamente alla popolazione siracusana. Crediamo che i (K)illiri o cilliri di Siracusa fossero una consorteria di lavoratori portuali, chiamati Killiroi nella lingua dei “profughi” greci, arrivati nella Polis, da Corinto, nel 734, sotto la guida di Archia. Il termine, grecizzato, dovette successivamente indicare gli estremisti politici oppositori di Archia, dopo che questi, essendosi affermato politicamente a Siracusa, volle monopolizzare i cantieri navali, affidandone l’esclusiva gestione ai propri coloni greci ed escludendo i Siculi. Così una semplice ma importantissima confraternita di portuali – paragonabile a quella, di antica memoria, dei liberi muratori – si sarebbe trasformata in un gruppo accomunato dall’opposizione politica ai sempre più numerosi coloni greci che, inizialmente ben accolti dai Siracusani, si rivelarono bene presto infidi ed intenti a riempire tutti gli spazi sociali della comunità sicula siracusana. Il vocabolo siculo, grecizzato in Killiroi, così come quello di gamoroi, di cui parleremo più in là, riconduce, a nostro motivato giudizio, ad un etimo di provenienza germanica che, nell’attuale lingua tedesca, viene reso col vocabolo Kiel, “chiglia”, da cui Kielholen, che significa “carenare una nave”. Con il nome di chiglia si indica la lunga travatura di una nave che corre da prua a poppa, sulla quale vengono incastrate le coste che formano l’ossatura stessa di uno scafo. Essa è la componente fondamentale di uno scafo ed è progettata in base alla destinazione stessa dell’imbarcazione. La desinenza –er, aggiunta al termine Kiel- (Kieler o Killiri/killiroi), indica “il costruttore della chiglia” ovvero una manodopera specializzata nella costruzione di questa importantissima parte della nave. Apprendiamo infatti dai Moralia di Plutarco, che in una nave vi erano uomini con diverse specializzazioni, quali marinai, ufficiali di prua, maestri del remaggio, timonieri, manovali. Il termine Kiel-iri dovette, successivamente, indicare sia l’esperta manovalanza specializzata nel costruire la chiglia vera e propria di una nave sia, più genericamente, i costruttori di imbarcazioni, come pure l’equipaggio della nave o, in ultima analisi, chiunque avesse a che fare con una imbarcazione ovvero un “portuale”. Altrove venivano coniati altri termini per indicare attività marinare, dalle quali prendevano nome interi popoli o categorie: è il caso dei Sumeri, Zu Mer, che significava dal Mare o semplicemente marinai; dei Vichinghi o Vareghi, vocabolo che indicava tutti coloro che, piratescamente, a bordo di navi, si presentavano nelle città costiere di tutta Europa per far man bassa di tutto ciò che capitava loro sotto mano. Parlando di pirateria non si può non accostare il termine di Killiri o Cilliri al termine Illiri. Questo popolo, che i Greci chiamavano, guarda caso, Illiroi, viveva nell’attuale territorio dell’Albania e della pirateria aveva fatto la propria principale risorsa economica, un’industria di stato, al punto che, nel periodo di loro maggiore dominio sul Mare Adriatico, durante la reggenza della regina Teuta (230-228 a.C.), i Romani, pregati dai popoli confinanti che subivano le razzie degli Illiroi affinché intervenissero con la loro autorità, dovettero ricorrere alla guerra per arginare il fenomeno. La stessa regina Teuta diceva che, mentre poteva intervenire sulla pirateria di stato, non poteva farlo su quella privata, in quanto essa era una consuetudine del suo popolo. La prima guerra illirica, durata due anni e vinta dai Romani, si concluse con un trattato di pace il quale prevedeva che la regina non utilizzasse più nessuna nave militare e le era consentito di servirsi di non più di due navi commerciali alla volta. Un’imposizione di tal genere ci fa capire quanto temuta fosse stata la flotta Illira e quanto adeguato fosse il soprannome dato a questo popolo, che possiamo agevolmente tradurre come “esperti costruttori di Navi o chiglie” ( da Kiel). Il campo semantico abbracciato dal termine germanico Kiel, per estensione, comprendeva oggetti, uomini e città che, in qualche modo, entravano in relazione con le acque. È il caso di Cirella, sito sulla costa tirrenica in Calabria, del paesino, con lo stesso nome, posto nella Val di Vara in Liguria, nei pressi del noto fiume Vara, della città tedesca Kiel, che sorge vicino Hamburgo, proprio sul Mar Baltico, o della capitale ucraina Kiev, che sorge sul fiume Dnepr, strategicamente fondamentale per i commerci, in quanto mette in relazione il Mar Nero col Baltico. Si sa che Kiev era una tappa importante per i Vichinghi i quali alla Russia fornivano non solo merci ma anche re (Cronache di Nestore). Si noti inoltre che il fiume Dnepr, come testimonia Erodoto, nella lingua degli Sciiti[1], popolo che occupava il territorio dell’attuale Ucraina, veniva chiamato Varustana, mentre gli Unni lo chiamavano, semplificando, Var. Ora si dà il caso che, nella celeberrima epigrafe della stele sicula posta nelle mura del sito del Mendolito, è possibile isolare il lessema vara, a cui noi, in uno studio precedente, avevamo già attribuito il significato di “acqua”. Alla luce delle nuove intuizioni, che abbiamo il piacere di comunicare ai nostri lettori, constatiamo, anni dopo, di non esserci sbagliati in quella sede. Infatti nella medesima stele avevamo pure individuato il nome del principe Teuto, nominato da Polieno quale principe di Innessa, e avevamo fatto risalire la lingua di cui si era servito il compilatore della stele ad una lingua nord europea molto simile all’attuale tedesco. Si noterà che, in riferimento a quanto affermato sopra, i termini Cilliri, Cirella e varianti sono sempre utilizzati per indicare insediamenti umani posti nei pressi di un fiume, spesso chiamato Vara, o comunque vicino ad acque navigabili. Riassumendo quanto sin qui esposto, emergono singolari e non certo casuali affinità tra: gli Illiri o Illiroi della regina Teuta, pirati del mare o uomini della chiglia (kiel); la città tedesca Kiel posta sul Mar Baltico; la capitale Kiev, posta, come una chiglia o nave sul fiume Dnpr o Varustana, il corso fluviale che “conduce alla casa degli Avi” (vara, acqua – usa, casa – an, antenato); i Vareghi, coloro che vanno sull’acqua (da vara acqua e gehen andare); i Killiri o Killiroi di Siracusa, abili costruttori di chiglie, navi e poi flotte navali talmente potenti da sconfiggere gli Ateniesi non solo nel mar di Sicilia, durante la guerra del Peloponneso, ma fin nel porto di Atene, sotto la guida del grande generale siciliano Ermocrate. Ma ci si chiederà: qual è la relazione tra le storiche potenze navali delle quali abbiamo fin qui parlato, con Teuto, principe di Innessa, l’attuale Adrano, e i Cilliri di Adrano, città situata nell’entroterra etneo? Evidente per coloro che non si sono abbeverati alle fonti che alimentano il Lete. Infatti, anche se da molti anni il fiume siciliano Simeto non rompe più i suoi argini, la storia, anche recente, ha tramandato che, fino alla fine dell’Ottocento e forse ai primi del Novecento, il fiume in certi punti poteva essere attraversato solo tramite imbarcazioni, il cui utilizzo veniva dato in appalto a famiglie adranite. Potrebbero essere state queste famiglie ad avere veicolato il nome di Killiri o Cilliri fino a tempi relativamente recenti, visto che esiste una piazza intitolata a questi umili “traghettatori”, i quali, evidentemente, considerata l’importanza della loro funzione all’interno della comunità con la quale interagivano, diedero il nome al quartiere che abitavano.
Ben più alto prestigio dovettero avere i Cilliri, ovvero i Traghettatori, sotto il principato di Teuto, quando le abbondanti acque del fiume o Vara, oggi noto come Simeto, che scorreva sotto la prestigiosa Innessa\Adrano e si riversava nel Mediterraneo, potevano essere attraversate solo su imbarcazioni condotte da esperti “traghettatori”; a questa attività potrebbero essere collegabili i numerosi manufatti in pietra, ritrovati nell’area del Mendolito, la cui forma arcuata richiama il profilo di imbarcazioni. Questi oggetti possono essere interpretati come ex voto resi alla divinità fluviale, che aveva il suo altare nella Valle delle Muse, nei pressi della cinta muraria del Mendolito, ma possono essere ritenuti anche testimonianza della presenza di un’importante maestranza esperta nell’arte di costruire quelle navi che, riempite di cereali e prodotti artigianali destinati ai porti delle città bagnate dal Mediterraneo, dovettero assicurare il prestigio economico di Teuto. In questa logica si comprende meglio anche la testimonianza di Cicerone che, durante il processo di Verre, cita i Centuripini quali fornitori di navi alla flotta romana.
I Centuripini, dirimpettai degli Adraniti, abitanti di un alto ed impervio colle dell’entroterra siciliano, distante oltre quaranta Km dal mare, continuavano a fare quello che, dal 213 a.C. in poi, era stato precluso agli Adraniti, così come, quindici anni prima, era stato proibito alla regina degli Illiri, Teuta. Infatti Adrano, perdendo nel 213 a.C. la guerra contro i Romani, non solo aveva dovuto subire la chiusura del tempio del dio omonimo, vedendosi così preclusa la possibilità di continuare a tributare il culto all’Avo, ma era stata anche penalizzata nelle sue attività economiche; lo stesso Cicerone, nel 70 a.C., afferma che la città era stata costretta alla cessione coatta di una parte dei propri terreni agricoli ai confinanti Centuripini, premiati invece per il loro passaggio all’alleanza romana. Appurata la forza bellica dei Romani, avendo dal loro colle osservata la distruzione quasi totale di Adrano da parte dei legionari, i Centuripini avevano chiesto una pace separata che non solo li aveva preservati dalla triste sorte dei confinanti Adraniti, ma li aveva perfino avvantaggiati, facendo loro guadagnare l’appellativo di “consanguinei” dei Romani (Cicerone).
Ai Centuripini dovette essere stata affidata anche l’esclusiva facoltà di costruire navi e praticare i commerci marittimi che, prima dell’infausta alleanza con i Cartaginesi, dovevano essere stati, quasi certamente, monopolio di Teuto e degli Adraniti. Ciò verrebbe avvalorato dal fatto che gli Adraniti si riappropriarono, nel tempo, dei privilegi perduti dopo il fatidico scontro con i Romani ed in particolare del monopolio del servizio di attraversamento del Simeto tramite l’ausilio di barche. Infatti, grazie alle ricerche dello scomparso prof. Simone Ronsisvalle, storico adranita del cui talento siamo stati privati non molto tempo fa, si evince che, ancora fino all’Ottocento, i Centuripini dovevano pagare alla famiglia appaltante del servizio, gli Spitaleri di Adrano, un dazio sul passaggio del Simeto, nonostante i Centuripini non lo utilizzassero o utilizzassero poco.
Ritornando al discorso iniziale, osserviamo come i Greci, giunti in Sicilia, furono inizialmente ospitati amichevolmente, come narra Diodoro a proposito dei Megaresi (i quali furono accolti dal re sicano Iblone), e si inserirono perfettamente nel tessuto sociale dell’isola, all’interno delle città. A proposito di Archia, riteniamo che lo stesso non debba essere definito ecista di Siracusa, come la storia, raccontata unilateralmente dagli storici greci ha tramandato, ma piuttosto esule, come emerge analizzando nei particolari gli eventi della vita di costui. Questo depravato aristocratico di Corinto, come racconta Diodoro, si era invaghito di un giovinetto della sua città, che voleva avere a tutti i costi nonostante il rifiuto di questi e l’appartenenza del medesimo ad una illustre e morigerata famiglia patrizia. Perso il senno a motivo del giovane, Archia, accompagnato da un folto gruppo di parenti e clienti in armi, fa irruzione nell’abitazione del giovane per rapirlo, ma durante la colluttazione il giovane perde la vita. Per quanto taciuta dagli storici, non si fa fatica ad immaginare una condanna all’esilio comminata in quel 733 a.C. allo scellerato individuo, il quale, allestita una o più navi con un equipaggio di parenti e clienti, si dirige verso l’opulenta Sicilia. Si consideri che, tra i clienti di Archia, vi erano dei Megaresi del villaggio di Crommione, come apprendiamo da Strabone, nel libro VIII della sua Geografia. Giunti nella costa sud orientale della Sicilia, Archia ed il suo seguito vengono fraternamente accolti dal sicano principe Iblone, il quale fonda per loro una città, chiamata, in onore degli uni e dell’altro, a sancire vincoli di fratellanza, Megara Ibla. È tuttavia verosimile che Archia, aristocratico eminente, proveniente da una città illustre quale la greca Corinto, venisse ospitato nella reggia di Iblone, che poteva avere sede nella ancora poco conosciuta Siracusa dove, come apprendiamo dalle Verrine di Cicerone, vi era un tempio dedicato ad Urio. Riteniamo che il tempio di Urio, come quello di Poseidone della greca Kalauria (anche in Sicilia esisteva una città di nome Kalauria, nominata da Plutarco nella Vita di Timoleonte), venisse utilizzato dai supplici come intoccabile rifugio per scampare alle persecuzioni politiche; ad esempio nel tempio di Poseidone della greca Kalauria aveva trovato rifugio e, almeno la prima volta, protezione l’oratore Demostene (Atene 384 – Kalauria 322 a.C.), accusato di appropriazione indebita di somme di denaro di proprietà dello stato, il quale però, in una seconda e successiva circostanza, incalzato da un certo Archia (vissuto 400 anni dopo l’Archia di Siracusa), che non si sarebbe fatto scrupolo di immolarlo sull’altare di Poseidone, preferì darsi la morte.
Ma tornando ad Archia, ospite di Iblone, è verosimile che, una volta morto il suo protettore, l’infido, già avvezzo a intingere l’anima sua nel sudiciume politico sociale della sua città natale, abbia macchinato nella polis siciliana strategie politiche per dare vita alla prima tirannide della Sicilia, relegando gli antichi abitanti, definiti genericamente killiri dai Greci, all’opposizione. Contemporaneamente Archia, affine per condizione sociale agli aristocratici siracusani, definiti gamoroi, dovette riuscire a coinvolgerli e ad assimilarli nel suo disegno politico, a danno dell’opposizione popolare dei Killiri. Si noti che il termine grecizzato di gamoroi è riconducibile ad un etimo germanico che, nell’attuale lingua tedesca, trova riscontro nel vocabolo gemäss, “conforme”, “conveniente”, e gemassigt che significa “moderato”. Questo atteggiamento politico dei gamoroi, definito da loro stessi equilibrato, moderato, conforme alle civili norme di una comunità, aveva tutta l’aria di essere stato adottato dagli aristocratici siracusani per prendere le distanze dall’atteggiamento opposto dei Killiri, giudicato estremista, scomposto, squilibrato, eccessivo, privo di misura. Ne consegue che, mentre il partito pre-greco dei killiroi rimase vitale, quello dei gamoroi, appiattitosi sulle posizioni del tiranno, scomparve.
Crediamo che sconvolgimenti socio-politici non dissimili fossero avvenuti già anche in Grecia, nella regione della Messenia che, significativamente, si trova nella costa occidentale della Grecia e guarda a quella parte del mare che Strabone chiama Mare di Sicilia. Era infatti accaduto in questa regione che gli Spartani avessero ridotto gli antichi abitanti in Iloti, termine non greco sul cui significato ancora oggi si congettura e che, a nostro parere, deriva dal verbo germanico Kielholen, “carenare una nave”. Pertanto gli Iloti nei confronti dei Dori invasori, così come i Killiri nei confronti dei Greci, erano “gli oppositori”; così li definisce del resto Strabone. La comune origine kiel allude, nel caso dei killiri alla loro condizione originaria di “portuali”, nel caso degli Iloti della Messenia alla loro iniziale condizione di “marina militare” che, avendo resistito più a lungo, rispetto all’esercito di terra, all’invasione dorica, avrebbe assunto per estensione il significato, attestato da Strabone, di “oppositori”.
Ancora dopo seicento anni dall’invasione dorica, gli Iloti della Laconia provarono a scrollarsi il giogo della schiavitù spartana, senza riuscirvi, approfittando della momentanea destabilizzazione socio-politica provocata dal terremoto del 464 a.C. Di contro, la persistenza dell’opposizione politica dei killiroi a Siracusa si evince con chiarezza, come già affermato sopra, dal racconto di Tucidide della Guerra del Peloponneso: nel 413 a.C., infatti, Siracusa viene attaccata dagli Ateniesi, guidati da Nicia, con il quale interloquisce una forte intelligence siracusana formata da killiri e gamoroi pentiti, nel tentativo di convincere l’invasore, pur palesemente in difficoltà, a condividere la propria causa, facendo fronte comune contro il governo legittimo di Siracusa.
Alla fine del secolo scorso, i fatti di Danzica ripropongono sconcertanti parallelismi. Danzica è un’importante città nord europea attraversata dal fiume Vistola, sul Mar Baltico, che dei commerci marittimi ha fatto la sua prima fonte economica, al punto che il duca Swantipolk II il Grande, nel suo anello, che utilizzava come sigillo, aveva fatto incidere un’ancora. Il movimento di Solidarnosch, paragonabile a quello dei Cilliri di Siracusa, è un forte sindacato antigovernativo fondato in Polonia nel 1980, in seguito agli scioperi nei cantieri navali di Danzica; la protesta del sindacato, avviata già nel 1970 e poi cavalcata dagli intellettuali anti-comunisti, simili ai gamoroi siracusani, finì ben presto con il trasformarsi in un potente movimento politico d’opposizione e si concluse con le trattative che prevedevano un aumento salariale per i portuali. Il monumento innalzato successivamente ai caduti della protesta porta come simbolo della categoria croci cristiane e, significativamente, modelli di ancore, in ricordo dell’attività marittima che, storicamente, aveva da sempre caratterizzato l’economia della città, fin dalla sua fondazione.
La storia si ripete!
– Francesco Branchina