fonte: Marco Belpoliti su lastampa.it

MILANO. I suoi studenti all’Accademia di Brera, dove Guido Ballo ha insegnato per quattro decenni, con grande seguito, lo ricordano con indosso una giacca nera a tre bottoni, aderente, come quelle che negli anni Sessanta portavano un po’ tutti, da Calvino ai Beatles, da Jacques Lacan a Lucio Fontana, il suo artista preferito, come ha scritto di recente Massimiliano Gioni in quella che è l’ultima intervista del critico milanese. Pelato, faccia a punta, carattere ispido, a tratti irascibile, Guido Ballo, scomparso ieri alla veneranda età di 96 anni, è stato uno dei critici più significativi del dopoguerra e, insieme al centenario Gillo Dorfles, colui che ha accompagnato l’arte lombarda, milanese in particolare, nel decisivo passaggio dalla fine degli anni Quaranta postbellici ai roboanti Sessanta: Piero Manzoni, Vincenzo Agnetti, Enrico Castellani, e prima di loro Lucio Fontana, di cui Ballo ha presentato le prime mostre.

Nato ad Adrano, in provincia di Catania, l’anno dell’inizio della prima guerra mondiale, Ballo si era trasferito a Milano da Palermo nel 1939, portando con sé i fogli delle sue poesie, perché oltre che critico, amico di artisti, loro confidente, suggeritore e presentatore, è stato autore di versi, un’attività decisamente sperimentale che, non a caso, ha innervato la sua prosa di studioso d’arte. Il 1959 deve essere stato per lui l’anno topico. Nel mese di settembre esce il primo numero di Azimuth, la rivista di Agnetti, Manzoni e Castellani, atto decisivo dell’arte concettuale e cinetica italiana, in cui i giovani artisti indicano due soli precursori: Fontana, su cui ospitano il saggio critico di Ballo, e il Gruppo Zero che agisce in Germania.

In quello stesso anno, come ricordava nella conversazione con Gioni, Ballo va all’inaugurazione della personale di Gastone Novelli alla galleria l’Ariete per cui ha scritto la presentazione. Non c’è nessuno, solo l’artista, i due fratelli Pomodoro e Ballo stesso. I quattro delusi e abbattuti si guardano tra loro quando all’improvviso entra Fontana. È entusiasta. Osserva le opere esposte ed esclama: «Una bellissima mostra». E decide di acquistare immediatamente un quadro. Alla fine dei Cinquanta Fontana, ripeteva Ballo, non aveva quasi un mercato; spesso regalava i propri quadri, era un indipendente, poco propenso a farsi gestire da galleristi e mercanti. Al giovane critico che gli chiedeva come fosse Fontana, Ballo spiegava che la sua arte aveva il merito di raggiungere il grande pubblico: buchi, tagli, installazioni attraevano immediatamente, facevano discutere, scandalizzavano. Fontana rompeva con il linguaggio tradizionale, ed era una persona che catalizzava l’interesse di chi lo conosceva, prima di tutto dal punto di vista umano: un incantatore. Tre anni prima, nel 1956, Ballo aveva dato alle stampe uno dei suoi libri importanti: Pittori italiani dal Futurismo ad oggi.

L’attenzione alle avanguardie è stato un tratto distintivo del suo lavoro di saggista e critico, sia all’aspetto di astrazione di cui le avanguardie si sono fatte carico, sia a quello più informale, che agisce all’interno della matrice simbolista delle stesse avanguardie. Ballo aveva riconosciuto l’importanza dell’oscillazione tra razionalità e irrazionalità nelle esperienze estetiche del primo Novecento, sino ad arrivare a ritrovarla negli sperimentalismi degli anni Sessanta, di cui è stato un acuto testimone. Nel 1961 diede vita al gruppo battezzato «Continuità»: Consagra, Dangelo, Dorazio, Fontana, Perilli, Novelli, i fratelli Pomodoro, Turcato, Sottsass, Bemporad. Il libro in cui sintetizza il suo lavoro critico, tradotto anche all’estero, è Occhio critico del 1966, pubblicato in due successivi volumi.

Nel 1970, al culmine del suo lavoro, scrive una monografia dedicata a Fontana, a due anni dalla scomparsa dell’artista, Lucio Fontana, idee per un ritratto. Forse la chiave per comprendere il suo lavoro, che è legato alle vicende dell’arte italiana, milanese in particolare, che precedono l’esplosione del Sessantotto e l’avvento dell’Arte povera, risiede probabilmente nella sua opera poetica, nella fusione d’impulsi irrazionali, propri delle sue origini siciliane, e la razionalità tutta settentrionale, lombarda, di cui è stato al tempo stesso un interprete coerente e costante. Con lui se ne va un altro pezzo di quello spirito milanese, fatto di lombardi e milanesi d’adozione, di cui, di questi tempi, si sente sempre più la mancanza.

—-> http://obbiettivo-adrano.blogspot.com/