«E dovunque giungeva, in villaggi o città o campagne, ponevano gli infermi nelle piazze e lo pregavano di potergli toccare almeno la frangia del mantello; e quanti la toccavano guarivano» – (Marco 6,56).
Siamo dinanzi all’uomo più popolare della Palestina. Un uomo vissuto circa duemila anni il cui nome è Gesù di Nazareth
Nel corso di questa brevissima e non esaustiva trattazione si esamineranno i momenti salienti di quello che possiamo definire l’errore giudiziario più eclatante della storia dell’umanità, soprattutto per le ripercussioni storiche e religiose che ne derivarono.
* La Cospirazione del Sinedrio *
La decisione di arrestare e condannare a morte Gesù di Nazareth venne presa in quella che gli evangelisti Matteo e Marco indicano come la “Cospirazione del Sinedrio”.
Il Sinedrio, a quel tempo, era l’organo che amministrava la giustizia a Gerusalemme. Era dotato di un proprio corpo di “polizia”, costituito per garantire l’ordine pubblico.
La goccia che fece traboccare il vaso fu, molto probabilmente, la notizia della risurrezione di un certo Lazzaro di Betania, miracolo (l’ennesimo in verità) che venne attribuito a Gesù di Nazareth.
Giovanni narra che, alla notizia: «… I sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: Voi non capite e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera».
Il dato letterale del passo del vangelo di Giovanni fa emergere una motivazione politica (rectius, machiavellica) alla base della decisione di far arrestare ed uccidere Gesù. I sommi sacerdoti erano infatti talmente preoccupati da una figura tanto pacifica quanto destabilizzante, da temere di perdere il controllo religioso e politico della loro comunità. Nella Cospirazione del Sinedrio infatti si dirà, in relazione al momento opportuno in cui arrestare Gesù: «Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo».
La Giudea, infatti, in quel periodo era annessa all’Impero Romano. I Romani, come noto, adoperavano una politica di “tolleranza” verso i popoli conquistati ponendo quali condizioni per il mantenimento della “pace” quelle di non interferire con la loro autorità e di non creare problemi di ordine pubblico.
* L’arresto ed il processo al Sinedrio. I capi di imputazione *
L’apice della popolarità di Gesù di Nazareth, soprattutto dopo il suo ingresso trionfale a Gerusalemme, accelera i tempi. Egli stesso avverte che è ormai giunta la sua ora.
Nella notte tra giovedì e venerdì, dopo esser stato indicato dal bacio del discepolo Giuda ed arrestato dalle guardie del Tempio, Gesù viene condotto per un primo interrogatorio dall’ex sommo sacerdote Anna, suocero di Caifa.
Si tratta di un interrogatorio, tuttavia, privo di valore giuridico. Anna pur avendo di fatto un ruolo fondamentale nella comunità ebraica (tale da decidere il suo successore, indicando il genero), in quel momento non aveva formalmente alcun potere decisionale. É possibile che l’interrogatorio di Anna fu, pertanto, un interrogatorio “conoscitivo” in cui si cercò di saggiare la difesa dell’indagato, intimorendolo al tempo stesso.
«Aveva appena detto questo che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù: Così rispondi al sommo sacerdote?» – (Giovanni 18, 22)
Dopo tale primo interrogatorio “informale”, Gesù viene condotto davanti al Sinedrio per la celebrazione del processo. Si fanno avanti una serie di testimoni, ma le dichiarazioni rese si rivelano palesemente ed oggettivamente contraddittorie ed inattendibili.
Si tiene pertanto il secondo interrogatorio, quello condotto dal sommo sacerdote Caifa in persona, nel quale Gesù in un primo momento si avvale della “facoltà di non rispondere”.
«Non rispondi nulla? Cosa testimoniano costoro contro di te?» – (Marco 14, 60)
Una scelta difensiva corretta. Appare abbastanza paradossale, infatti, che dinanzi ad un quadro probatorio insussistente e privo di fondamento si chiedano spiegazioni all’ultimo soggetto che possa fornirle: l’imputato.
Tutti i dubbi sulla reità vengono, tuttavia, apparentemente sgombrati dalla risposta alla seconda domanda di Caifa:
«Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?».
Gesù risponde: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» – (Marco 18, 62)
Questa risposta basta al sommo sacerdote ed al Sinedrio per condannare a morte Gesù.
«Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti disse: Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia? Che ve ne pare?».
La sentenza del Sinedrio è emessa, ma il procedimento è nullo.
Secondo la Mishnah, infatti il processo non si sarebbe potuto svolgere di notte, ed una eventuale sentenza di condanna a morte doveva essere confermata da una seconda seduta da tenersi almeno 24 ore dopo dalla prima. Secondo i teologi, inoltre, quella pronunciata da Gesù non fu una bestemmia.
Tuttavia, per poter dare esecuzione alla sentenza di morte (nulla), il Sinedrio aveva bisogno del benestare dell’autorità Romana, che deteneva i “massimi poteri”, secondo quello che possiamo definire un vero e proprio riparto di competenze.
Il Sinedrio pertanto formula tre capi di accusa che possano prevedere la pena di morte, trasformandosi da giudice ad organo dell’accusa.
Gesù, secondo il vangelo di Luca, viene accusato dinanzi a Pilato di:
- sobillare il popolo;
- impedire di dare i tributi a Cesare;
- affermare di essere il Cristo re.
La reale motivazione per cui Gesù viene condannato a morte, la bestemmia, non viene inserita nei capi di imputazione proprio perché priva di rilievo agli occhi dell’autorità romana.
* Il processo dinanzi a Pilato *
Il procuratore della Giudea, Ponzio Pilato, attenziona solo l’ultimo dei tre capi di imputazione. Effettivamente Gesù, nella sua rivoluzione pacifica, non aveva mai sobillato il popolo ed anzi aveva affermato di “dare a Cesare ciò che è di Cesare”.
Ponzio Pilato, secondo il racconto fatto dallo storico Flavio Giuseppe, non eccelleva nei rapporti con la popolazione locale. Diversi furono i suoi “incidenti di percorso”, culminati talvolta con la violenta repressione di coloro che si erano ribellati ad alcuni dei suoi atti (inconsciamente o esplicitamente) provocatori. Per tale motivo sembrerebbe che Pilato fosse sotto stretta osservazione da parte del suo superiore, il governatore della Siria, Vitellio. Per governare senza molti problemi, Pilato aveva bisogno della collaborazione dell’aristocrazia ebraica. In tal senso, un dato significativo della cooperazione tra comunità ebraica e autorità romana è la coincidente rimozione sia di Pilato che di Caifa nel 36 d.C.
“Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?». Pilato rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» – (Giovanni 18).
La risposta data dall’imputato spiazza chi lo interroga. Gesù dichiara di non essere Re dei giudei, facendo cadere l’accusa dei sommi capi: non voleva sostituirsi all’autorità romana.
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici».
La risposta di Gesù è enigmatica e può dar luogo a più interpretazioni:
- lo stai dicendo tu, ma non è così;
- è così perché lo stai dicendo tu;
- lo stai dicendo tu e me ne dai conferma.
Pilato alla luce di queste risposte non trova alcuna colpa in Gesù. D’altro canto quanto affermato da una persona che si spaccia per Messia non ha alcun rilievo agli occhi del procuratore incluso quel «tu lo dici: io sono re» espressione enigmatica che secondo uno dei principi centrali del diritto romano (“in dubio pro reo”) porterebbe già all’assoluzione dell’imputato.
Prima di decidere, tuttavia, Pilato si spoglia della propria competenza, investendo della decisione Erode Antipa, re della Galilea, di cui Gesù era suddito. Decide pertanto di applicare il criterio del forum domicilii in luogo del forum delicti. Ma lo stesso Erode non trova alcuna colpa in Gesù prendendolo per un malato di mente, prova ne è la corona di spine e la veste rossa con cui Gesù viene “rispedito” a Pilato affinché sia questi a decidere.
* L’amnistia pasquale *
Dinanzi ad un soggetto innocente ed alla pressione dei sommi sacerdoti, Pilato cerca di rimettere la decisione al giudizio della folla, ponendo la scelta tra Gesù e un tale Barabba.
«Vi è tra voi l’usanza che io vi liberi uno per la Pasqua: volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
* La sentenza *
Qui si consuma l’ultimo atto di un procedimento pieno di orrori: il giudice fa decidere il popolo.
La folla di persone radunate presso il palazzo del procuratore è composta da oppositori politici di Gesù e da sostenitori di Barabba, un brigante capo- popolo. Il verdetto è scontato e Gesù viene condannato a morte.
Sulla croce il dispositivo della sentenza: «Gesù il Nazareno, Re dei Giudei».
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– Salvo Catalfo