Insolita (ri)lettura dell’antica storia adranita
Intervistiamo Francesco Branchina, adranita e autore di un insolito alternativo trattato storico–archeologico avente titolo “Dalla Skania alla S(i)cania”, una (ri)lettura della storia adranita.
D. Il suo ultimo libro è l’ennesimo di una sequenza di opere a sfondo storico. Perché scrivere di “Skania” e “Sicania”?
R. Il tutto parte dalla domanda di un fanciullo: chi era il dio Adrano? Perché aveva scelto come sede la nostra città? Quale stirpe di uomini erano quegli adraniti che avevano scelto, o, meglio, creato quel dio a loro immagine e somiglianza? L’ex voto del fanciullo, che aveva giurato di portare alla luce il tempio del dio, messo a tacere dall’irruenza mondana giovanile, venne ripreso dall’uomo con una variante: non era importante tanto far riemergere le colonne del tempio, ma, piuttosto, lo spirito di quel dio, affinché tale spirito si trasferisse nei figli di coloro che, quattro millenni orsono, gli avevano dedicato quel tempio o, piuttosto, un boschetto sacro. Destare quel dio dal letargo potrebbe costituire un simbolo importante per Adrano, che, da almeno un cinquantennio, deve fronteggiare non più eserciti di nemici agguerriti, ma un infausto destino. Oggi, più che mai, abbiamo il bisogno di opporre alle montagne di spazzatura che ci sommergono, simbolo vivente del nostro secolo di decadenza, forze spirituali positive, che già i nostri antenati attinsero dal dio Adrano, il quale fece della nostra città un faro per l’isola tutta; qui venivano da Zancle, da Tindari, da Lentini, da Catania, da Enna, da Taormina, da Mineo. Adrano era un centro di forza per sé e per gli altri. Eppure, oggi, è come se, quel periodo storico, non fosse mai esistito. Credo, tuttavia, che quelle forze siano latenti. Uno spirito non muore: può affievolirsi, indebolirsi, ma, pure, riprendere vitalità e ritornare in tutta la sua potenza. La genetica è una scienza esatta: se è rimasto un solo gene nelle nostre vene di coloro che costruirono quelle mura, dico di quei ciclopi, prima o dopo si ripresenterà. Perché la Skania mi chiede Lei? Perché abbiamo ripercorso, a ritroso, il tragitto di quei Sikani, raccontati da Tucidide, di cui già lo storico ricercava la provenienza. Tale ricerca ci ha portato in un insospettabile nord Europa, la Skania, appunto, troppo spesso definito spregiativamente “barbarico”, che si è rivelato, invece, pregno di una spiritualità impensabile. Il tragitto era segnato da briciole, come nella fiaba di Pollicino, rappresentate da reperti archeologici, come gli splendidi capitelli rinvenuti nel Mendolito, che portano scolpiti il simbolismo solare per eccellenza, la ruota del sole e la spirale, o il Pitos del III millennio a. C., costellato da croci potenziate esposto nel nostro museo. E, ancora, altre tracce: l’andronimìa, l’idronimìa e la toponimìa. Tutto parlava protogermanico nella nostra città, la quale, anche a motivo del culto del Dio, mantenne quella lingua e quello spirito fino al V secolo a. C., resistendo all’avanzata greca e, poi, soggiacendo, definitivamente, a quella romana.
D. Il testo espone un lavoro di studio minuziosamente centellinato. Come è stato sviluppato e quali sono stati gli strumenti d’indagine e i mezzi interpretativi di questo trattato storico–archeologico?
R. Per indagare un mondo così distante nel tempo, è, prima di tutto, necessario immergersi in esso; è necessario che avvenga una catarsi con la quale si spenga ogni contatto col modernismo. Laddove sia possibile, cioè dove vi sono antiche vestigia, bisogna entrare in contatto fisico con esse, prendere un coccio di “pitos” in mano, toccare le pietre, esaminare il luogo, guardare il cielo che sovrasta i luoghi che conservano la memoria storica. Aiuta, per esempio, percorrere, come avrebbe fatto un adranita di tre millenni fa, il tragitto che fiancheggia le mura, le nostre mura ciclopiche o pelasgiche (sono state indicate, per tanto tempo, con questo nome prima che venissero definite “dionigiane” da chi, con scarso senso patrio e viziata prospettiva storica, ne ha attribuito la costruzione al tiranno). Dopo essere diventato uno di loro è più facile comprendere e incrociare i documenti, fino a concedersi il piacere di ravvisare, nella narrazione di Diodoro Siculo, delle incongruenze, in seguito alle quali si sgretola la convinzione, secondo la quale, sarebbe stato Dionigi il “fondatore” di Adrano. Non da un tiranno siracusano fu fondata Adrano, ma, piuttosto, fu la nostra città a portare la democrazia a Siracusa nel 344 a.C., al seguito di Timoleonte, mandando in esilio il tiranno Dionigi il Giovane. La storia adranita, con questo episodio, si illumina di autentico spirito democratico: nel periodo in cui a Catania vi era il tiranno Mamerco, a Lentini Iceta, ad Agira Agirio, a Siracusa Dionigi il Giovane… Adrano, libera dalla presenza di tiranni, può fornire un contingente militare a Timoleonte. Sono queste pagine di storia che andrebbero insegnate nelle nostre scuole e ricordate nei nostri focolari, se ne esistono ancora.
D. Il suo ultimo libro propone una (ri)lettura inedita e unicamente esclusiva della storia locale. Cosa potrebbe significare tutto ciò per chi è ancora ben saldato alla tradizionale conoscenza del nostro territorio?
R. Credo che, chiunque rimanga insensibile e sordo al contributo altrui, rifiutandosi di prendere in considerazione ipotesi alternative, determini la propria condanna all’immobilismo culturale. Uno studioso è motivato, nella sua indagine, da un moto interiore che lo spinge alla ricerca della verità; quando ci si convince di averla trovata, un altro moto naturale dello spirito umano è quello di rendere partecipi del successo le persone che gli sono affini. Naturalmente, uno studioso, non propone dogmi, ma sottopone ai lettori indagini e risultati che debbono poter essere analizzati, per condividerli e svilupparli o, anche, per contestarli. Per quel che mi riguarda, considero lo studio in questione nient’altro che un contributo alla riscoperta di una storia, la nostra, ancora poco indagata e fondata su dei cliché. Tanto per fare un esempio, si continua a leggere su riviste, giornali, sul sito del Comune, che, il Mendolito, dista da Adrano otto Km. In realtà, dista poco più di due Km, come si può appurare percorrendo la strada che, dall’unica torre rimasta delle vecchie mura, inglobata nella Chiesa di San Francesco, conduce, scendendo per il vecchio macello, fino alle mura del Mendolito, che iniziano dall’incrocio della strada che conduce, a sua volta, a Bronte, da un lato e, al frantoio Crisafulli, dall’altro. Un errore del genere condiziona già di per sé l’indagine sul Mendolito; infatti, se l’esistenza di due città può essere compatibile ad 8 Km di distanza, l’una dall’altra, non lo sarebbe più alla distanza di due o tre Km. Si capisce, dunque, come la storia può essere falsata da errate informazioni e da dilettantistiche e superficiali deduzioni.
D. Quanto di nuovo suggerito da Lei nel libro in che misura rappresenta qualcosa di autenticamente inedito e, in quale chiave, descrive, invece, qualcosa di ignorato dai nostri studiosi del passato?
R. Credo che la chiave di volta del nostro saggio sia il tentativo ivi effettuato di interpretare la lingua sicula e, in particolare, l’iscrizione della pietra Urbica in cui, a nostro avviso, si rintracciano le radici di un popolo, il nostro, che affondano nel fertile humus dell’intelligenza ed operosità adranita, manifestatasi da subito nello sforzo di sottomettere le ostili forze del territorio lavico. In merito all’ipotesi, ampiamente argomentata, delle origini protogermaniche del popolo adranita, che mi hanno spinto a prendere contatti con l’Ufficio Cultura dell’Ambasciata Svedese, a Roma, è suffragato, anche, dagli studi sul tema delle grandi migrazioni protogermaniche avviati fin dal XIX secolo. La novità consiste nel fatto che non era ancora stata presa in considerazione la possibilità che queste si fossero spinte fino in Sicilia, realizzando la cultura Sicana. Quanto agli storici adraniti, guardo con affettuosa simpatia a Sangiorgio Mazza, al punto da perdonargli certe esagerazioni campanilistiche, in quanto ebbe delle felici intuizioni, come quella dell’improbabile fondazione dionigiana della nostra città.
D. “Dalla Skania alla Sikania” cosa ha in comune con i suoi primi libri e quale anello di congiunzione ha con quello attualmente in fase di stesura?
R. Lo spirito che mi ha mosso a scrivere il primo saggio va rintracciato nella volontà di cancellare un debito culturale, in realtà inesistente, contratto nei confronti di un Oriente che, già dal buon Catone, fu più temuto che invidiato. Questo complesso d’inferiorità è stato generato dalla perdita di memoria della nostra storia, dovuta al fatto che l’Occidente preferì eternizzarsi attraverso l’azione piuttosto che attraverso la letteratura. Il saggio “Dalla Skania alla S(i)cania” ha, in comune con gli altri, un medesimo modo di concepire il mondo, in una chiara e lungimirante visione di esso in chiave occidentale. Nel prossimo, in fase di stesura, l’anello di congiunzione rimane il modo occidentale di interpretare il divino. Probabilmente, sconcerteremo, con quest’ultimo lavoro, quanti, fino ad oggi, hanno fondato le loro certezze solo su un passa parola, metteremo a disagio quanti hanno creato le loro fortune veicolando fantasie, sveleremo una verità scomoda per molti, ma attesa, come un riscatto, da pochi. A questi ultimi, da sempre, ci siamo rivolti in tutti i nostri saggi. La via che conduce alla verità non è mai percorsa in funzione di accrescere i proseliti, ma di chiamare, a raccolta, i sopravvissuti, non quella di permettere di salire a quanti attendono il carro del vincitore, ma quella di condividerla con gli affini e, poiché ritengo Lei uno di noi, vorrei farle dono di questo saggio, non appena uscirà.
A.M.: Grazie di cuore.
Alessandro Montalto