Guardando al degrado in cui versa la nostra amata città, un tempo abitata da dèi, non possiamo fare a meno di volgere la mente al passato e fare un parallelismo con l’infausta era odierna, incapace di produrre non tanto dei patrioti (non si pretende così tanto!) ma neppure buoni amministratori, semplici burocrati che siano in grado di svolgere con competenza il proprio compito, politici capaci di infondere un minimo di orgoglio e ottimismo a quei concittadini desiderosi di  mettere a disposizione della città le proprie risorse intellettive ed economiche. Questi volenterosi concittadini da chi o da cosa potrebbero essere stimolati e motivati nei loro investimenti se ormai il degrado si manifesta come un nemico invincibile che, giorno dopo giorno, erode alla civiltà adranita pezzi di territorio sempre più ampi? Non solo l’intera città è invasa dalla sporcizia, dagli odori nauseabondi, sostituitisi a quello della zagara che, fino a decenni fa, ispirava i compositori di canti folcloristici, ma lo sono perfino le campagne limitrofe e gli argini di quel fiume tanto caro ai poeti, paragonabile, per gli antichi Adraniti, al Gange degli indiani, al Simentha dei Troiani e al Nilo degli Egizi.

È certo mortificante constatare come noi, uomini “evoluti” del XXI secolo, che ci spostiamo in un batter d’occhio dalla Sicilia alle Americhe, che abbiamo sostituito i cavalli motore ai cavalli che trainavano lenti e pesanti carri di legno, siamo regrediti sul piano della civiltà rispetto ai tempi in cui Apronio, il fido liberto del pretore romano Verre, il ladrone delle opere d’arte siciliane, poteva banchettare nei ristoranti della piazza di Adrano accompagnato dal suono dei flauti, arte che i locali musici avevano appreso dalle Muse, e della lira, antico strumento prediletto dal dio Adrano. Quegli stessi musici suonavano anche per i turisti escursionisti citati dal geografo e storico Strabone, i quali, per visitare le pendici dell’Etna, erano costretti a partire da Adrano, unico luogo in cui potevano trovare esperte guide montane. Sì, proprio da Adrano partivano le guide dirette alle pendici del vulcano, ancora oggi delizia di studiosi, pittori, poeti che continuano ad immortalarlo attraverso canti e strofe, pitture e foto che lo ritraggono ora placido, a giganteggiare quale antico custode dell’isola, ora furioso distruttore del territorio, ora come un innocuo padre adirato che, tuonando, rimbrotta i propri distratti figliuoli. Il nostro geografo, essendo stato compagno di scuola dei figli di Cicerone, molto probabilmente si avvalse, per la compilazione della sua opera, anche degli appunti di quest’ultimo, redatti dall’oratore romano sia per motivi di lavoro, quando accettò di difendere in un processo i Siciliani vessati dall’ingordo pretore romano Caio Verre, sia per curiosità di antiquario, nel periodo in cui fu pretore in Sicilia, nel 75 a.C.

Certo né Strabone né Cicerone chiamano Adrano col proprio nome in quanto il primo, come già affermato, utilizza quale fonte Cicerone, che denomina Adrano con il precedente nome di Etna, certamente per un espediente processuale, come abbiamo dimostrato nelle nostre precedenti pubblicazioni[1]. Infatti, chi ci ha seguito fin qui nelle nostre ricerche, credo non abbia più dubbi sul fatto che Adrano abbia subito nel tempo diverse  rinominazioni, ultima in senso cronologico quella di Adernò che, dal periodo arabo, si è protratta fino al 1929, data in cui, per lungimirante e divino intuito del concittadino consigliere professor Luigi Perdicaro, mai abbastanza ricordato per tale merito, è stato ripreso l’augurale nome del dio Siculo Adrano. Strabone afferma:

Vicino Centuripe c’è la città di Etna (… ); essa dà accoglienza a quelli che salgono sul monte (Etna) e fornisce ad essi la guida: è là (Etna\Adrano) che inizia la zona della vetta. Le terre intorno sono nude e cineree, coperte di neve d’inverno; in basso sono occupate da foreste e piantagioni di ogni specie”.

Grazie a questa descrizione del geografo, assolutamente compatibile con Adrano, possiamo immaginarci una città, denominata Etna da Cicerone e Strabone, caratterizzata dalla medesima grande e splendida piazza che ancora oggi dà ampio respiro al nostro centro; unica differenza, al posto del castello medievale e della chiesa Madre, prestigiosi monumenti che oggi troneggiano nella piazza, visibili icone di una grandezza dello spirito adranita che attende pazientemente d’essere ridestata, si trovava il tempio del dio cui tutti i siculi di Sicilia rendevano omaggio: il dio Adrano. Il dio siculo però nell’età di Cicerone non era più all’apice del culto, a motivo della chiusura del suo tempio al pubblico culto, decretata dai Decemviri tra il 215 e il 213 a.C.; chiusura dettata dalla paura che l’irriducibile combattività degli Adraniti nei confronti dei Romani fosse dovuta al sostegno di quel temibile dio, tanto simile alla loro primordiale divinità, Giano, l’avo sicano non ancora scalzato dal giovanile impeto di Giove.

Apronio, in quel lontano I sec a.C., doveva trovarsi così bene nella turistica cittadina di Adrano che, durante i giorni della razzia perpetrata a danno delle città confinanti, ne fece il suo quartier generale. Irridendolo, Cicerone lo paragona ad un “tiranno” di greca memoria, istituendo verosimilmente un parallelismo tra Dionigi/Apronio ed Etna/Adrano, città notoriamente ostile al tiranno greco; quando si ritirava dai bagni o dalla palestra, la cui memoria è stata immortalata in un dipinto ottocentesco del pittore “turista” francese Jean Houel, amava starsene nella piazza centrale, banchettando, dove riceveva i Centuripini ed altri commercianti ed agricoltori dei paesi vicini, che volevano trattare con lui le loro questioni.

Strabone si limita a citare un fiorente turismo sportivo, quello dell’escursionismo sul monte Etna, e nell’espressione “dà accoglienza”, da lui utilizzata in riferimento alla città, non facciamo fatica ad immaginare la presenza di strutture atte ad ospitare gli escursionisti; possiamo anche presumere la presenza di un “turismo” religioso, visto che Plutarco, raccontando la vita di Timoleonte, cita espressamente la presenza di pellegrini lentinesi nel santuario di Adrano, mentre era in corso una funzione religiosa, che attentarono alla vita del generale greco. Il fatto che la presenza di questi sicari stranieri in veste di pellegrini dentro al tempio non avesse destato alcun sospetto nei circospetti Adraniti, è chiara dimostrazione del fatto che, durante le festività in onore del dio Adrano, nel nostro santuario confluivano moltissimi pellegrini provenienti dalle città sicule della Sicilia. Infatti la città di Adrano, con il suo prestigioso tempio, edificato sull’acropoli perché facesse da faro all’indomito spirito degli isolani, ancora al tempo di Timoleonte (344 a. C)  rappresentava per i Sicani\Siculi quello che il Vaticano rappresenta per i cristiani o la Mecca per i musulmani. E a testimonianza del fatto che lo spiritus loci non si è mai allontanato dall’antica acropoli adranita, che ospitava la statua munita di lancia del furioso avo (odhrano), nonostante oggi nelle nostre sacre contrade troneggino profanatrici montagne di rifiuti quali nuovi santuari del progresso, non possiamo non citare l’illustre principe di Torremuzza Paternò-Castello che, attento e colto “turista”, agli inizi del Novecento, lasciando la nostra città, ancora rivestita di sacrale aura, dopo averla visitata,  e volgendo lo sguardo là ove non aveva dubbio potesse tributarsi l’antico culto al dio indigeno Adrano, poté pronunciare le seguenti parole:

Mai tu (città di “Adranum”) sarai da me dimenticato, signore e dominatore d’una terra divina, sacra ai frutti d’oro delle Esperidi. Io mi allontano sì ma nell’orecchio mio risuonano ancora i latrati dei cento molossi cari al tuo dio e il canto augurale dei tuoi sacerdoti.

Parole così pregne di religioso ardore possono scaturire solo da chi è capace di avvertire, grazie alla propria nobiltà d’animo, l’ancora forte presenza dello spiritus loci di un territorio carico di energie. Energie che a nessuno potevano sfuggire una volta entrati nella loro influenza se il compilatore del Dizionario di Geografia Universale, redatto a Torino dalla Società Editrice Italiana nel 1854, citando la città etnea di Adernò, non poté fare a meno di dissertare abbondantemente sul dio tutelare Adrano, sulle imponenti mura che cingevano la città, sul suo “bellissimo sito”.

Va detto che, oltre due  millenni fa, era tutta la contrada adranita che godeva di una fiorente economia visto che, particolarmente nel periodo timoleonteo, si produceva in loco una pregevole fattura di vasellame (vedasi l’articolo: Etna, un matrimonio illustre nella Adrano del VI sec a. C.), esportato in tutta la Sicilia orientale. Non ci soffermeremo ulteriormente sulla fama di cui godeva il culto dei Palici (oggetto di un recente articolo), che attirava i poeti fra i boschi di alti frassini attigui al Simeto, come apprendiamo da Virgilio;  è il caso però di ricordare che presso il Simeto sorgeva la primordiale “zona industriale” di Adrano, giunta al suo maggior sviluppo produttivo e occupazionale nel periodo di Timoleonte. Infatti, nel sito archeologico del Mendolito, che si trova a soli tre Km da Adrano e non a otto, come si legge negli articoli di qualche studioso e, ahimè, perfino nel sito Web del Comune, secondo le nostre motivate deduzioni, avevano luogo le attività di fonditura, tessitura, artigianato, coltura e trasformazione dei prodotti agricoli, zootecnia, nonché lo stoccaggio nei depositi in loco dei prodotti, parte venduti nelle botteghe, parte imbarcati dai Cilliri del Simeto verso il porto di Catania e, da qui, verso le altre rotte del Mediterraneo. L’area del Mendolito costituiva un enorme emporio sulle rive del Simeto ove sussistevano le condizioni per allevare, nei recinti sacri, e poi vendere ai pellegrini le ingombranti vittime sacrificali per i vicini culti del dio Adrano e dei Palici: tori, capretti e cinghiali, che certo i pellegrini non potevano portare dalle loro città di provenienza ma acquistare in loco, così come in loco dovevano acquistare gli ex voto esposti nelle numerose botteghe: statuette e suppellettili varie, che facevano la fortuna dell’artigianato locale. I pellegrini e gli escursionisti di cui parla Strabone soggiornavano invece nell’acropoli, in comode strutture ricettizie. Immaginiamo i numerosi turisti che, nelle caldi notti estive,  cenavano negli affollati ristoranti della piazza centrale, rilassati dall’armonico suono dei citaristi, sorseggiando l’allegro vino delle nostre ricche contrade, godendo, se erano fortunati, dell’incantevole spettacolo di un’eruzione e dell’ineguagliabile bellezza delle fanciulle, prolifere antenate delle attuali,  mentre giunoniche nelle loro perfette fattezze, messe in evidenza dal capriccioso libeccio che giocava con le loro lunghe vesti, solcavano le lastricate vie della nostra evoluta città.

hnLeggendo Cicerone e Strabone, confrontando i loro tempi ai nostri, ci chiediamo cosa abbia provocato tale regresso sociale e quale morbo abbia causato lo stato di torpore in cui versano non solo gli amministratori, a cui vanno certo le maggiori colpe del degrado, ma i nostri stessi cittadini. Eppure il fiume non ha mutato il suo corso e continua ancora ad accarezzare col suo placido incedere il gran masso su cui è stata ritagliata dal devoto scalpello adranita l’ara degli dei Palici; l’Etna continua a dare vita alle sue spettacolari, estive eruzioni e le nostre fanciulle non sono meno belle delle loro antenate; i numerosissimi luoghi di culto della nostra città ospitano ancora divinità, diverse e forse più sobrie di quelle di due millenni fa, ma altrettanto attraenti, ritratte in pregevoli pale di Zoppo da Gangi, mentre ori cesellati e fini stucchi coprono gli archi che sostengono le ampie navate delle chiese; la piazza centrale, che tanto attirava perfino l’infame Apronio, è ancora lì, grande e prestigiosa come allora, vi mancano forse i “ristoranti” in cui egli e molti altri turisti  piacevolmente s’intrattenevano, ma vi sono al loro posto eleganti bar, nei quali ci si può altrettanto piacevolmente intrattenere.  

Gli Adraniti, che Cicerone adulava durante la sua arringa nel processo a Verre, non si piegavano di fronte a nessuna difficoltà ed erano d’animo forte, primeggiavano in eloquenza, visto che Cicerone li conduce a Roma per farli deporre contro il vile pretore romano. Gli Adraniti che ci descrive Cicerone erano intraprendenti, avevano iniziativa e certamente spiccato senso degli affari se, dopo poco più di un secolo da quando la città era stata rasa al suolo dall’assalto romano, in seguito ad un’eroica resistenza, Cicerone la descrive opulenta, con piazze, bagni e palestre, abitata da cittadini facoltosi e, soprattutto, da abili retori e politici. Questi ultimi, come dimostrano gli apprezzamenti di Cicerone, seppero riconquistare l’antico prestigio della città antitirannica, minato, se non del tutto perduto, dopo la sconfitta bellica del 213 a. C. Era accaduto, infatti, che  in seguito alla sconfitta subita, i Romani avevano confiscato ai cittadini Adraniti e fatto diventare ager pubblico tutto il terreno agricolo, dandolo successivamente in affitto, per la maggior parte, ai Centuripini. Anche il trasporto fluviale, che era sempre stato nelle mani degli armatori adraniti, detti Cilliri (vedasi articolo I Cilliri del Simeto), era passato ai Centuripini, dato che Cicerone accenna ad un episodio, legato al processo di Verre, dal quale si evince che la città di Centuripe possedeva navi nel porto di Catania. Ebbene, “la politica patriottica” intrapresa dai nostri abili concittadini di due millenni or sono fu così ben congegnata che, in breve tempo, la città seppe riappropriarsi di tutto ciò che era andato precedentemente perduto e probabilmente acquisì perfino nuovi privilegi visto che prestigiosi cavalieri romani come Lollio decisero di abitarvi. Anche il transito fluviale ritornò in mano degli Adraniti visto che, ancora nel mille e ottocento, la Chiesa Madre, che ne aveva ricevuto in dono l’appalto, lo diede in affitto alla famiglia adranita degli Spitaleri.         

Se oggi quei nobili scranni dell’emiciclo comunale, sui quali si assisero i nostri degni avi per deliberare la creazione delle piazze, delle ampie strade, dei giardini, dei palazzi prestigiosi di cui è pieno il centro, fiore all’occhiello della nostra città, sono occupati da arrampicatori sociali che solo qualche giorno fa hanno appreso dell’esistenza di un’epigrafe nella Valle delle Muse, della presenza di un’ara degli dèi Palici o delle stesse millenarie mura ciclopiche che, per palese servile atteggiamento, hanno rinominato “dionigiane”, attribuendole ad un tiranno cui Etna/Adrano fu sempre ostile; se la loro occupazione consiste solo nell’inseguire un’effimera visibilità, nell’attesa di cavalcare l’onda perfetta, ciò non deve precludere al cittadino comune, vero erede e detentore delle tradizioni, di contribuire, nell’ambito del proprio ruolo e delle proprie possibilità, a conservare, preservare e far conoscere le proprie radici, utilizzando gli strumenti di cui dispone. Abbia cura il contadino, che ha la fortuna di aver il proprio podere in un antico “centro di forza”, delle antiche vestigia che ivi insistono, come fossero un’eredità personalmente ricevuta dagli avi; vi dedichi dieci minuti del suo tempo per togliere i rovi che le ricoprono, così come i cristiani e i musulmani li dedicano per togliere la polvere dagli altari delle loro chiese e moschee. Abbandoni il commerciante adranita l’antico e contagioso male dell’esterofilia, che lo porta a far uso di nomi incomprensibili per intitolare le proprie attività e utilizzi per queste simboli e lingua “sicula” affinché, in un’epoca in cui le uniche onde sonore prodotte in quest’area si manifestano sotto forma di cacofonici sproloqui, possano fungere da possibile messaggio evocatorio degli antichi splendori. Ritorni perciò il simbolo della Lira, strumento caro al dio Adrano, quale insegna di un bar o icona di un biglietto da visita della banda musicale cittadina. Riappaia nelle insegne dei ristoranti e dei negozi artigianali il capo coronato d’alloro del dio Adrano in veste sacerdotale o quello in veste guerriera con elmo. Le dormienti Muse tornino a suonare i loro flauti negli eleganti bar che, numerosi, propongono ai clienti deliziose specialità locali, nella grande piazza, sotto un castello che l’Europa ci invidia. Torneranno allora, malgrado l’attuale aridità amministrativa, Apronio, il principe Paternò-Castello, Jean Houel, gli escursionisti citati da Strabone, i pellegrini delle antiche pietre, ma soprattutto le famiglie adranite, prime ad aver il “diritto” di rivivere la propria città, di far nutrire i propri figli dei simboli di forza che, sotto forma di “eterne pietre”, sopravvivono ai caduchi individui inseguitori di personali opportunità.

Che l’Adranita si lasci affascinare dal sopravvissuto ma ancora magnetico paesaggio, dalla propria storia, dai ruderi che di questa sono silenti testimoni e soprattutto impari ad ascoltare lo spiritus loci, in particolare quello che, su quell’ara non più fumante di odorose vittime, se ne sta seduto, con il mento stretto nel palmo e lo sguardo assorto, guardando al fiume, ai suoi eterni flutti che, come gli uomini, si avvicendano, attendendo che un erede riaccenda l’estinto fuoco. Impari a guardare con gli occhi del principe Paternò-Castello che, sentendosi in cuor proprio un po’ Adornese, di Adrano scrisse:

Se v’è luogo in Sicilia dove maggiormente fiorisce l’arancio, dove il verde delle piante si conserva perenne e dove l’Etna nevoso si mostri in tutto il suo vetusto splendore è appunto questo. Il Simeto, il più gran fiume dell’isola, sacro alle leggende mitiche, scorre placido sottostante, e questa striscia d’argento, cara ai poeti, ora lambisce luminose arene, ora si restringe in sassose sponde, ora tortuosa gira una costa, ora rasenta, increspata, i muri d’una casa colonica, ma sempre il suo corso è apportatore di bene e di ricchezza, d’ubertosità sana e fresca e la sempreverde conca adornese che abbiamo sott’occhio, forse il più bel pezzo di Sicilia, n’è prova manifesta” 

(Giovanni Paternò-Castello –  Nicosia, Sperlinga, Cerami, Troina, Adernò – Italia artistica -Bergamo 1907).    

Ad maiora

Francesco Branchina

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[1] È il caso di sintetizzare le ragioni per le quali Cicerone utilizza il vecchio nome Etna piuttosto che Adrano. L’avvocato difendeva, assieme alle altre città siciliane che avevano subito i torti del pretore romano Verre, pure gli abitanti di Adrano. La città nel passato aveva assunto il nome Etna e si chiamava ancora così quanto aveva dato aiuto ai cittadini democratici siracusani in lotta contro il tiranno Dionigi.  Cicerone, che paragona Verre ad un Tiranno greco, utilizza dunque la denominazione Etna al fine di richiamare la gloriosa lotta anti-tirannica della città. Lo stesso espediente, seppur di segno opposto, Cicerone lo attua per i Messinesi, spregiativamente definiti Mamertini. Infatti questi ultimi si erano macchiati di orrendi delitti, proprio come stavano facendo i Messinesi aiutando Verre a mettere in atto le vessazioni nei confronti dei Siciliani. A conferma del fatto che il nome Etna utilizzato da Cicerone fosse in realtà un sinonimo di Adrano, osserviamo che Cicerone elenca tutte le città, i paesi, i villaggi, i sobborghi siciliani, anche i più piccoli e irrilevanti, come Caronia e Mistretta, oggetto degli appetiti del pretore e non cita una sola volta Adrano,  l’unica città che, nel 263 a. C., aveva orgogliosamente  resistito all’assalto delle legioni romane.