No, non grideremo al miracolo! Lasceremo i prodigi al monopolio delle grandi religioni. Questa foto non è stata scattata da Paolo sulla via di Damasco, ma dal giovane Alex Caruso sulla via di casa, non da un chierico preso da mistica estasi, ma da uno stremato parrucchiere che distrattamente percorreva la solita strada che dal proprio negozio, quasi all’ingresso di Biancavilla, lo conduceva a casa, ad Adrano!
La prontezza di spirito del nostro giovane parrucchiere, che ha colto l’attimo, immortalando l’immagine creata non da una nube scolpita dalle correnti ascensionali, ma dai vapori che fuoriescono dal vulcano Etna, monte consacrato al dio Adrano e con il quale, in un’epoca più tarda, lo stesso dio venne identificato, ha creato i presupposti perché questo antico ed originario dio del vetusto popolo siciliano tornasse ad essere oggetto delle nostre meditazioni.
Da quando il consigliere comunale adranita Luigi Perdicaro – al pari di quegli antichi sacerdoti, denominati Adraniti[1] ancor prima che la città tutta venisse consacrata al dio omonimo[2] – pronunciando il nome del dio dopo un millennio di silenzio, lo ebbe destato dall’oblio, anche Adrano, la città santuario e sede del dio, tornò a fiorire, salvo poi ripiombare nel vistoso ma superficiale degrado attuale. Dalle macerie della seconda guerra mondiale la città si riprese energicamente: rifiorì il liceo, già prima prestigioso, ove insegnavano professori di ragguardevole talento intellettuale; i cittadini dei paesi limitrofi, dai quattro punti cardinali ove sono collocati, riconobbero alla città l’indiscusso ruolo di omphalos e ripresero a recarsi in Adrano per farsi curare, per fare i loro acquisti, per risolvere le loro incombenze e\o dissidi catastali, telefonici, elettrici, giudiziari, come in tempi antichissimi giungevano in città per rendere culto al dio Adrano, come attestato da Plutarco.
Osserviamo con attenzione, guardiamo oltre le apparenze, scostiamo la cenere che ricopre la brace: osserveremo un pullulare di nuova vita che, per il momento, come un lattante intento a succhiare nuova linfa vitale, non lascia trapelare il gigante che diverrà, la trasformazione che potrebbe essere impressa a questa città un tempo abitata da dèi. L’invisibile fermento culturale che si agita nel sottobosco adranita non appare ancora perché coloro che ne sono il fuoco animatore rifuggono dai palcoscenici; tuttavia, esso è ormai posto in essere. Una miriade di associazioni sono alacremente a lavoro e sviluppano progetti di lungo respiro. L’innegabile degrado, che è assai più visibile rispetto alla celata e antitetica opera di ricostruzione in atto, più che scoraggiarci ci sconforta; ci rattrista constatare che il degrado possa aver avuto il sopravvento in una città abitata dagli eredi di quei cittadini che, solo qualche decennio fa, la resero rispettabile e magnifica. Ci sconforta constatare che l’opera di degrado in atto è stata resa possibile da amministrazioni e amministratori di scarso spessore politico.
Era forse Adrano, il dio evocato dal prof. Luigi Perdicaro, l’artefice della rinascita dell’antica Sua dimora, finalmente restituita al nome originario? No, lasciamo queste congetture agli ingenui. Tuttavia a noi nostalgici, a noi innamorati della nostra città, a noi che destiamo dal passato le antiche glorie per riproporle quale esempio nel presente, a noi che lavoriamo, ognuno a proprio modo, per il migliore futuro dell’amata patria, piace dare a questo curioso volto “scolpito” nella cinerea nube etnea, che s’alza come un fungo nel cielo, un valore di monito e nel contempo di felice presagio; a noi piace credere che l’antico Dio, al quale dobbiamo il nostro attuale nome di Adraniti, voglia ricordarci che le antiche forze che governavano la città si sono ridestate, richiamate vigorosamente dal grido evocatorio di chi fu capace di restituire il vero nome al paese ed ai suoi abitanti. Da quel millenovecentoventinove, direttamente o indirettamente, la rinascita ufficiale del nome Adrano e la pronunzia consapevole del nome, composto dal lessema, già di per sé fortemente onomatopeico, odhr[3] e dal termine Ano (dio, antenato), hanno suscitato la manifestazione del “furore dell’Avo”, che è possibile percepire sotto una miriade di forme e tutte miranti ad ottenere un cambiamento in ascesa.
Fra breve, quando i pavidi che li occupano indegnamente, lasceranno i loro scranni in quel consiglio comunale destinato ai “migliori” Adraniti, quando eleggeremo un nuovo e degno consesso di uomini che abbiano in vista esclusivamente il bene di questa città, ci si ricordi di Luigi Perdicaro, di come egli, impavido, da fascista si fosse opposto con abnegazione ad una scellerata ordinanza fascista, decisa nei distanti uffici romani, secondo cui dallo stendardo adranita avrebbe dovuto essere eliminata l’aquila, simbolo di regalità e libertà, sacra al dio Adrano. L’aquila e il dio, ritratti nelle monete di duemila e cinquecento anni fa, rappresentavano quei simboli di forza e regalità a cui Perdicaro e i suoi contemporanei non avrebbero mai rinunciato. Quando arriverà il momento ci si ricordi, dunque, di come questo patriota adranita tenne testa ai gerarchi romani e di come sottomise, con la propria capacità oratoria alimentata da patrio ardore, il Senato romano al Senato adranita.
Ad maiora
[1] Il nome Adraniti deriva dall’antica lingua nord europea o siculo\sicana: gli Hodhr-An-iti (furore-avo-evocare) sono coloro che evocano il furore del dio\Avo.
[2] Plutarco, Vita di Timoleonte.
[3] Il significato di hodhr, secondo Dumezil, il quale si rifà ad Adamo da Brera, è “furore”
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– Francesco Branchina
Un appunto al mio amico Francesco … È stato un grande errore cambiate il nome Adernò in Adrano, perché l’etnico Adernò e più vicino ad Adranòn. L’importanza di Adrano nei secoli non può ricercarsi nel periodo greco ma negli ultimi secoli che l’hanno vista capoluogo della contea di Adernò.
Giuseppe, è giusto citare la fonte di quello che si scrive. Ovvero Ron Goldstein tradotto dal sottoscritto: Carmelo Russo
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Giuseppe, è giusto citare la fonte di quello che si scrive. Ovvero Rom Goldstein tradotto dal sottoscritto: Carmelo Russo
Le tenebre stavano scendendo durante l’ingresso nel paese, ma c’era ancora abbastanza luce per vedere/ le rovine crollate di quella che era stata, una città, della Sicilia./ Non era eccessivo chiamarla città, rispetto a quelle di maggiori dimensioni. / Non era stata costruita per la guerra moderna e ora, come rovine maleodoranti, giace,/ in putrefazione sotto il cielo azzurro, della Sicilia./ Sembrò come se un Dio adirato con mani cruenti fosse impazzito,/e poi avesse steso un velo, una coperta, di sporca, accecante, soffocante sabbia; / e come per sfogare di più la sua vendetta / avesse inchiodato un corpo ad ogni porta;/ ci spostammo avanti da lì con il pensiero lucido; /di quei poveri [bastardi] che erano stati catturati, / facemmo una smorfia al dolore, dolce, profumata, di questo miseri resti di uomo mandato in cielo./ Questo potresti essere tu, i corpi dicevano, questo potresti essere tu, appena spirato, appena morto./Ci siamo allontanati, abbastanza per essere, vivi quel giorno, in Sicilia.