Parole con il retrogusto della sentenza. Usate per lanciare un messaggio da fare arrivare a tutti: «Disconosco mio figlio. Per me è morto». È il 28 settembre 2017e il capomafia Vincenzo Rosano chiede di parlare con la polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Messina, dov’è detenuto dal 2015. Il figlio Valerio da otto giorni è passato dall’altro lato della barricata, scegliendo di parlare con i magistrati della procura di Catania. Rosano junior si è pentito, andando ad allargare le fila di una già lunga lista di collaboratori provenienti dai clan mafiosi di Adrano, Biancavilla e Paternò. «Non ho nessun motivo per temere della mia incolumità personale», continua il padre davanti agli agenti. Soltanto 24 ore prima, ad Adrano, qualcuno aveva tappezzato le vie della cittadina di finti necrologi con il nome del nuovo collaboratore di giustizia. Carte che annunciavano la sua morte, con tanto di esequie nella strada che ospita il commissariato di Polizia.
Trascorsi pochi mesi dalla decisione di ValerioRosano, adesso emergono alcuni dettagli del clima che si è respirato all’interno della mafia di Adrano e Biancavilla dopo il suo passo indietro. Nei documenti dell’inchiesta Adranos, che nei giorni scorsi ha portato in manette 30 persone, ci sono diversi passaggi dei verbali che hanno come protagonista il giovane pentito. Impassibile nel puntare il dito contro lo zio Alfio, ormai defunto, il padre Vincenzo, il fratello Francesco e il cugino Nicolò. Tutti uniti, secondo le sue accuse, nell’appartenenza alla cosca dei Santangelo. «Voglio cambiare vita e dare un futuro a mio figlio. Da circa un anno volevo fare questa scelta, ma mia moglie non era convinta. Adesso sono convinto a prescindere dalla sua decisione», chiarisce. Mettersi alle spalle tutto dopo una carriera criminale iniziata a 15 anni e dichiarata finita quando di candeline Rosano ne ha appena spente 26. «Ci siamo allontanati dai Santangelo dopo l’omicidio di mio zio (Alfio Rosano, ndr), nel 2006», spiega. Illustrando anche la voglia di vendetta mai sopita che però sarebbe stata continuamente stoppata da alcuni pezzi grossi della cosca. La riconciliazione arriva otto anni dopo, grazie all’intermediazione dello storico boss Alfio Santangelo. «Dovevamo stare insieme – ci disse – anche per l’antica amicizia che ci legava».
Droga, rapine, gli anni passati in carcere e il nome che finisce nella lista degli affiliati stipendiati dal clan. Nel passato del nuovo pentito c’è la conoscenza con i personaggi più influenti della cosca. Per ogni foto che gli mostrano i magistrati, segue un lungo elenco di accuse e aneddoti: «Riconosco Tonino Bulla. È uno dei più operativi». Foto sette? «Giuseppe La Mela, da prima del 2010 dentro il clan». Tuttavia già prima di Rosano junior nel triangolo della morte etneo l’argomento pentiti era il più dibattuto. Grazie alle intercettazioni dei colloqui in carcere di Vincenzo Rosano emerge l’apprensione del boss e dei suoi familiari: «Sono tutti frastornati per questo Caliddu (il pentito Gaetano Di Marco, ndr)», spiegava Nicola Rosano al padre, che replicava: «Cosa mi devono dare più a me? Mi chiama che faccio parte dell’associazione, ma già la sto pagando».
Nei faccia a faccia all’interno della sala colloqui non si parlava soltanto di pentiti. In passato un familiare dei Rosano sembrerebbe essere entrato nel vortice del gioco d’azzardo. «Si mangia i soldi nei video poker», svelano a Vincenzo Rosano mentre i parenti sono seduti nella saletta dedicata agli incontri in carcere. L’uomo a questo punto lancia un monito: «Glielo dico io che sono più grande. Gli dico: “ma che hai in testa?”. Le macchinette ce le abbiamo noi. Gliele mettiamo noi per mangiargli i soldi alle persone Sono tutte nostre, come ti sembra che gli raccogliamo i soldi per 30 detenuti?».
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