Poiché ogni antica vestigia è andata perduta, poiché l’antica stirpe sicana affidava soltanto alla memoria, alla “forza della mente” la propria perpetuazione spirituale e poiché, in ultimo, gli storici greci arrivati nell’isola tacquero e, peggio ancora, mistificarono gli antichi gloriosi ricordi della plurimillenaria stirpe che ivi trovarono, a noi non rimane che cercare le antiche nostre radici laddove la catastrofe greca non poté arrivare ossia nella toponomastica, che da sola, spesso, permette di ricostruire la storia di un luogo. Ad essa possiamo aggiungere, per fortuna, le pur sparute tracce dell’antica lingua parlata dai Sicani, ravvisabili nella stessa toponomastica e in qualche epigrafe. Si aggiunge ancora alla ricerca, al fine di penetrare la comprensione dello spirito atavico, la simbologia, che per nulla ha subito la corruzione di cui la lingua parlata e scritta è stata oggetto. La simbologia a noi pervenuta tramanda intatta col suo proprio messaggio, una visione del mondo cristallizzata proprio nell’imperituro simbolo scalfito sull’incorruttibile ed eterna pietra basaltica.
Molto di quel che è stato affermato nei numerosi nostri articoli pubblicati in questo pregevole sito circa la lingua parlata dai Sicani e l’origine nord europea del popolo che la parlava, sciamato dalle terre ataviche investite dall’eterno gelo verso il tiepido sud del mondo, vale più che mai per l’antichissima cittadina siciliana di Centuripe. Anzi essa porta seco, nel proprio stesso nome, quel valore aggiunto che raramente abbiamo così esplicitamente riscontrato in altri toponimi, costituito dal riferimento orgoglioso alle proprie radici etniche. Lo stesso orgoglio circa le proprie antiche origini è ravvisabile, come emerge dal racconto dello storico greco Erodoto, nel faraone Psammetico I, il quale, certo che il popolo egiziano, a motivo della cultura ostentata, fosse il popolo più antico della terra, commissiona ai sacerdoti delle ricerche finalizzate a provare le proprie convinzioni. Riusciamo ad immaginare la delusione del faraone quando gli fu comunicato che le ricerche a ritroso nel tempo alla ricerca del popolo più antico conducevano ai Frigi. La delusione del faraone era motivata dalla consolidata e universale mentalità secondo la quale la reputazione di un popolo cresceva proporzionalmente alla propria vetustà, strettamente e direttamente correlata con la nobiltà. Non stupirà dunque la scelta del toponimo Centuripe da parte degli antichi abitanti del centro, che proprio al prestigio di vetuste e nobili origini fa riferimento. Il medesimo orgoglio ostentato dagli antichi e ormai inconsapevoli Centuripini, veniva esibito, in tempi relativamente recenti, attraverso i nomi di famiglie romane prestigiose quale quella dei Cynna, di cui rimane traccia attuale nel cognome Cinardi (cynn–hard, dalla stirpe prorompente, che si afferma con forza o durezza).
Il toponimo Centuripe è formato dall’accostamento dei lessemi cynn-ur-iperia o cened-ur-ab o cened-ur-iperia. Cynn in antico inglese significa stirpe (il lessema, trasformatosi nell’odierno Kent, ha assunto in Inghilterra il significato di limite o confine territoriale) mentre cenedl in antico irlandese indica un gruppo umano accomunato da vincoli parenterali; pertanto cynn e cenedl possono quasi considerarsi dei sinonimi. Ur significa antico, primordiale. Apira o, prima che avvenisse la rotazione consonantica, Ab-Ira, o iperia era il nome della lontana isola iperborea in cui veniva esercitato il culto dell’Apollo iperboreo, identificata dai Romani con l’Irlanda o Eire. Da Apira proveniva, altresì, come si apprende dalla lettura dell’Odissea, Eurimedusa, la nutrice di Nausica, figlia del re dei Feaci Alcinoo, popolo caratterizzato, come messo in evidenza nei nostri studi, da sconcertanti parallelismi mitologici e linguistici con quello sicano ed irlandese[1]. Ab è un avverbio o preposizione col significato di distacco, separazione, allontanamento. Cened/Cynn(t)-ur-iperia (stirpe antica dell’Apira) è dunque un toponimo all’interno del quale si tramanda agli eredi memoria orgogliosa dell’antica provenienza dalla mitica terra iperborea dove il sole appariva così raramente e così debolmente da divenire oggetto di un profondo simbolismo. Il simbolo del sole, della sua luce, del suo moto apparente attorno alla terra che tutta, in egual misura, beneficia dei suoi raggi, sarebbe stato scolpito anche nei capitelli ritrovati nella contrada del Mendolito, limitrofa a Centuripe, nel territorio dei consanguinei Inessei, dove una casta sacerdotale, quella degli Adraniti (gli “evocatori dell’avo primordiale”) esprimeva, utilizzando per sé l’attributo di evocatori dell’Avo primordiale, un altro tipo di orgoglio, quello del primato religioso. Infatti, il tempio in cui tutta la stirpe sicana si riconosceva con unanime consenso si sarebbe innalzato nell’esclusivo luogo in cui, a buon diritto, a motivo del vicino vulcano Etna, l’Avo (Ano) si sarebbe potuto definire furioso (odhr), ossia Odhr-ano o Adrano. Abbiamo buoni motivi per credere che la scelta ricadde sul territorio attualmente denominato Adrano anche perché, più di altri, era irradiato dal sole, come ben sanno i tecnici ed esperti osservatori che, nel XX secolo, hanno deciso di installarvi la prima centrale solare, Eurelios.
Si è sopra affermato che il toponimo Centuripe è formato o dall’accostamento dei lessemi cynn-ur-iperia, come già argomentato, o cened-ur-ab; in questa seconda e parimenti plausibile ipotesi, che non si discosta comunque dalla prima, il significato del termine è “comunità separatasi dall’antica patria”, in quanto la presenza dell’avverbio ab, che indica separazione, distacco, allontanamento, allude al distacco primordiale dall’antichissima (ur) comunità (cenedl) o patria artica, a causa delle condizioni climatiche ostili.
Per quanto il lessema cenedl o cynn contenuto nel toponimo faccia orgoglioso riferimento alla stirpe, tuttavia il popolo sicano fu sempre aperto rispetto a quanti vollero condividere una comunanza spirituale, motivo per cui Troiani, Siculi ed esuli di ogni provenienza vennero accolti ed assimilati, fino “all’infezione greca”, che riuscì a trascinare il nobile retaggio sicano in un oblio senza precedenti. Crediamo di essere in condizione di poter affermare che l’unione tra le città sicane della Sicilia fosse tale da giustificare, fino al XIII secolo a.C., la richiesta di aiuto da parte di potenti re Cretesi come Sarpedone[2] e la sconfitta di altri, quali Minosse, fratello di Sarpedone, in lotta con il fratello per il regno di Creta. A dimostrazione della tesi sopra esposta circa la mansueta indole dei Sicani, i quali facevano dell’accoglienza degli stranieri un valore aggiunto per la continuità del processo armonico della convivenza tra popoli, si osservi che, sconfitto l’ingordo re cretese Minosse, il quale intendeva aggiungere la Sicilia al proprio enorme impero, si diede all’esercito di questi la possibilità di rimanere in Sicilia e di insediarsi in un territorio libero su cui fondare una propria città, da organizzare secondo i propri usi e costumi; offerta che venne puntualmente accettata dai Cretesi.
Il concetto religioso di unità del popolo sicano venne strategicamente elaborato dagli esperti sacerdoti Adraniti[3], i quali elaborarono il termine Trinacria per esprimere tale concetto: il significato di questo lessema è “ le tre forze dell’Avo” con allusione ai tre valori su cui si basava l’unione sicana: consanguineità, comunanza territoriale, religione (http://www.miti3000.eu/la-geometria-sacra.html). Tutta l’isola, la Sicania, era stata consacrata dall’Avo, che aveva stabilito ad Enna, centro geografico e simbolico dell’isola, la propria dimora terrena e gli abitanti del territorio consacrato, Trinacria, dovevano sentirsi accomunati da un sentimento di fratellanza. All’interno dell’isola, dalla ben nota forma triangolare, in seguito ad una lungimirante strategia messa in atto dai sacerdoti Adraniti, vennero costituiti triangoli più piccoli di territorio consacrato, formati dall’unione immaginaria delle direttrici che univano tre città vicine particolarmente legate fra loro da vincoli religiosi, di sangue e di buon vicinato; tali triangoli si intersecavano fino a formare un’invisibile rete di collegamento tra tutte le città; in tal modo il territorio e i popoli che lo occupavano venivano uniti attraverso un meccanismo di collegamenti parentali. Questo sistema reticolare rendeva plastico e quasi tangibile il concetto di parentela, strettamente correlato, nella percezione dei popoli antichi, al concetto di distanza. Per comprendere il concetto di parentela e il modo in cui gli Adraniti riuscirono a superare la percezione di distanza che indebolisce i legami parentali, si fa ricorso opportuno allo storico greco Erodoto. Questi, commentando le abitudini delle tribù persiane, tra le quali, notiamo, si annovera la tribù dei “Germani”, afferma:
“I Persiani stimano, sopra tutti ma dopo se stessi, quelli che abitano loro più vicino, in secondo luogo quelli che sono per distanza al secondo posto, e poi continuando secondo questo ordine stimano gli altri; meno di tutti tengono in considerazione quelli che abitano più lontano da loro, ritenendo di essere essi stessi i migliori tra gli uomini in tutto, e che gli altri partecipino in proporzione, e che quindi quelli che abitano più lontano da loro siano i più spregevoli –Storie I, 134-”.
Insomma il grado di affettività decresceva man mano che geograficamente ci si allontanava gli uni dagli altri, fino al punto di considerare infime le tribù geograficamente più distanti. Sulla base di tali meccanismi mentali e utilizzando il metodo linguistico ormai noto ai nostri lettori, si comprende come il nome del popolo dei Mitanni, confinante con quello degli Ittiti, alluda al legame di parentela con gli Ittiti, dal momento che è formato dall’accostamento dei lessemi Mit, con il significato di insieme, con, in compagnia di, ed Ahne antenati: i Mitanni erano considerati infatti dagli Ittiti parenti, dal momento che condividevano gli stessi antenati.
Il geniale sistema che portò alla creazione di un reticolo di triadi sacre riuscì a scongiurare il pericolo della discontinuità parentale, naturale conseguenza delle distanze geografiche e delle differenziazioni genealogiche dovute al trascorrere del tempo. Puntando al conseguimento dell’unitarietà religiosa e dell’affinità parentale fu dunque possibile amalgamare tutte le città sicane dell’isola, da capo Peloro a capo Passero e Punta Faro. Si spiega anche così la presenza dei medesimi culti in siti affini se pur distanti tra loro, come il culto dei Palici nel Belice, dai quali prende il nome la valle e il fiume, a Palagonia, ad Adrano. Altro modo per tenere viva la memoria della consanguineità era quello di imparare a memoria la lunghissima lista genealogica della propria famiglia; proprio alla sopravvivenza di questa tradizione dovettero la loro vita Glauco e Diomede allorché il loro incontro sotto le mura di Troia, trasformò gli eroi, da nemici quali erano, in stimati amici.
IL TRIANGOLO TERRITORIALE ADRANO-CENTURIPE-HYBLA
Unendo con tre direttrici immaginarie le città attuali di Centuripe-Adrano-Paternò (Hybla) si viene a delineare un territorio triangolare perfettamente isoscele (sezione aurea di Pitagora), all’interno del quale veniva esercitato il sacro culto sicano della famiglia, costituita dal padre Adrano, il cui tempio aveva sede nella città omonima ( non ancora nota con questo nome), dalla madre Hybla, il cui tempio si trovava a Paternò, e dai figli Palici, venerati particolarmente nel territorio tra Adrano e Centuripe. Il territorio incluso nel triangolo ideale doveva essere considerato un unicum, un centro indivisibile di forze metafisiche, la cui efficacia e presenza era garantita dall’unità e coesione interna della popolazione, disposta anche ad un mutuo soccorso reciproco nel caso in cui l’indipendenza e la libertà del territorio venisse minacciata.
A conferma del legame sacro e di parentela che univa Centuripini e Adraniti ricordiamo che tra le due città non si verificò mai alcun conflitto e che, anzi, in più di una circostanza emerge dalle fonti storiche una sorta di alleanza o patto di amicizia. Tucidide racconta ad esempio che, mentre l’acropoli della città Innessa/Adrano è assediata dai Siracusani, nel 414 a. C., durante la guerra del Peloponnesso, gli Ateniesi si dirigono con tutto l’esercito a Centuripe e “ se la fanno amica con un accordo” (libro VI, 94); anche senza voler ipotizzare alleanze sacre tra Innessei/Adraniti e Centuripini è dunque innegabile il fatto che entrambe le città fossero accomunate dallo stesso nemico visto che – è sempre Tucidide ad affermarlo nella sua narrazione – nel 427 a.C. gli Ateniesi si dirigono ad Innessa\Adrano, la cui acropoli era occupata dai Siracusani (libro III,103). È importante notare che Tucidide definisce sicule, nella sua accezione etnica, le due cittadine siciliane. Inoltre, quando nel 263 a.C. Adrano cade, messa a ferro e fuoco dai legionari romani, i Centuripini, osservando dalla loro rocca, che come una terrazza sulla valle del Simeto si trova ad una spanna dalla rocca adranita, il triste spettacolo dell’annientamento della città simbolo del dio guerriero e ritenendo ormai irrimediabilmente perduta la guerra, firmano un trattato di pace con i Romani. Subito dopo la firma del trattato da parte dei Centuripini, seguiranno l’esempio tutte le altre città siciliane.
Notiamo inoltre che il sacro patto di amicizia tra le due città comporta un’affinità che si estende all’intera weltanschauung, che assume peculiarità e contorni netti e distinguibili, tanto che in un periodo di piena grecizzazione di tutta l’area del Mediterraneo, nella quale i più importanti tragediografi greci, quali Pindaro, Bacchilide, Eschilo e molti altri tra filosofi, poeti, storici, spopolano nelle regge e nei teatri di Siracusa, Agrigento, Catania, Himera, a Centuripe e ad Adrano si continuava ad utilizzare non solo la lingua sicana ma anche l’anacronistica scrittura che va da destra verso sinistra, alla quale gli esperti sacerdoti Adraniti attribuivano un significato augurale.
EPIGRAFICA SICANA. L’ASKOS DI KARLSRUHE
Ancora una volta, nella scelta anacronistica dei sacerdoti adraniti di mantenere l’uso di scrivere da destra verso sinistra si legge la ponderata scelta, dettata dalla loro antica conoscenza augurale, di mantenere un rituale capace di determinare la differenza fra il bene e il male, tra ciò che era fausto e ciò che era infausto. Sul significato religioso attribuito dagli antichi alla parte destra e a quella sinistra, nonché al simbolo della spirale, che l’epigrafe sembra riprodurre con il suo procedere in senso bustrofedico, rimandiamo i lettori al seguente link http://www.miti3000.eu/aquila-adrano.html.
Dopo aver tentato, in un precedente studio, la traduzione della celeberrima epigrafe della contrada adranita del Mendolito (https://obbiettivoadrano.it/jam-akaram-la-lingua-dei-sikani-e-il-sacro-ruolo-degli-adraniti-2/.), daremo in questa sede una nostra interpretazione dell’epigrafe centuripina incisa in un askos esposto nel museo di Karlsruhe in Germania. Il testo dell’epigrafe, traslitterato in caratteri latini, secondo l’opinione di alcuni linguisti è questo:
Nunus tenti mim, arustainam. Iemi tom, esti durom, Nane pos durom iemi, tom esti veliom. Ned emponitantom eredes vinbrotrom.
Tuttavia va ricordato che il testo è uno scriptio continua, senza cioè alcuna interruzione tra i lessemi, pertanto è plausibile una diversa separazione dei lessemi, dettata, nel nostro caso, dalla convinzione che la lingua dei Centuripini, come quella degli Adraniti, derivi da un comune ceppo nord-europeo. Alla luce di quanto premesso riteniamo che il testo debba essere suddiviso come segue:
Nun us tenti mim arusta inam iemi tom – esti durom Nane pos durom iemi tom esti veliom ned emponitan tom eredes vin brotrom.
L’espressione con cui ha inizio la frase, nun, è già sufficiente per identificare la lingua utilizzata dal nostro prosatore: utilizzata come avverbio, con il significato di adesso, ora, o come congiunzione pleonastica, con il significato di ebbene, via, orsù, costituisce l’incipit tipico delle epigrafi in lingua germanica antica. Lo si ritrova, proprio ad inizio frase, nella celebre iscrizione ittita che Hrozny, nel 1915, tradusse con l’ausilio dell’alto antico tedesco, in quanto la frase ittita era strutturata secondo la grammatica della lingua germanica e conteneva vocaboli ancora in uso nell’antico alto tedesco quali appunto nun, ora, adesso, ezzan, mangiare, cibo.
Non annoieremo i lettori analizzando ogni singolo lessema poiché in questa sede interessa piuttosto dimostrare i legami e le affinità culturali e spirituali che caratterizzavano le popolazioni sicane dell’isola, piuttosto che disquisire su una dedica apposta su un vaso in un contesto conviviale di duemila e cinquecento anni or sono. Crediamo che, così come l’epigrafe del Mendolito esaltava le qualità del principe per aver finanziato i lavori di bonifica a profitto degli agricoltori Adraniti, quella apposta sul vaso centuripino fu fatta imprimere per elogiare l’organizzatore del convivio il quale aveva fatto versare all’interno (inam) del calice (tom) dell’ottimo vino (vin), al fine di brindare, gesto universalmente condiviso, nella convinzione che gli eredi (eredes) avrebbero potuto ripetere il gesto augurale. Si noti che il termine tom significa argilla, creta e, quindi, per metonimia, indica la coppa o calice; il significato del sostantivo tom sopravvive nel verbo siciliano tommare, che significa bere oltre misura, tracannare. La triplice ripetizione del termine tom ha lo scopo di rimarcare il significato del brindisi, considerato un patto, anzi, un gesto di consacrazione (veliom, da Ve, sacro , e Lohn, ricompensa, premio) da tramandare e far ripetere alle generazioni future per rinnovare i medesimi sentimenti di fratellanza.
Non possiamo escludere che il convivio sia stato consumato tra ambasciatori che sancivano accordi di mutuo soccorso. La nostra memoria va al racconto di Tucidide il quale narra di un’ambasciata ateniese inviata proprio a Centuripe, nel 414 a.C., per stipulare accordi di pace; sulle ali della fantasia possiamo immaginare che l’ambasciata venisse ricevuta proprio da quel Nane citato nell’epigrafe. Tuttavia non escludiamo l’ipotesi interpretativa in base alle quale l’iscrizione farebbe riferimento ad un rinnovato rapporto di amicizia tra la città laziale di Lanuvio e la cittadina siciliana. Che simili eventi fossero degni di menzione emerge del resto dal racconto di Diodoro, il quale fa riferimento ad un rinnovato legame di amicizia fra i greci di Delo e l’ambasciatore Abari. Non possiamo fare a meno di notare, di volata, che Abari non era il nome proprio dell’ambasciatore, ma un’espressione con la quale si indicava il suo luogo di provenienza; infatti ab Ari significa proveniente dal paese degli Ari. Questa traduzione del termine viene altresì inconsapevolmente confermata dallo storico, il quale afferma subito dopo che l’ambasciatore proveniva dalla terra degli Iperborei, cioè degli Ari, dove si praticava il culto dell’Apollo iperboreo. Senza escludere comunque la possibilità che l’epigrafe potesse celebrare l’amicizia tra le due città, notiamo la stranezza del fatto che in essa non siano stati vergati i nomi delle città gemellate, senza considerare che sarebbe stato più ovvio affidare ad una targa da affiggere in un luogo pubblico il ricordo del gemellaggio.
Riteniamo inoltre che l’amicizia tra Lanuvio e Centuripe nulla abbia a che vedere con la venuta di Enea in Sicilia, ma che affondi piuttosto le proprie radici nel tessuto della società di cui faceva parte Lavinia, moglie sì di Enea, ma ancor prima, figlia di Latino, re del Lazio, regione popolata da un pulviscolo di popoli che facevano capo ad un comune ceppo nord europeo, come si evince dal poema di Virgilio, l’Eneide. Il gemellaggio tra Lanuvio e Centuripe rappresenta, in scala ridotta, quello molto più esteso tra la civiltà sicana stanziata nel Lazio e quella stanziata in Sicilia. Tali civiltà condividono un comune denominatore religioso, evidente nel teonimo laziale Jah-Ano e in quello siciliano Odhr-Ano, e una serie di riferimenti religioso-culturali, non ultimo il rito dell’apertura della porta del tempio dell’Avo, citata da Virgilio per i Latini, da Plutarco per i Sicani\siculi. Aggiungiamo inoltre che anche il toponimo Lanuvio è di chiara origine nord-europea, in quanto costituito dai lessemi Land e uber[4] col significato di “il territorio di sopra”. Un’epigrafe dallo stile incerto, graffiata su un vaso già cotto, poco si addice, a nostro giudizio, alla consacrazione di un patto di amicizia, ma è perfettamente compatibile con un’estemporanea e genuina velleità poetica del dedicante, il quale, incoraggiato dalle tre abbondanti coppe di forte vino dell’Etna “tommate”, si lasciava andare alla facile prosa, azzardando lo scontro con le Muse.
Ai Centuripini, nostri vicini e consanguinei, vada il nostro sincero elogio, sperando che giunga, se non più gradito, per lo meno gradito quanto quello adulatorio nonché interessato dell’autorevole Cicerone.
*
– Francesco Branchina
[1] Per approfondimenti sul popolo dei Feaci rimandiamo il lettore ad un nostro precedente articolo pubblicato su questo pregevole sito https://obbiettivoadrano.it/la-sicilia-pre-ellenica-i-feaci-e-la-fondazione-di-sicher-usa-siracusa-2/. Il nome di Alcinoo indica il compito del re dei Feaci, quello di tenere assieme “tutte le stirpi” ( Alle cynn).
[2] Tale affermazione nasce da una plausibile e ovvia interpretazione di notizie sparse contenute nella Biblioteca storica di Diodoro e nell’Odissea. Sull’argomento vedasi http://www.miti3000.eu/gli-dei-palici-e-le-sacre-sponde-del-simeto/i-feaci.html.
[3] Con l’espressione “sacerdoti Adraniti”, come altrove argomentato, si fa riferimento ad una casta sacerdotale con peculiari caratteristiche e non si intende, semplicisticamente, i sacerdoti della città di Adrano, anche perché la città non esisteva ancora con tale nome nell’epoca di riferimento, cioè agli inizi dell’insediamento sicano nell’isola.
[4] Land uben, poi latinizzato in Lanuvio, a nostro giudizio significa il “territorio sovrastante”, “la terra di sopra”, significato plausibile se si considera che il comune si trova sui colli albani, su una collinetta che si erge sulla pianura sottostante. Lo stesso meccanismo logico e linguistico ha generato il nome del fiume tedesco Danubio. Tacito afferma che i ruscelli che lo alimentano nascono dal monte Abnoba, nella foresta Nera. Ab uban in antico alto tedesco significa da sopra; quindi i due ruscelli che alimentano il Danubio prendono vita “da sopra”, ab uban, donde il nome Danubio.