Pubblichiamo un nuovo articolo del Prof. Francesco Branchina il quale, con ineccepibile sagacia, riesce anche questa volta a creare un parallelismo storico con ciò che fu Adrano, con le sue mura ciclopiche, simbolo millenario di forza e solidità, non solo strutturale ma anche morale, e quello che potrà essere se i suoi abitanti e rappresentanti politici riusciranno a tirar fuori lo stesso ardore dei loro antenati.
Parlando delle mura ciclopiche di Adrano – erette dai Sicani probabilmente intorno al II millennio a.C., coeve delle mura delle città saturnie del Lazio e delle mura di Micenee costruite, a detta di Pausania, dai Siciliani, chiamati in Grecia per questo scopo – non possiamo non ritornare di volata sull’importanza dell’utilizzo delle parole le quali, veicolando messaggi, possono incidere positivamente o negativamente sugli individui, specialmente se questi sono indifesi culturalmente. Mi riferisco in particolare ai nostri piccoli studenti che traggono dai loro insegnanti un sapere capace di incidere sulla loro formazione caratteriale e spirituale così come i neonati succhiano il vitale latte materno per crescere sani e robusti. Abbiamo sperimentato come per i bambini ciò che viene detto dall’insegnante assurga al ruolo di “verità” assoluta. Dunque la responsabilità di questi secondi genitori è notevole: a loro spetta il compito di irrobustire l’amor proprio e l’autostima dei discenti, futuri cittadini, alcuni dei quali diverranno amministratori della propria città. Chi amministrerà la propria città fortificato dalla conoscenza della sua “nobile” storia, plasmato dalle “parole di forza” ascoltate sin dalla più tenera età, sarà capace di affrontare con piglio deciso e spirito vincente le inevitabili problematiche legate al ruolo pubblico. A tal fine dovranno essere evitate tutte le parole che, palesemente o inconsciamente, riducono l’autostima di chi le pronuncia e di chi le ascolta. Pena la debolezza delle istituzioni.
È di questi giorni, per esempio, l’infelice frase di colui il quale riveste il ruolo di primus inter pares del nostro prestigioso popolo italiano che, ritenutosi bacchettato dal gotha dei politici di Bruxelles, ha risposto che l’Italia sarebbe in regola con l’Europa poiché “ha fatto bene i compiti assegnati per casa”. Tale parte da scolaro interpretata dal nostro primo ministro svilisce e offusca il ruolo, cui fummo abituati per millenni, di Roma caput mundi, induce le nuove generazioni a dimenticare il prestigio di un’antica patria artefice del Diritto romano, di un’Italia capace di esercitare, in tempi andati, un’accorta regia sull’Europa, di un’Italia «eletta dai Numi a riunire attorno a sé i popoli dispersi, ad avvicinare con l’uso d’una sola lingua, tante genti di rozzi e discordi linguaggi, a dare agli uomini le norme di un comune vivere, a fare di tutte le genti un solo popolo, di tutto il mondo una sola Patria» (Plinio il Vecchio). Se dei nani, oggi, in questa era di decadenza, sono saliti sulle spalle di antichi Giganti e si illudono per questo di essere diventati più alti dei primi, dall’altro lato la limitata veduta dell’orizzonte e soprattutto l’assenza dell’aristocratico concetto dell’osare tradisce il loro nanismo.
Un simile errore commettono gli amministratori della nostra città che alle secolari indicazioni turistiche, che definivano “ciclopiche” le millenarie mura di Adrano, hanno sostituito, evidentemente mal consigliati, la dicitura “mura dionigiane”, veicolando in tal modo un inconscio senso di inferiorità verso la città del tiranno Dionigi, Siracusa, a cui la libera Adrano fu invece sempre ostile, al punto che, nel 344 a.C., un contingente di soldati Adhranhiti fu determinante per l’abbattimento della tirannide siracusana e l’avvento della democrazia. La libera Adhrano fu sempre una spina nel fianco per i tiranni siracusani, tanto che la città non esitò a dare ospitalità ai cavalieri di Siracusa che, ostili a Dionigi, ne avevano osteggiato l’ascesa. Oggi non lasceremo che alla tirannide di un uomo si sostituisca quella di una città. È già tanto se abbiamo tollerato l’espoliazione di simboli di forza che ci appartengono per diritto di ereditarietà: il riferimento va alla cosiddetta “stele urbica del Mendolito”, che per noi Adhraniti rappresenta ancora un cordone ombelicale che ci unisce agli Avi Sicani, mentre per i siracusani è ormai nulla di più che una pietra impolverata, incapace di “parlare”. Nessun tentativo di interpretazione dell’epigrafe scolpitavi è stata infatti mai tentata, mentre noi, che non siamo filologi né linguisti ma siamo animati dall’ardore che lega i discendenti agli antenati, crediamo di averne carpita l’essenza1; forse lo stesso Teuto, il nostro antico Avo celebrato da Polieno, ci ha ispirati in questo.
Elencheremo qui solo poche questioni per dimostrare l’appropriazione indebita di ecista di Adranon da parte del tiranno, avendo trattato ampiamente la questione in altra sede2. Basti un solo esempio per escludere anche solo la possibilità che il tiranno abbia eretto le mura e, ancor di più, fondato la città di Adrano; basti cioè valutare le difficoltà cui si va incontro nell’erigere non dico una città con le sue mura ma molto meno, un unico e solo Tempio, facendo ricorso al caso di Salomone, il quale poté dedicarsi alla costruzione del famoso tempio, come egli stesso affermava, grazie al fatto che era in pace con i popoli confinanti, mentre suo padre Davide, impegnato a consolidare il regno, esattamente come Dionigi, non era riuscito in tale auspicata impresa. Nel racconto biblico si dice che per la costruzione del Tempio vennero impiegati 70.000 uomini per il trasporto del materiale e 80.000 scalpellini per la lavorazione della pietra, la quale, si badi bene, non aveva le stesse caratteristiche del duro basalto delle mura di Adrano. Infatti il materiale di costruzione del tempio di Salomone, di morbida pietra calcarea, si tagliava con l’ausilio di semplici seghe, mentre il basalto lavico adranita poteva essere lavorato solo con il sapiente e paziente utilizzo di scalpelli. Per la costruzione del tempio vennero inoltre utilizzati 3.600 capi preposti ai lavori, per un totale di 153.600 uomini impiegati. Ebbene, nonostante un tale dispiegamento di uomini ci vollero tuttavia sette anni perché il tempio venisse completato, mentre per costruire la propria reggia Salomone impiegò ben tredici anni. Ci chiediamo allora quando il tiranno avrebbe potuto costruire la città di Adranon e le poderosa mura di duro basalto che la circondavano se dal 404 al 400 a.C. era impegnato in una strenua e feroce lotta contro gli aristocratici, che gli avevano anche sterminato la famiglia, per consolidare la tirannide sulla propria città. In che modo avrebbe potuto avviare i lavori di costruzione se nel 396 a.C., dopo la disfatta subita nel porto di Catania ad opera dei Cartaginesi, dovette ritornare di corsa a Siracusa, rinchiudendosi nella città posta sotto assedio, dalla quale uscì solo grazie alla peste che decimò gli assedianti cartaginesi? Dove avrebbe preso gli uomini per lavorare la pietra di basalto, che – ribadiamolo – poteva essere trattata solo da professionisti del mestiere, se ebbe perfino difficoltà a trovare soldati per affrontare la dura lotta contro i Cartaginesi, al punto che dovette cedere alla necessità, considerata ignominiosa, di arruolare degli schiavi? Potremmo ricorrere anche all’esempio di Erode che, nonostante fosse considerato uno dei più capaci costruttori del suo tempo, per costruire il porto di Cesarea, di soli settanta metri, di vitale importanza per una città di mare, impiegò venti anni o all’esempio di Quinto Lutazio Catulo che, iniziati nell’83 a.C. i lavori per il restauro del tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio, andato distrutto da un incendio, poté consegnarlo solo nel 69 a.C., nonostante Roma non fosse priva né di mezzi né di risorse.
La fattura delle mura di Adrano è tale da indurre a ritenere la loro originaria funzione non solo difensiva ma monumentale, tale cioè da legare alla propria esistenza significati ulteriori, simbolici. Tucidide, raccontando della costruzione delle mura ateniesi, costituite da pietre grezze, effettuata in tutta fretta per esigenze belliche, ne segnala le debolezze strutturali, quali l’assenza di un’ampia base, che avrebbe sì garantito maggiore solidità ma avrebbe comportato ai costruttori un notevole dispendio di tempo. Le mura ciclopiche di Adrano invece non solo poggiano su una solida base, ma utilizzano blocchi basaltici perfettamente squadrati. Potremmo andare oltre nel segnalare numerose incongruenze contenute nella tesi che attribuisce a Dionigi la fondazione della città e la costruzione delle mura, ma rischieremmo di tediare i nostri lettori i quali, se volessero approfondire tali argomenti, potrebbero trovare il risultato dei nostri studi nella biblioteca comunale.
A noi basti qui consegnare un messaggio ai nostri piccoli cittadini, futuri amministratori: scoprano di essere figli dei Giganti, decidano di scrollarsi di dosso i nani, imparino a conoscere le proprie radici e ad innaffiarle col sano orgoglio di chi è consapevole del passato, unico, vero humus di coltura del futuro. Poiché il nome veicola un’interpretazione metafisica dell’essere, invito i cittadini ad ignorare e gli amministratori ad eliminare gli indicatori turistici dei siti archeologici che definiscono “Mura dionigiane” i nostri potenti simboli atavici, consci che accettare, sia pure inconsapevolmente, la subordinazione implicita nell’uso delle parole implica l’incapacità di reagire, di rimuovere autonomamente gli ostacoli inevitabilmente posti innanzi dal destino e il consolidarsi dell’abitudine di aspettare l’intervento del tiranno di turno.
Tornando sulla potenza intrinseca nel nome, non posso non invitare la seconda autorità della nostra amministrazione comunale a prendere coscienza del significato del nome che porta (Brennen-Inn, ardere-dentro, ardore), interpretando il ruolo di “custode del fuoco patrio” che la stirpe cui appartiene fu chiamata a svolgere. La famiglia dei Branchidi era depositaria del culto di Apollo a Mileto nel VI sec. a.C.; Brahman (da Brann-man, ardere-mente) era la divinità Indù che, col proprio ardore, diede vita al genere umano. Auspico dunque che rivesta in quel consiglio il ruolo di novella Vestale e che il suo fuoco bruci in onore di quel dio, il nostro Adhrano, che fino al secolo XVIII figurava nello stendardo della nostra città (come emerge dal Dizionario Topografico Della Sicilia di Vito Maria Amico). Di certo il simbolo di forza di Adhrano, fino a quando sventolava sul balcone della casa comunale, dovette contribuire a produrre “liberi” patrioti, consapevoli della propria supremazia sui tiranni. Cancellando quel simbolo di forza dallo stendardo cittadino si decretò probabilmente l’abdicazione dell’autostima adranita e si inaugurò un nuovo status, visibile nell’attuale debolezza delle istituzioni locali. Auspichiamo che un consigliere illuminato come quello che nel lontano 1929 propose il ripristino del nome del dio per la nostra città, prima chiamata Adernò, assurga a novello rifondatore dell’autostima adranita e proponga di issare quell’antico vessillo sul balcone di Palazzo Bianchi, affinché esso trasmetta la forza risanatrice a chi sta morendo di spazzatura.
1 Sulla decifrazione dell’epigrafe sicana della stele urbica del Mendolito vedasi: Francesco Branchina, Dalla Skania alla S(i)kania, Ed. Simple
2 Francesco Branchina, Adrano Dimora di Dèi, nella storia del Mediterraneo Greco, Ed. Simple