Tony Zermo sul quotidiano La Sicilia

Francamente non ce lo aspettavamo. Sapere che, secondo il Censis, metà dei Comuni siciliani ha sacche mafiose e che l’83% dei siciliani viene a contatto in qualche modo con la mafia ci riporta ad una realtà che avevamo ritenuto migliore. Pensavamo che in testa alle organizzazioni mafiose ci fosse la ‘ndrangheta calabrese, anche perché la consideravamo la più forte per il traffico di droga e la grande disponibilità di denaro, invece il Censis ci dice che l’organizzazione più radicata sul territorio è quella siciliana, con particolare riferimento alla provincia agrigentina.
Di getto verrebbe da dire che questi numeri sono gonfiati, che non siamo messi così male, ma sarebbe un errore nascondere la testa dentro la sabbia come gli struzzi. La mafia c’è, e ci dobbiamo fare i conti tutti i giorni. E questo nonostante i tanti arresti, i tanti processi, le tante confische di beni.
Non è nemmeno il caso di stabilire «primati», cioè se sia più mafiosa la provincia di Palermo, o quella di Catania, oppure quella di Caltanissetta. Il fenomeno non risparmia né la pur virtuosa Ragusa e nemmeno la piccola Enna, è una tabe che ci trasciniamo dietro da almeno un secolo. C’è stato un tempo, per almeno venti anni fino al ’92-’93, in cui la Sicilia era come la Colombia perché la mafia uccideva magistrati, giornalisti, imprenditori, politici, molti altri li minacciava. Un lavacro di sangue di gente che conoscevamo per costanti rapporti di lavoro, erano l’esempio della Sicilia migliore. Speravamo che questo sacrificio riuscisse a riportare la criminalità in un ambito fisiologico. La reazione c’è stata, ma non è ancora sufficiente, come dimostra la scarsità di denunce da parte di chi paga il «pizzo». Qualche decina di coraggiosi, ma gli altri? Occorreranno ancora parecchi anni per bonificare i territori, perché arrestare e condannare è necessario e meritorio, ma non basta, bisogna aspettare che cambi la subcultura che si annida nei quartieri degradati delle nostre città e nei paesi piccoli e grandi.
La reazione dello Stato ha prodotto questo effetto positivo: la mafia ha imparato che non le conviene uccidere perché suscita allarme sociale. Non dimentichiamo le stragi di Palermo, i cento morti l’anno a Catania, o le mattanze di Gela. Oggi Cosa Nostra si mimetizza, punta agli «affari» travestendosi di legalità, mentre lo spaccio di droga e le estorsioni vengono lasciati alla minutaglia. Questo camuffarsi provoca in molti l’illusione che la mafia non ci sia o che non sia pericolosa, invece essa cresce sotto mentite spoglie, come prima della sua cattura ha ordinato Bernardo Provenzano secondo la vecchia massima mafiosa calati juncu ca passa la china. E siccome è una mafia che non spara, tranne casi eccezionali in cui l’organizzazione è in pericolo, è più difficile individuarla e colpirla. Ci sono voluti quattro anni e centinaia di intercettazioni per condurre in porto la grande «operazione Iblis» da parte della Procura di Catania.
Chiedo a Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, se veramente siamo messi così male come dice il Censis. «Non si può quantificare, ma la mafia ha un forte controllo del territorio e il potere di condizionare il voto. Quindi è in grado di infiltrare le amministrazioni locali, soprattutto nei centri medio-piccoli, magari non direttamente, ma attraverso parenti e amici per ottenere appalti o favori. E questa è una realtà che abbiamo riscontrato anche di recente in provincia di Caltanissetta».
C’è anche il problema della disoccupazione che tende ad allargare la fascia giovanile che rischia di avvicinarsi alla mafia. «E’ chiaro che quando mancano le occasioni di lavoro c’è il pericolo che qualcuno commetta reati contro il patrimonio, il furto, lo scippo, la rapina, si tratta in genere di piccola criminalità, la mafia non è questa».
Confessiamo la nostra delusione per il contesto disegnato dal Censis perché credevamo di essere messi meglio. Questo vuol dire che bisogna aumentare l’impegno e che c’è bisogno di più magistrati, come da tempo chiede al Csm il procuratore catanese Vincenzo D’Agata (a cui però il Csm ha chiesto le dimissioni, ndr).

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