TRALCI DI STORIE LONTANE
di M. P.

(dalle testimonianze degli anni di guerra dai racconti dello zio Pietro 1974)

…e poi un mattina d’estate l’Italia entrò in guerra.
Gaetano, il figlio maggiore che dall’età di nove anni già lavorava come un piccolo uomo nei campi a fianco al padre ed a qualche bracciante, fu spedito sul fronte greco-albanese e non dette più notizie di sé, finché riapparve inaspettatamente in paese che era già la primavera del ’45.

Giuseppe, il capofamiglia riuscì a restare a casa: si era fortunatamente fratturato una caviglia e si finse azzoppato per tutta la durata del conflitto. Aveva una famiglia da mantenere e non gli importava proprio nulla del governo, degli ideali politici, delle alleanze e dei vagheggiamenti di chi stava al potere. Dopo la bancarotta del 29 che aveva ridotto lui e tutti i suoi parenti quasi sul lastrico, non era stato più capace di fidarsi di alcuno e non avrebbe lasciato mai che quel poco di terra che ancora gli permetteva di tirare avanti, fosse abbandonata agli sterpi per mancanza di manodopera.

La terra era tutto. La terra non lo avrebbe tradito, bastava tenersi aggrappati con tenacia alla spartana quotidianità di un lavoro durissimo nei campi, attenti a non farsi portar via la pagnotta dai tanti, troppi, venditori di fumo.

Una saggezza antica gli suggeriva un atteggiamento prudente, parco di parole, espressioni e sentimenti, poiché sentiva sulla pelle ogni giorno la fame disperata di tanti altri compaesani, oppure l’avidità e l’invidia di chi vantando amici potenti poteva espropriarlo di tutto pretestuosamente.

In paese, non vi erano state forme di esasperante fanatismo fascista come in altre parti d’Italia, e in un primo tempo Giuseppe pensò che ormai il suo nome fosse stato ormai dimenticato tra i faldoni di qualche elenco anagrafico, accatastato in qualcuno degli affollatissimi uffici del comando a Catania.

Per qualche anno, invece, al ritorno dai campi, proprio all’angolo della via di casa, un informatore pagato dal comando, l’attendeva per coglierlo in fallo, spiandone il passo affinché potesse forse tradirsi, ma Giuseppe aveva l’occhio lungo e recitò pazientemente la sua parte per tutta la durata del conflitto. Fu persino chiamato ad una visita di controllo per la sua invalidità, ed i medici dovettero ammettere che in effetti c’era una grossa deformazione ossea, riconoscibile anche al tatto, e che quindi lo esentava dal presentarsi alle armi.

Grazie al cielo vivevano in un paese dimenticato dalle S.S. mentre i fascisti locali, meno contrastati politicamente che in altre regioni italiane, sembravano essere più attenti ad una politica di entusiastica propaganda con varie manifestazioni di piazza, o con le canzonette inneggianti all’amor patrio, e ancora con le proclamazioni scritte a lettere cubitali sulle facciate dei palazzi del centro storico e che facevano sognare solo i ragazzini.

La vita recondita di quel paese era così lontana dai venti di guerra che chi aveva dei figli al fronte, per qualche mese continuò a sognare la sicura vittoria e ad ignorare l’ignominiosa sciagura in atto.

In campagna non c’erano più uomini, erano gli anziani e gli adolescenti a mandare avanti le cose. C’era sempre la miseria faticosa di sempre, ma tutti erano convinti che la guerra sarebbe durata solo qualche mese, e che presto diventando complici dei nuovi padroni del mondo il benessere sarebbe stato garantito ad ogni italiano; ma con il passare degli anni la situazione andò sensibilmente peggiorando.

Le donne forti di una tradizione di grande fede, si riunivano sempre più spesso a pregare per una generazione di giovani uomini perduti in terre lontane ed inimmaginabili, mentre le uniche notizie dal fronte erano vagamente riportate da quei pochi in possesso di una radio, o raccolte dalle scarse informazioni che giungevano per posta da soldati spesso quasi analfabeti, e che per pudore e rispetto non entravano mai nel dettagli.

Pippo, il figlio tredicenne, terminata la terza media cominciò ad aiutare il padre nei campi assieme al fratellino Pietro, di un paio d’anni più grande. Insieme passavano la notte fuori a badare ai loro campi, per paura dei furti, lasciando rincasare il padre affinché mamma, Concettina, ed il piccolo Nicola, non restassero soli. Ogni giorno per andare a lavorare si facevano diciotto chilometri, un po’ a dorso di mulo e un po’ a piedi, portandosi dietro una forma di pane ed un pugno d’olive, che doveva saziarli per tutto il giorno..

Gruppi di banditi percorrevano la regione da secoli, dandosi alla macchia in un territorio in gran parte selvaggio ed impervio, quale quello di boschi e di rocce alle pendici meridionali dell’Etna. Gli scontri con i carabinieri erano sanguinosi, nessuno osava contrastarli perché tutti sapevano quanto fossero spietati. Quando i contadini s’imbattevano in questi inquietanti figuri, sapevano di doverli assecondare, facendo finta di non riconoscerli, e badando bene a non raccontare quello che avevano visto.

Una mattina Giuseppe avvertì i figli che c’erano dei cavalli legati accanto alla loro casa di campagna lungo il Simeto, gli uomini armati che stavano abbeverandoli erano inselvatichiti dalla dura vita clandestina che conducevano dormendo all’aperto chissà da quanti mesi. Pippo rimase sconcertato quando vide il capobanda chiedere a suo padre, con un gran sorriso cordiale, del pane per sfamare lui e la sua gente; seppe poi, dopo qualche anno, che il capobanda era un compaesano ed abitava a pochi isolati da casa sua, nella strada stretta e tutta in salita accanto alla chiesa di S. Giuseppe, e regolarmente tenuta d’occhio dai carabinieri tutti i giorni.

Pietro e Pippo lavoravano duramente tutto il giorno, ma poi le notti da trascorrere soli in campagna, i primi tempi parevano eterne, l’oscurità pareva popolarsi di tutti quegli strani personaggi fantasmagorici che aveva ascoltato per anni descrivere nei racconti d’infanzia, quando d’inverno, stretti attorno ad un braciere di carboni ardenti, zio Ciccio raccontava antiche leggende in cui diavoli e lupi mannari andavano allontanati brandendo croci benedette e mazzi d’aglio. Ora tutti queste storie echeggiavano nelle loro menti così bastava il grido stridulo di una civetta nella notte per fargli perdere il sonno.

Pietro, dagli occhi verdi come il muschio ed i lineamenti vagamente normanni, era stato sempre impulsivo ed indomabile, ma da qualche tempo aveva assunto un comportamento di una prudenza inaudita; le responsabilità che lo investivano, in mancanza del fratello più grande, gli avevano fatto dimenticare tutta la leggerezza spensierata delle marachelle cui era uso riempire le giornate.

Ogni tanto i due fratelli s’azzuffavano ancora per la priorità dei lavori sui quali ognuno voleva si facesse di testa propria, ma l’avanzare della notte li riportava a rivolersi bene ed a vegliarsi reciprocamente.

Durante una notte di primavera si sollevò una vera tempesta, e i due ragazzi erano rimasti in campagna pensando fosse sufficiente portare al riparo muli e pecore e chiudere bene la porta, mentre poi in un secondo tempo, terrorizzati, speravano di poter tornare al più presto in paese.

Antichi ulivi dalle fronde massicce erano stati travolti da mulinelli ed impetuose raffiche di vento, la pioggia era così violenta e sferzante da impedire qualsiasi movimento, ed il buio era pressoché totale.

Pippo piangendo ed ansimando era corso fino allo strapiombo sul Simeto per controllarne il livello. Il fiume s’intravedeva dall’alto brillare mentre tortuosamente vorticava in mezzo a gole rocciose, mentre strani boati si mescolavano allo scrosciare della pioggia, trasformata in grandine, ed ai lamenti degli animali impazziti nella stalla.

Pietro voleva guadare il fiume con i due muli, ma quando arrivarono in prossimità della riva scorsero con orrore che l’acqua dall’altra parte aveva rotto l’argine e stava allagando la strada che portava al paese. Fu una notte lunghissima. La furia degli elementi sembrava non esaurirsi mai. All’alba d’un tratto tutto si calmò ed un paesaggio freddo e desolante apparve con le prime luci.

L’agrumeto era stato selvaggiamente frustato dalla pioggia ed aveva perso un terzo delle sue fronde, le foglie rivoltate dal vento mostravano il loro lato più opaco, la vigna e l’orticello avevano avuto grossi danni, ma il peggio fu quando videro il grano ammassato con le sue verdi spighe ancora immature tutte riverse una sull’altra. Così mente scolopendre nere e decine di millepiedi brulicavano su ogni anfratto cercando di mettersi al riparo, torrentelli d’acqua continuavano a scorrere e zampillare tra i massi lavici dei muretti divelti, tra tronchi e ramoscelli spezzati dalle gemme ancora turgide e lucide di pioggia, mentre l’aria profumava ancora d’acqua e di verde nascente.

Nuvole dagli orli sfrangiati, con un lento e disordinato sovrapporsi, macchiavano il cielo come grosse pozzanghere cupe. Fradici di pioggia i due fratelli avevano acceso un piccolo braciere e se ne stavano al riparo, sotto ad una coperta, sperando vivamente che il padre venisse loro incontro.

Nella tarda mattinata si sentirono chiamare da lontano e papà, pallido dallo spavento, ed avvolto nel suo giaccone più pesante, sbucò con un asinello da uno stretto passaggio tra le rocce laviche alle loro spalle.

Per tutta la notta aveva pregato con la moglie Maria e sua figlia Concettina perché non succedesse nulla di brutto ai suoi due figli. Erano anni che non si ricordava una nottata di tempesta come quella! Giù a valle c’erano carcasse di animali morti, trascinati dalla piena del Simeto. Le strade piene di fango erano impraticabili, greggi e pastori erano andati dispersi, ed anche in paese le strade erano allagate e torrenti d’acqua s’erano riversati nelle case, scorrendo a tutta velocità per le vie in forte pendenza.

La cavalla manco a farlo apposta aveva avuto le doglie proprio di prima mattina, così Giuseppe aveva dovuto aspettare che Maria andasse a chiamare lo zio Filippo, oppure zio Ciccio per farsi aiutare, mentre lui correva alle vigne a cercare i ragazzi. L’angoscia in lui era aumentata quando incontrando lungo la strada altri contadini fu avvertito delle frane e smottamenti di fango che avrebbero potuto inghiottirlo. Rifacendo a nord un antico sentiero attraversò quindi il Simeto grazie all’antico ponte saraceno, ormai in disuso, mentre la piena raggiungeva completamente le arcate a sesto acuto e l’acqua torbida e piena di gorghi trascinava a valle di tutto.

Per un paio d’ore aveva seguito un sentiero che neppure si vedeva più, arrampicandosi tra le rocce a grande fatica, ma ora la felicità per averli ritrovati sani e salvi lo ritemprava di nuova energia.

Si abbracciarono e Giuseppe ringraziò la Madonna ad alta voce per aver protetto i suoi figli.

Li rivestì con i panni asciutti e soprattutto diede un sorso di vino dalla fiaschetta che aveva portato eccezionalmente per riscaldarli e rincuorarli.

I due ragazzini, crollavano per la stanchezza ed avevano nello sguardo ancora tutto lo spavento di quella notte, ma dovettero mettersi subito al lavoro, cercando di porre rimedio ai danni più vistosi, anche se probabilmente avrebbe ricominciato a piovere di lì a poche ore.

Verso le tre del pomeriggio, mogi, sulla strada di casa incontrarono altri paesani, alcuni molto avviliti dalle perdite subite si fermavano piangenti con la coppola in mano dinnanzi all’immagine della Vergine Maria dipinta all’angolo della strada maestra.

Quella sera prima del coprifuoco fu organizzata una processione enorme, con la recita all’unisono del rosario, mentre chi non poteva allontanarsi da casa affollava i piccoli balconi barocchi delle strade principali esponendo le coperte damascate più belle in segno di rispetto.

Trascorsero mesi angosciosi per Maria, nessuna notizia del figlio lontano. Era rimasta l’unica donna del quartiere a non avere mai avuto alcuna lettera. Lo immaginava in Francia, a volte in Africa, o disperso tra tormente di neve in Russia, lasciandosi suggestionare dagli echi di una guerra sempre troppo lontana.

L’attesa spasmodica durò anni, Maria sentiva il cuore palpitare all’impazzata ogni volta che sentiva nel borgo la voce del postino, ma non udiva mai chiamare il suo nome e non osava più uscire per andargli incontro, per non farsi compatire dal vicinato.

Donna Rosaria, sua dirimpettaia, le diceva sempre di non illudersi più e di accettare il fatto che Gaetano non sarebbe mai più tornato, così lei avrebbe trovato un po’ di rassegnazione. Maria odiava sentirla dire così, e l’avrebbe schiaffeggiata volentieri lei e le altre malelingue del quartiere!

Come se non bastasse continuava sempre a chiederle se aveva combinato un fidanzamento con qualcuno al fronte, come era d’uso, per Concettina, e questa sua smania di spingere i figli altrui forzatamente a competere con i traguardi dei propri figli era veramente sfinente.

Donna Rosaria era sempre stata invidiosa di Maria, perché i suoi figli erano costretti a lavorare conto terzi e le tre ragazze che si teneva in casa rischiavano, senza dote, di non sposarsi mai. Quando riuscivano a mangiare qualcosa di buono lo facevano sempre in modo da sventagliarlo ai quattro venti, senza alcun riguardo per chi non ne aveva: per esempio lasciando aperta la porta per far sentire il profumo di lepre arrostita, oppure lasciando che i fratellini più piccoli uscissero in cortile con qualche pezzetto di arrosto, facendo venire l’acquolina a chi nel quartiere la carne non la mangiava da anni e campava d’erbe cotte.

Maria non aveva mai permesso ai suoi figli di comportarsi così, e se mangiavano qualcosa di meglio degli altri, durante i lavori nei campi, lo facevano di nascosto, per non suscitare l’invidia e Pietro e Pippo avevano imparato a mangiare pane e formaggio nascondendo quest’ultimo nell’incavo della mano, in maniera quasi invisibile, mentre apparentemente stringevano tra l’indice ed il pollice una fetta di pane.


Quasi che la guerra dovesse finire da un’istante all’altro, tutti esultavano rincuorati dalla notizia che l’America avesse deciso di affiancare gli inglesi per liberare il mondo dal giogo nazista. Notizie discordanti e confuse informavano che gli americani erano già sbarcati in Sicilia e che setacciavano a tappeto ogni paese per cacciarne via i nazifascismi..

Nell’estate del “43 spietato ed ardente il sole batteva sulle sciare. Non un soffio, non un minimo tentativo di brezza sui colli circostanti, mentre tra le messi mature trebbiavano i contadini.

La pace solinga della campagna era rotta dal fruscio puntuale dei falciatori tra le spighe dorate e da qualche monosillabo che a stento usciva dalle gole riarse di chi da ore piegato letteralmente in due, mangiava polvere e sudore.

All’improvviso s’udì un rombare lontano e di un aereo apparve all’orizzonte sulle cime rotonde delle colline più a sud. Tutti corsero al rifugio, temendo l’ennesimo bombardamento, ma presto si accorsero d’essersi allarmati per nulla, ed uscendo dal fresco riparo scavato tra la lava, raccolsero i volantini dispersi sulla strada maestra.

Pippo e Pietro si strinsero accanto al padre che leggeva ad alta voce per informare anche i braccianti analfabeti, di altre contrade, che gli si erano stretti a crocchia attorno, con gli occhi colmi di curiosità, tutti respirando piano sotto al sole, mentre si asciugavano i volti sudati ed impolverati e con un gesto automatico scuotevano i lisi pantaloni da lavoro, dalla paglia..

Sul volantino c’era un avviso del podestà che ordinava di abbandonare entro le ventiquattrore il paese, perché avrebbe avuto luogo un bombardamento.

Sulla fronte di Giuseppe si disegnò una ruga profonda di inesprimibile preoccupazione. Si sollevò la coppola come solo faceva quando era molto preoccupato, quindi esortò i suoi figli a riprendere celermente il lavoro, perché sarebbero rincasati prima del previsto, mentre i braccianti invece preferirono finire la giornata per poter contare su di un pezzo di pane di paga in più per le loro famiglie.

I ragazzi non osavano commentare tra loro perché Giuseppe aveva l’aria truce, quindi s’avviarono tutti ammutoliti sulla via del ritorno, finché non incontrarono quel chiacchierone di Don Antonio che stava arrivando in gran carriera per pagare il dovuto ai braccianti, e che sembrava non vedesse l’ora di raccontare di quanto panico ci fosse in paese, e di quanti già fossero già sfollati con armi e bagagli, lasciando i più benestanti a rodersi nel dubbio di dover veramente abbandonare completamente le loro case ai ladri, che non avrebbero avuto occasione più ghiotta per fare piazza pulita.

Quando giunsero nel cortile di casa sulla soglia vie era zio Filippo e Zio Ciccio che aspettavano Giuseppe per consultarsi sul da farsi, mentre il suocero Don Pietro era già partito con la famiglia verso la montagna, dove la moglie aveva una casetta sperduta tra i boschi di castagni.

Concettina, agitata più che mai, saltellando più del consueto, corse ad aprire nel frattempo la porta della carretteria aiutando poi i fratelli a dissetare e rifocillare di corsa il mulo.

Maria cercava di sopprimere leggeri tremiti di inquietudine ,e mentre preparava i bagagli, ripeteva in dialetto litanie ai santi più cari che aveva in paradiso.

Pranzarono in modo frugale, senza neppure apparecchiare la tavola masticando qualche carciofo crudo che neppure potevano permettersi il lusso di condire, – perché l’olio ogni anno andava con sacrificio venduto tutto – . Tutti scrutavano ansiosamente il capofamiglia, come se da lui potesse uscire una frase di speranza e conforto, ma lui se ne restava con gli occhi bassi e lo sguardo cupo, senza aver voglia di esternare tutta la rabbia ed i pensieri che gli scoppiavano nella testa.

Zio Ciccio e zio Filippo erano già partiti, mentre a Giuseppe restava disponibile la casetta al Milione.

Poi fu tutto un susseguirsi di ordini: la farina e l’olio vennero nascosti in un camerino cieco dove abitualmente dormiva Concettina. Lei stessa dall’interno ne barricò l’entrata in modo che nessuno potesse sfondare la porta, quindi esile e snodata come un gatto sbucò fuori dal piccolo finestrino ogivale che sovrastava l’architrave. Giuseppe coprì la porta ed il finestrino parandogli davanti il grosso armadio della camera nuziale. Altre derrate alimentari furono celate in una botola che s’intravedeva appena tra le mattonelle del pavimento, che fu poi cosparso di segatura per celarne la vista.

Arrotolato qualche materasso e presa qualche altra vettovaglia si avviarono sul far della sera, scivolando tra le lunghe ombre del crepuscolo, mentre il cielo si tingeva di rosa, sagomando le rocce aguzze che si profilavano all’orizzonte come imponenti matrone in abiti a lutto.

Le agavi e i mandorli avvolti in una magica luce violetta trascoloravano in una atmosfera d’incanto, poi all’improvviso il sole rotolò via in un istante, in un orizzonte di fuoco, mentre le nubi sull’’Etna si tinsero teneramente di rosa e di azzurro.

S’alzò finalmente un refolo di vento, così dolce da sciogliere il sangue nelle vene, e poi anche le ultime rondini ed il loro garrire svanirono con gli ultimi riflessi di luce.

La piccola carovana di sfollati lasciò poi la strada maestra per incamminarsi su di un sentiero contorto, tra la lava tiepida ancora di sole.

I muli erano carichi di masserizie e precedevano molto lentamente, e poi mentre nella campagna circostante svanivano nel buio altre piccole carovane di disperati, finalmente raggiunsero il piccolo rifugio di pietra lavica, una casetta nera con una piccola finestra incorniciata da una passata di calce bianca.

Milioni di stelle enormi si affacciavano sopra di loro, mentre la luna con la bellezza sontuosa di un antico monile barocco s’adagiò piano tra gli ulivi.

Maria e Concettina prepararono un giaciglio per la notte alla luce di un lume a petrolio che puzzava tantissimo, mentre un concerto di grilli fuori benediceva l’aria di inconsueta tranquillità.

Qualche lucciola solitaria entrò dalla porta vagando nella stanza e Pippo se ne impadronì con aria festosa, spintonandosi con Pietro finchè il padre, furioso, con uno schiaffo non li mise a tacere tutti e due.

Concettina si premurava di smorzare la tensione che aveva chiuso lo stomaco a sua madre, aiutandola a pettinarsi come di consueto ed a sistemarsi lo scialle per difenderla dall’aria umida della notte. Quando tutti già dormivano Giuseppe uscì per piangere lacrime amare senza essere visto.

All’alba Concettina e Maria erano già in piedi, indolenzite ed affamate, e stavano avvicendandosi per rendere abitabile quel rifugio di due sole stanze, mentre i due ragazzi furono spediti in cerca di verdura per potersi sfamare. Tutti poi pranzarono, facendosi bastare le cardelle che avevano raccolto, e che mangiarono crude, salandole appena..

Più tardi dopo aver rifocillato le bestie con acqua piovana della cisterna ed un sacchetto di biada sotto al muso,Giuseppe pensò di scender giù al pozzo vicino alla strada maestra per riempire i bummoli d’acqua fresca.

Nicola, il bambino più piccolo,che nonostante l’estrema magrezza conservava una incredibile vivacità, insistette per accompagnarlo, e Giuseppe se lo caricò sulle spalle come se fosse stato un fuscello.

Appena raggiunsero un’altura di lava che si protendeva a strapiombo verso la Piana di Catania, Giuseppe si fermò per scrutare là dove s’ammucchiavano bianche e grigie le case del paese.

Il cielo era limpido ed azzurro, non c’erano altro che voli di rondini ignare ed una pace incantevole, ma contemporaneamente preludio così angosciante da togliere il fiato.

Fu molto più tardi, quando il sole era già alto nel cielo, che come un giocattolo apparve un piccolo aereo tra le colline nitide all’orizzonte. Per un istante sembrò esitare vacillando nell’aria, senza alcun rumore percettibile, poi il vento portò un vago rombare, che in altri momenti avrebbe fatto pensare alla voce cupa e sorda dell’Etna. Un boato improvviso echeggiò per tutta la campagna, poi ne seguirono rapidi e convulsi parecchi altri.

Da lontano una colonna di fumo si librava nell’aria, Giuseppe e Nicola non erano ancora tornati e Maria, che con Concettina stavano faticosamente spingendo sulle due grosse macine di pietra per trasformare il grano in quella giusta dose di farina, necessaria per fare il pane, cominciava a preoccuparsi. Concettina con la sua parlantina veloce costruiva mille ipotesi al minuto, poi abbracciava sua madre e baciava in continuazione una medaglietta d’ottone che il parroco di S. Giuseppe aveva regalato di recente a tutte le parrocchiane più devote. Ogni tanto tendevano l’orecchio, ma il silenzio pareva assoluto.

Più tardi quando le forme di pane stavano lievitando sotto ad una grossa coperta di lana ruvida e nera, diffondendo un profumo dolce e delicato, Pippo entrò trafelato per avvertirla che aveva visto passare sulla strada maestra una camionetta di tedeschi.

Maria si segnò la fronte esclamando preoccupata e poi corse fuori tra gli ulivi, agile e spiccia nonostante gli abiti ingombranti e la figura appesantita dalle cinque gravidanze.

Dall’alto della montagna guardava giù verso la strada e poi più lontano ancora, cercando di scorgere il marito ed il piccolo Nicola, che inciampava sempre, piccolo e magro com’era, perché portava le scarpe smesse di Pippo, e che non erano mai della misura giusta.

Maria voleva far loro un gesto di pericolo, perché si mettessero presto al riparo. Pensava con orrore a quello che era successo al figlio di una delle sue comari, che pochi giorni prima era stato deportato durante uno degli ultimi e feroci rastrellamenti nazisti.

Maria strinse una mano tra i denti, come faceva ogni volta che era al limite della frustrazione, Pippo raccolse il gesto di sua madre ed intuì che doveva andare incontro a suo padre, per metterlo in guardia. . Maria avrebbe voluto impedirglielo. Sentiva una stretta al cuore, mentre lo guardava strisciare furtivo tra le rocce ed i fichi d’India, agile come un gatto; lui si voltò a guardarla solo una volta con quei due begli occhi grandi e scuri, dalle ciglia che parevano quasi di velluto, e con quel suo visetto rotondo ed abbronzato, ancora così tanto da bambino.

Concettina nel frattempo aveva finito di informare il pane ed una volta cotto lo nascose assieme ad un fagotto ed ai pochi oggettini d’oro sotto ad un materasso, ma non si sentiva sicura, allora prese un grosso paniere dove tornò a nascondere tutto e lo portò a gran fatica in mezzo ad una muraglia di fichi d’india, quindi i tornò lesta in casa, dove Pietro stava raccogliendo il carbone dal forno per stiparlo in un grosso bigoncio di metallo, per ripulire l’ambiente dalle frasche secche d’ulivo.

Maria, nel frattempo, pallida e tremante aveva appena scoperto che un paio di soldati tedeschi stanchi ed impolverati stavano risalendo il sentiero che portava da loro, quindi corse a rifugio e fece appena in tempo a nascondere Concettina in quel suo nuovo nascondiglio segreto, dove le pale spinose dei fichi d’india avrebbero scorticato qualsiasi altro uomo di grossa corporatura e dove solo la sua figuretta da trenta chili poteva rannicchiarsi. Pietro invece, irremovibilmente, era voluto restare con la madre, ed ora in silenzio, come ciechi, chiusa la porta, si concentravano spasmodicamente su di ogni minimo fruscio al di fuori di quelle quattro mura, senza dirsi una sola parola,in attesa, forse, di morire all’istante.

Maria ora temeva anche per Pippo, perché se fosse tornato indietro subito sarebbe stato forse preso dai tedeschi. Il rosario che teneva stretto al cuore aveva ormai impresso i suoi grani nella carne, perché sapeva che era l’unico modo per fermare il male.

Udirono all’improvviso le voci dei tedeschi proprio dinnanzi alla porta, che qualcuno di loro aprì con uno spintone ed un paio di soldati giovani e sfiniti dalla stanchezza s’affacciarono sulla soglia, puntando loro le armi.

Maria li guardò negli occhi e strinse a sé Pietro, tutto tremante e prossimo alle lacrime. Un soldato puntò loro un mitra, mentre l’altro frugava freneticamente come un cane affamato tra le poche cose che avevano trovato nelle bisacce e nei panieri accumulati attorno ai pagliericci buttati per terra. Erano soprattutto affamati. Aprirono lo sportello del forno che era ancora caldo e fecero l gesto di voler pane da mangiare. Maria fingeva di non capire, si ostinava a rispondergli in dialetto stretto scuotendo la testa, chiamando i santi in aiuto ed agitando il rosario tra le mani.

I soldati ora le chiedevano dov’erano gli uomini di casa, e viste le due coperte coprire ancora il tavolaccio dove il pane era stato fatto lievitare, le sollevarono pensando di scoprire forse un uomo adulto da portare via. Qualcuno più a valle li richiamò con il clacson e quindi spazientiti, prima di andarsene, velocemente, presero due bummoli d’acqua e l’unica forma di pane che Concettina furbescamente aveva lasciato come razione quotidiana.

Avevano gli americani ad incalzarli a pochi chilometri e ormai potevano solo cercare di ritirarsi in gran premura.

Maria si appoggiò sfinita ad una sedia e cominciò a piangere per la sorte dei suoi familiari mentre Pietro cercava di darle darle un goccio d’acqua che ancora era rimasta in una ciotola per impastare il pane. Concettina invece era corsa fuori per assicurarsi in silenzio che la camionetta fosse veramente ripartita e scorse, nascosto tra le fronde di un grosso castagno, poco distante, suo fratello Pippo, che per tutto quel tempo se ne era rimasto immobile ad aspettare che il nemico se ne andasse.

Quando entrambi tornarono al rifugio, Pietro se ne stava spaurito seduto sulla soglia di casa a masticare una radice di liquirizia tenendo gli occhi bassi, mentre Maria pregava in silenzio. Il sole ormai picchiava come un martello, non c’era più acqua e Giuseppe e Nicola erano forse stati catturati. Concettina guardava di sottecchi il viso pallido di sua madre e poi si decise a cuocere qualche verdura, mentre Pippo dopo aver baciato la mamma lungamente, chiedeva con un filo di voce a Pietro i dettagli di quello che era successo in sua assenza e l’altro mimava il mitra puntato sulla sua testa e l’occhiata di fuoco del tedesco.

Maria poi gettò un grido di sollievo e balzò fuori dalla porta. Aveva riconosciuto lo starnuto di Nicola. Erano tornati! Erano salvi! Giuseppe era là fuori con lo zio Ciccio e la zia Venera, c’erano poi zio Carmelo e comare Giovanna, mentre il piccolo Nicola era corso a nascondere il viso, quasi a volersi fare perdonare per la lunga assenza, nel grembiulone ruvido di Maria, che non potè fare a meno di piangere e baciarlo a non finire.

I ragazzi uscirono di casa e Giuseppe per primo urlò, per la sorpresa! Si abbracciarono tutti, piangendo per l’emozione di ritrovarsi ancora sani e salvi. Erano tutti frastornati e si raccontarono vicendevolmente le loro impressioni, Giuseppe spiegò che quando stava già per tornare verso casa si era accorto della camionetta tedesca ferma sulla strada,, così si era rimasto a spiarli dall’alto, restando ben nascosto tra gli anfratti lavici e la fitta vegetazione.

A un certo momento però, quando gli parve di riconoscere i suoi figli nei due ragazzini che venivano strattonati a forza e caricate a spintoni sulla camionetta, pensò di impazzire per il dolore.

Se si fosse avvicinato lo avrebbero scoperto e probabilmente avrebbero sterminato il resto della famiglia. Giuseppe aveva pensato di mettere in salvo almeno Nicola arrampicandosi ancora più su, verso la masseria di suo fratello Ciccio e poi tornare ad accertarsi dei fatti.

Zia Venera allora intervenne per descrivere la faccia che aveva Giuseppe quando scuotendo la testa era andato loro incontro con le lacrime agli occhi,con quel dubbio lacerante nel cuore.

Maria continuava a baciare il rosario per il pericolo scongiurato, rincuorata poi affettuosamente dal ciarlare cinguettante delle cognate, riprese a preoccuparsi di come mettere insieme il pranzo con la cena ed allestire nuovi pagliericci per i parenti.

Si finì col fare mille congetture su Gaetano che dal fronte non dava notizie, Giuseppe si innervosì come al solito perché le chiacchiere disperate delle danne gli davano fastidio ed uscì con i fratelli ed i ragazzi a raccogliere legna, e verdure. I suoi timori, riguardo alla casa in paese, furono aumentati dalla tregua improvvisa del bombardamento, e questo avrebbe lasciato via libera agli episodi di sciacallaggio, che erano già accaduti in altri posti tra gli stessi compaesani.

Giuseppe sapeva di dover tornare a controllare che non succedesse anche a casa sua, così Ciccio e Carmelo gli promisero di pernottare con le mogli assieme a Maria ed ai ragazzi in modo che lui potesse partire più sereno.

Prima dell’imbrunire Giuseppe salutò tutti con aria greve e s’incamminò verso il paese su di un asinello, portandosi dietro un po’ di pane ed un bummolo d’acqua.

La brezza fresca della sera alitava leggera attenuando la sua stanchezza.

Nel cielo viola, estivo, , galleggiava una grossa luna che gli illuminava il cammino, facendo capolino tra le rocce. I muri di lava scura che costeggiavano la strada erano rivestiti da turbini di campanule fucsia e turchesi che a quell’ora avviluppavano la corolla per il riposo notturno. Una lepre spaventata corse a nascondersi nell’oscurità più profonda, mentre un coro di grilli mormorava serenamente, sordo all’inquietudine che attraversava il cuore degli uomini.

Sembrava una notte come tante, eppure poteva essere anche l’ultima della sua vita.

Se i bombardamenti fossero ripresi anche quella notte…? Non voleva pensarci. Il lamento di una civetta lo riempì di superstiziosa paura e si fermò a rccogliere un sasso per ricacciarla da dove era venuta.

Al chiarore lunare s’intravedevano le prime macerie. Lo stomaco gli si strinse d’angoscia e pietà. La realtà delle cose fuggiva come in un sogno per sconfinare in dimensioni assurde, proprie degli incubi peggiori.

Alberi secolari che ricordava fin da bambino, erano state squarciate, e fin dalla più immediata periferia gli apparvero immensi crateri e macerie fumanti. Scheletri grotteschi di case incendiate si levavano macabri nella notte, mentre un pulviscolo acre impregnava l’aria che respirava.

Gli fu difficile orientarsi, le strade ostruite da cumuli di pietrame lo obbligavano in uno strano labirinto disperato.

Nel silenzio tetro s’udivano azzuffarsi ferocemente gatti randagi, con miagolii spettrali: forse non erano gatti ma anime perse, intrappolate sotto cumuli di macerie. Tre di cani affamati e spaventati lo seguirono finchè lui non lanciò loro un sasso per allontanarli, spaventato all’idea di trovarseli addosso a frugare nella sua bisaccia quel poco pane che aveva, mentre altri ancora raspavano avidamente tra le macerie alla ricerca di qualcosa da mangiare. Più avanti l’asinello fece uno scarto all’indietro, facendolo a sua volta sobbalzare dinnanzi ad: un mucchio di topi intenti a rosicchiare un mulo ormai morto.

Giuseppe proseguiva inorridito da tanto squallore, quasi correndo, come se il terreno sotto ai piedi potesse mancargli da un istante all’altro, tenendo l’asino per la cavezza e gli giovava sentirne l’alito tiepido e famigliare riscaldargli le dita .

Una tristezza senza fine lo pese più forte dello stesso sgomento, mentre vagava da un quartiere all’altro in cerca di un punto di riferimento nell’oscurità. All’improvviso apparve pallida la facciata della chiesa di S. Francesco, e pregò allora in cuor suo con tenacia perché sapeva ormai che tra pochi passi sarebbe giunto a casa.

Si accorse di sudare freddo, di essere sfinito mentre s’accingeva ad attraversare via Catena ed imbucare via Monteleone. Voltò l’angolo e con gioia infinita la vide, intatta tra poche altre, come se nulla l’avesse riguardata: la sua casa, la casa dei suoi avi, la casa del suo matrimonio con Maria era ancora in piedi!

Giuseppe si inginocchiò un’istante e si fece il segno della croce.

Dinnanzi a lui c’era il solido portone della carretteria solo sfiorato dalle schegge delle esplosioni, mentre la porta d’ingresso invece era stata deliberatamente sfondata da qualcuno. Il sollievo iniziale fu spazzato da un una rabbia cieca contro gli ignoti che erano penetrati in casa sua. Dentro regnava un gran disordine. La biancheria era ammassata in terra in mezzo ai cassetti rovesciati e tutte le suppellettili buttate in aria nell’intento evidente di ritrovare oro o denaro da qualche parte. In cucina, al piano di sopra mancava quel poco d’olio e vino lasciato per la gran fretta era stato rovesciato per terra senza riguardo, mentre il grano nascosto nella nicchia nel pavimento era stato tutto portato via, perché era un nascondiglio che quasi tutte le case dei contadini avevano ed era facile da intuire. L’olio nel camerino celato dall’armadio invece non fu scoperto, e Giuseppe si sentì molto soddisfatto, perché venderlo lo avrebbe salvato dalla fame nei mesi successivi.

Salì in terrazzo dove il basilico continuava a profumare l’aria dolcemente con i suoi piccoli fiori bianchi, prese una sedia e restò solo con gli occhi pieni di lacrime a scrutare il cielo stellato.

Bevve lunghe sorsate d’acqua dal bummolo e divorò in fretta il pane portato con sé, dopo averlo affettato devotamente, come sua consuetudine, in una sorta di riverente rituale; poi sfinito rientrò dabbasso e si buttò sul letto ancora in disordine, rimanendo del tutto vestito.

Aveva sonno eppure una parte di sé continuava a vegliare inconsciamente sul più piccolo scricchiolio alla porta, che aveva cautamente sbarrato con una sedia.

Prima dell’alba crollò alcuni istanti, sprofondando in un sonno pesante e senza sogni, ma fu risvegliato bruscamente dal fragore del bombardamento, che fu peggio che starsene in mezzo al terremoto.

Si gettò sotto al letto e rimase a guardare alla luce intermittente dei bengala l’immagine della Sacra Famiglia che aveva appesa alla parete di fronte, pregandola incessantemente per almeno due ore con pochi monosillabi. Grazie al cielo quella a fine del mondo terminò e tutto il paese sembrò risprofondare in un silenzio di morte.

Era quasi mattina finalmente, e Giuseppe si sentì richiamare alla vita dopo una notte agli inferi.

Si sentiva invecchiato di dieci anni. Si ripulì alla meglio e corse ad abbeverare quella povera bestia che tutta notte sfinita dallo spavento aveva ragliato e scalciato chiusa nella carretteria.

In pochi minuti era già pronto per tornare in campagna dai suoi e chiuse la porta di casa alla meglio, sperando di non essere stato visto da nessuno per non suscitare i commenti di chi non avendo nulla da perdere in quelle occasioni malignava su chi ancora qualcosa per sfamarsi riusciva ad ottenerlo.

Sotto al sole nascente tutto era ancora più crudo, pensò a suo figlio al fronte e la collera antica verso i potenti che gestivano le sorti della terra e dell’umanità .

Qualche compaesano sperduto come lui, e con la barba lunga e l’aria stravolta, si aggirava tra le macerie della propria casa, altri che non si erano mai visti per quei quartieri si guardavano alle spalle con occhi di falco, in cerca di qualcosa da portare via al momento opportuno.

Presso un dirupo fuori paese un paio di ragazzi stava macellando i resti di un cavallo morto di stenti, con la pancia gonfia e livida, che poteva essere morto di carbonchio, e che avrebbe schifato chiunque, ma la fame di quei disgraziati evidentemente era ancora peggio.

Un ronzare appena percettibile lo rimise in allarme, rapido si mimetizzò tra gli ulivi mentre un piccolo aereo americano giungeva proprio sopra alla sua testa. Il sangue gli martellò nelle orecchie ed un’ondata di adrenalina lo preparò ad un attacco di nuova angoscia, ma con stupore vide oscillare candidi volantini e gettò una imprecazione di sollievo.

Incredulo lesse e rilesse a mezza voce uno di essi, come per ben imprimersi nella testa ciò che diceva: gli americani entro poche ore sarebbero entrati in paese e la guerra sarebbe finita molto presto.

Fu come se tutta la luce dorata del cielo gli avesse permeato il cuore di tenera ed improvvisa speranza, ma tuttavia dopo i primi minuti subentrò il dubbio, subentrò la sfiducia in quella bella favola che gli veniva raccontata come al solito… Dai soliti potenti di turno.

Gaetano dunque sarebbe veramente tornato? Tutto sarebbe stato come prima? La guerra stava veramente per finire?

Sul ciglio della strada vide le foglie appuntite di una cipolla, e si fermò a raccoglierla, divorato com’era dalla fame, finchè poi la cipolla non divorò lui dal brucior di stomaco…poi guardò verso sud e gli parve di scorgere una lunga colonna di camionette e carri armati zigzagare sulla strada asfaltata, allora, questa volta veramente stupito, incitò l’asinello ad affrettare il passo, sentendosi stordito da quello che veramente disperava ormai di poter vedere con i suoi occhi..

Il sole era ormai alto nel cielo quando giunse alle gole sul Simeto sulle quali si affaccia il Milione.

I suoi figli lo avevano scorso prima di lui, e gli corsero incontro gridando a perdifiato qualcosa che inizialmente non capiva.

Poi chiara gli giunse la voce di Pippo che gridava tutto felice: – …. gli americani hanno regalato allo zio Filippo la cioccolata… Papaaaà…. sapessi quanto è buonaaaaaaa !!! –

– FINE –
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