TRALCI DI STORIE LONTANE

di M. P.

(dalle testimonianze degli anni di guerra dai racconti dello zio Pietro 1974)

…e poi un mattina d’estate l’Italia entrò in guerra.

Gaetano, il figlio maggiore che dall’età di nove anni già lavorava come un piccolo uomo nei campi a fianco al padre ed a qualche bracciante, fu spedito sul fronte greco-albanese e non dette più notizie di sé, finché riapparve inaspettatamente in paese che era già la primavera del ’45.

Giuseppe, il capofamiglia riuscì a restare a casa: si era fortunatamente fratturato una caviglia e si finse azzoppato per tutta la durata del conflitto. Aveva una famiglia da mantenere e non gli importava proprio nulla del governo, degli ideali politici, delle alleanze e dei vagheggiamenti di chi stava al potere. Dopo la bancarotta del 29 che aveva ridotto lui e tutti i suoi parenti quasi sul lastrico, non era stato più capace di fidarsi di alcuno e non avrebbe lasciato mai che quel poco di terra che ancora gli permetteva di tirare avanti, fosse abbandonata agli sterpi per mancanza di manodopera.

La terra era tutto. La terra non lo avrebbe tradito, bastava tenersi aggrappati con tenacia alla spartana quotidianità di un lavoro durissimo nei campi, attenti a non farsi portar via la pagnotta dai tanti, troppi, venditori di fumo.

Una saggezza antica gli suggeriva un atteggiamento prudente, parco di parole, espressioni e sentimenti, poiché sentiva sulla pelle ogni giorno la fame disperata di tanti altri compaesani, oppure l’avidità e l’invidia di chi vantando amici potenti poteva espropriarlo di tutto pretestuosamente.

In paese, non vi erano state forme di esasperante fanatismo fascista come in altre parti d’Italia, e in un primo tempo Giuseppe pensò che ormai il suo nome fosse stato ormai dimenticato tra i faldoni di qualche elenco anagrafico, accatastato in qualcuno degli affollatissimi uffici del comando a Catania.

Per qualche anno, invece, al ritorno dai campi, proprio all’angolo della via di casa, un informatore pagato dal comando, l’attendeva per coglierlo in fallo, spiandone il passo affinché potesse forse tradirsi, ma Giuseppe aveva l’occhio lungo e recitò pazientemente la sua parte per tutta la durata del conflitto. Fu persino chiamato ad una visita di controllo per la sua invalidità, ed i medici dovettero ammettere che in effetti c’era una grossa deformazione ossea, riconoscibile anche al tatto, e che quindi lo esentava dal presentarsi alle armi.

Grazie al cielo vivevano in un paese dimenticato dalle S.S. mentre i fascisti locali, meno contrastati politicamente che in altre regioni italiane, sembravano essere più attenti ad una politica di entusiastica propaganda con varie manifestazioni di piazza, o con le canzonette inneggianti all’amor patrio, e ancora con le proclamazioni scritte a lettere cubitali sulle facciate dei palazzi del centro storico e che facevano sognare solo i ragazzini.

La vita recondita di quel paese era così lontana dai venti di guerra che chi aveva dei figli al fronte, per qualche mese continuò a sognare la sicura vittoria e ad ignorare l’ignominiosa sciagura in atto.

In campagna non c’erano più uomini, erano gli anziani e gli adolescenti a mandare avanti le cose. C’era sempre la miseria faticosa di sempre, ma tutti erano convinti che la guerra sarebbe durata solo qualche mese, e che presto diventando complici dei nuovi padroni del mondo il benessere sarebbe stato garantito ad ogni italiano; ma con il passare degli anni la situazione andò sensibilmente peggiorando.

Le donne forti di una tradizione di grande fede, si riunivano sempre più spesso a pregare per una generazione di giovani uomini perduti in terre lontane ed inimmaginabili, mentre le uniche notizie dal fronte erano vagamente riportate da quei pochi in possesso di una radio, o raccolte dalle scarse informazioni che giungevano per posta da soldati spesso quasi analfabeti, e che per pudore e rispetto non entravano mai nel dettagli.

Pippo, il figlio tredicenne, terminata la terza media cominciò ad aiutare il padre nei campi assieme al fratellino Pietro, di un paio d’anni più grande. Insieme passavano la notte fuori a badare ai loro campi, per paura dei furti, lasciando rincasare il padre affinché mamma, Concettina, ed il piccolo Nicola, non restassero soli. Ogni giorno per andare a lavorare si facevano diciotto chilometri, un po’ a dorso di mulo e un po’ a piedi, portandosi dietro una forma di pane ed un pugno d’olive, che doveva saziarli per tutto il giorno..

Gruppi di banditi percorrevano la regione da secoli, dandosi alla macchia in un territorio in gran parte selvaggio ed impervio, quale quello di boschi e di rocce alle pendici meridionali dell’Etna. Gli scontri con i carabinieri erano sanguinosi, nessuno osava contrastarli perché tutti sapevano quanto fossero spietati. Quando i contadini s’imbattevano in questi inquietanti figuri, sapevano di doverli assecondare, facendo finta di non riconoscerli, e badando bene a non raccontare quello che avevano visto.

Una mattina Giuseppe avvertì i figli che c’erano dei cavalli legati accanto alla loro casa di campagna lungo il Simeto, gli uomini armati che stavano abbeverandoli erano inselvatichiti dalla dura vita clandestina che conducevano dormendo all’aperto chissà da quanti mesi. Pippo rimase sconcertato quando vide il capobanda chiedere a suo padre, con un gran sorriso cordiale, del pane per sfamare lui e la sua gente; seppe poi, dopo qualche anno, che il capobanda era un compaesano ed abitava a pochi isolati da casa sua, nella strada stretta e tutta in salita accanto alla chiesa di S. Giuseppe, e regolarmente tenuta d’occhio dai carabinieri tutti i giorni.

Pietro e Pippo lavoravano duramente tutto il giorno, ma poi le notti da trascorrere soli in campagna, i primi tempi parevano eterne, l’oscurità pareva popolarsi di tutti quegli strani personaggi fantasmagorici che aveva ascoltato per anni descrivere nei racconti d’infanzia, quando d’inverno, stretti attorno ad un braciere di carboni ardenti, zio Ciccio raccontava antiche leggende in cui diavoli e lupi mannari andavano allontanati brandendo croci benedette e mazzi d’aglio. Ora tutti queste storie echeggiavano nelle loro menti così bastava il grido stridulo di una civetta nella notte per fargli perdere il sonno.

Pietro, dagli occhi verdi come il muschio ed i lineamenti vagamente normanni, era stato sempre impulsivo ed indomabile, ma da qualche tempo aveva assunto un comportamento di una prudenza inaudita; le responsabilità che lo investivano, in mancanza del fratello più grande, gli avevano fatto dimenticare tutta la leggerezza spensierata delle marachelle cui era uso riempire le giornate.

Ogni tanto i due fratelli s’azzuffavano ancora per la priorità dei lavori sui quali ognuno voleva si facesse di testa propria, ma l’avanzare della notte li riportava a rivolersi bene ed a vegliarsi reciprocamente.

Durante una notte di primavera si sollevò una vera tempesta, e i due ragazzi erano rimasti in campagna pensando fosse sufficiente portare al riparo muli e pecore e chiudere bene la porta, mentre poi in un secondo tempo, terrorizzati, speravano di poter tornare al più presto in paese.

Antichi ulivi dalle fronde massicce erano stati travolti da mulinelli ed impetuose raffiche di vento, la pioggia era così violenta e sferzante da impedire qualsiasi movimento, ed il buio era pressoché totale.

Pippo piangendo ed ansimando era corso fino allo strapiombo sul Simeto per controllarne il livello. Il fiume s’intravedeva dall’alto brillare mentre tortuosamente vorticava in mezzo a gole rocciose, mentre strani boati si mescolavano allo scrosciare della pioggia, trasformata in grandine, ed ai lamenti degli animali impazziti nella stalla.

Pietro voleva guadare il fiume con i due muli, ma quando arrivarono in prossimità della riva scorsero con orrore che l’acqua dall’altra parte aveva rotto l’argine e stava allagando la strada che portava al paese. Fu una notte lunghissima. La furia degli elementi sembrava non esaurirsi mai. All’alba d’un tratto tutto si calmò ed un paesaggio freddo e desolante apparve con le prime luci.

L’agrumeto era stato selvaggiamente frustato dalla pioggia ed aveva perso un terzo delle sue fronde, le foglie rivoltate dal vento mostravano il loro lato più opaco, la vigna e l’orticello avevano avuto grossi danni, ma il peggio fu quando videro il grano ammassato con le sue verdi spighe ancora immature tutte riverse una sull’altra. Così mente scolopendre nere e decine di millepiedi brulicavano su ogni anfratto cercando di mettersi al riparo, torrentelli d’acqua continuavano a scorrere e zampillare tra i massi lavici dei muretti divelti, tra tronchi e ramoscelli spezzati dalle gemme ancora turgide e lucide di pioggia, mentre l’aria profumava ancora d’acqua e di verde nascente.

Nuvole dagli orli sfrangiati, con un lento e disordinato sovrapporsi, macchiavano il cielo come grosse pozzanghere cupe. Fradici di pioggia i due fratelli avevano acceso un piccolo braciere e se ne stavano al riparo, sotto ad una coperta, sperando vivamente che il padre venisse loro incontro.

Nella tarda mattinata si sentirono chiamare da lontano e papà, pallido dallo spavento, ed avvolto nel suo giaccone più pesante, sbucò con un asinello da uno stretto passaggio tra le rocce laviche alle loro spalle.

Per tutta la notta aveva pregato con la moglie Maria e sua figlia Concettina perché non succedesse nulla di brutto ai suoi due figli. Erano anni che non si ricordava una nottata di tempesta come quella! Giù a valle c’erano carcasse di animali morti, trascinati dalla piena del Simeto. Le strade piene di fango erano impraticabili, greggi e pastori erano andati dispersi, ed anche in paese le strade erano allagate e torrenti d’acqua s’erano riversati nelle case, scorrendo a tutta velocità per le vie in forte pendenza.

La cavalla manco a farlo apposta aveva avuto le doglie proprio di prima mattina, così Giuseppe aveva dovuto aspettare che Maria andasse a chiamare lo zio Filippo, oppure zio Ciccio per farsi aiutare, mentre lui correva alle vigne a cercare i ragazzi. L’angoscia in lui era aumentata quando incontrando lungo la strada altri contadini fu avvertito delle frane e smottamenti di fango che avrebbero potuto inghiottirlo. Rifacendo a nord un antico sentiero attraversò quindi il Simeto grazie all’antico ponte saraceno, ormai in disuso, mentre la piena raggiungeva completamente le arcate a sesto acuto e l’acqua torbida e piena di gorghi trascinava a valle di tutto.

Per un paio d’ore aveva seguito un sentiero che neppure si vedeva più, arrampicandosi tra le rocce a grande fatica, ma ora la felicità per averli ritrovati sani e salvi lo ritemprava di nuova energia.

Si abbracciarono e Giuseppe ringraziò la Madonna ad alta voce per aver protetto i suoi figli.

Li rivestì con i panni asciutti e soprattutto diede un sorso di vino dalla fiaschetta che aveva portato eccezionalmente per riscaldarli e rincuorarli.

I due ragazzini, crollavano per la stanchezza ed avevano nello sguardo ancora tutto lo spavento di quella notte, ma dovettero mettersi subito al lavoro, cercando di porre rimedio ai danni più vistosi, anche se probabilmente avrebbe ricominciato a piovere di lì a poche ore.

Verso le tre del pomeriggio, mogi, sulla strada di casa incontrarono altri paesani, alcuni molto avviliti dalle perdite subite si fermavano piangenti con la coppola in mano dinnanzi all’immagine della Vergine Maria dipinta all’angolo della strada maestra.

Quella sera prima del coprifuoco fu organizzata una processione enorme, con la recita all’unisono del rosario, mentre chi non poteva allontanarsi da casa affollava i piccoli balconi barocchi delle strade principali esponendo le coperte damascate più belle in segno di rispetto.

Fine 1ma puntata – Continuate a seguirci!

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