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Oriana Fallaci, oggi monopolizzata dalla destra “lepenista” e demonizzata (disconosciuta) dalla sinistra post-comunista, era anzitutto un’intellettuale liberale: chi, in Italia, si fregia di tale effige (esplicitamente o meno) va incontro all’isolamento o alla morte civile – la cultura, com’è noto, è il feudo di una parte politica ben precisa. Ma, sulla scia di Benedetto Croce – della cui filosofia condivise anche il riconoscimento della rivoluzione cristiana quale evento fondativo della nostra cultura –, la libertà era per lei una religione, un’esigenza anzitutto interiore e poi, va da sé, civile, politica: «la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere» recita uno dei suoi aforismi più celebri.

La Fallaci era anche, più semplicemente, un’”intellettuale pura” (per come tale espressione la intendeva Norberto Bobbio), convinta com’era che la funzione politica della cultura fosse la difesa della libertà – perciò la sua ascesa nel pantheon degli intellettuali più discussi in assoluto, assieme a quella di Indro Montanelli, l’altro grande solista del giornalismo italiano, ha il carattere dell’eccezionalità: il secondo dopoguerra ci ha abituati agli intellettuali organici (altro triste lascito di Antonio Gramsci), l’attualità ai martiri di cartapesta e agli anziani demagoghi col posto fisso in Rai.

Appena sedicenne, la Fallaci fu staffetta partigiana per Giustizia e Libertà (per l’appunto) e fu proprio in virtù della sua coscienza intimamente liberale – o forse perfino anarchica, comunque antidogmatica – che si tenne alla larga da associazioni anacronistiche e sussiegose come l’Anpi, colpevoli di aver negato, nell’antifascismo militante, l’antifascismo autentico (tutt’oggi l’eco mediatica che ha ogni dichiarazione ufficiale di quest’associazione illiberale e persino antisemita è un mistero).

Il resto della sua vicenda biografica è noto e non è intenzione di chi scrive farne l’ennesimo sunto: la sua vita rileva nella misura in cui serve a chiarificare il suo mistificato ed equivocatissimo pensiero. Solo il nostro establishment mediatico-culturale, infatti, poteva liquidare Oriana Fallaci nella dicotomia fra la gruppettara libertaria e femminista degli anni ‘70 e la vecchia megera sociopatica autoreclusa nel suo eremo newyorkese dagli anni ‘90 in poi – versione ovviamente avallata dalla nostra tv di Stato che, permeata com’è di mediocrità democristiana, ha confezionato sulla sua vita una mini-serie scialba e dozzinale (bisognerebbe fare un appello a Netflix affinché s’incarichi di narrare come si deve, dal punto di vista della giornalista italiana più famosa nel mondo, la mondanità hollywoodiana dei tardi anni ‘50, la pretestuosa e sgangherata avventura statunitense in Vietnam, la strage in Piazza delle tre culture a Città del Messico – nell’ambito della quale la Fallaci, creduta morta, finì in obitorio: è già un’ottima sceneggiatura – e decine di avventure assai cinematografabili ma neutralizzate, nel piccolo schermo, in un brodino ad alta digeribilità à la Don Matteo tipico delle produzioni Rai).

La discussa “Trilogia di Oriana Fallaci” era anch’essa l’ennesima appassionata difesa della libertà, minacciata ieri dai totalitarismi novecenteschi e dai loro longevi strascichi e oggi – con buona pace degli islamofili – dall’innesto massivo, nella cultura laica e liberaldemocratica occidentale, di una mentalità rigidamente teocratica. Ma contro quei tre saggi si mobilitò un’intera legione di scienziati sociali e personalità legate alla cultura e allo spettacolo – dalle più alte, come Pietrangelo Buttafuoco e il compianto Umberto Eco; alle più mediocri, come Dario Fo e Sabina Guzzanti – che, in estrema sintesi, li liquidarono come il delirio uterino e solipsista di una donna alle prese con le proprie rughe («la giornalista scrittrice che ama la guerra / perché le ricorda quand’era giovane e bella» cantava Jovanotti in “Salvami”) o persino diagnosticandole una forma di demenza senile.

Ma l’unica sbavatura – più che altro un trade off, una scelta deliberata – è l’eccesso di enfasi, l’abuso d’iperboli, l’estrema semplificazione sintattica che rende il testo tanto intelligibile quanto controvertibile, «i suoi sacrifici all’altare dell’eccesso» come ha scritto Giuliano Ferrara nel miglior coccodrillo che le sia stato dedicato: «uno stile esposto a ogni equivoco – sempre Ferrara – che offre il collo ai tagliagole dei quartieri alti pur di parlare alle periferie del mondo».

Oriana Fallaci non era “islamofoba” (diagnosticare una patologia per neutralizzare il dissenso è un vecchio vizio stalinista): era semplicemente ostile a qualunque chiesa, intesa come oligarchia ortodossa e stantia che possa mettere a rischio la cultura più debole, quella liberaldemocratica, ebraico- cristiana, perché più tollerante (c’è l’impronta di Karl Popper, altro grande filosofo liberale) – a Enrico Berlinguer regalò un quadro settecentesco che ritrae un Conclave di cardinali: «l’ho comprato perché questi pretacci mi ricordano il Suo Comitato Centrale» pronunciò consegnandoglielo.

Spiccava, accanto al suo ego ipertrofico, alla sua meravigliosa vanità e al suo stacanovismo, la vocazione alla profezia: nelle stesse colonne dei prestigiosi quotidiani che ospitarono i suoi detrattori più feroci, oggi pullulano gli editoriali del senno di poi, riconoscimenti tardivi della guerra asimmetrica e priva del principio di frontalità che pur sempre guerra è (fu dunque guerrafondaia, lei?), di Parigi che ormai è persa come lei scrisse nei primi anni 2000 (!), dell’Isis come fisiologica conseguenza della scellerata campagna irachena (lo previde sul Wall Street Journal alla vigilia della guerra), dell’inderogabilità di una riforma all’interno della umma islamica.

Cosa ci resta, oggi, dopo di lei? Un’esigua schiera di inguaribili “occidentalisti” – etichetta dispregiativa con la quale qualificano anche lei, che l’America seppe criticarla ferocemente –, il sarcasmo dentro il quale “il web” annega la qualunque, un dibattito male impostato sul burkini, gli aforismi copiati&incollati da Wikiquote su Twitter dalle adolescenti che vogliono darsi un tono, un femminismo andato a male, brancolare nel buio del terrorismo, una serie di libri postumi con documentazione privatissima confezionata alla bell’e meglio a esclusivo scopo di lucro (lei che, da buona borghese, era ossessionata dalla riservatezza).

Non ci resta che rileggerla, capirla bene, leggere Joseph Ratzinger – lei che, orgogliosamente anticlericale, ne riconobbe «la bella intelligenza» – e magari anche Alexis De Tocqueville, la bussola che utilizzò per interpretare la democrazia. Ma nessun successore, non ancora, nessuno che abbia una vis polemica paragonabile: «l’alieno» (così denominò il tumore che la tormentò) ce la portò via esattamente dieci anni fa e la sua eredità culturale è tutt’oggi giacente.

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– Alex Minissale sul n° 4 (settembre 2016) della rivista ‘ParoLibera’